Nel 1925 usciva «Ossi di Seppia», esordio poetico del premio Nobel, che diceva di sé «ho scritto sempre da povero diavolo» e che a Firenze avrebbe diretto il Vieusseux
I montaliani Ossi di seppia, usciti a Torino presso Gobetti Editore nel 1925, compiono cento anni e sono uno dei massimi vertici della poesia novecentesca. Il Montale ventunenne, che nel luglio 1917, al fronte della Grande Guerra, annotava appunti sconsolati nel suo Quaderno genovese («Sono certo che tanto il mio nome, quanto la mia opera precipiteranno nell’oblio più assoluto») è stato clamorosamente smentito. Non c’è male, per chi si è sempre considerato un autore dilettante: «Ho scritto sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale […] né mi sento investito da una missione importante» (Intenzioni. Intervista immaginaria, 1946). Dilettante, né più né meno di Italo Svevo, modesto impiegato di banca per venti anni, nonostante i primi due romanzi, e ignoto dipendente nella ditta del suocero, nonostante il terzo e ultimo romanzo (La coscienza di Zeno, 1923), se non fosse stato proprio in questo stesso 1925 additato da Montale come grande romanziere. Il fatto è che il dilettantismo salva Montale, come Svevo, perché lo distingue dal professionismo allora in auge, quello dell’ufficialità dannunziana e dell’eloquenza tribunizia, vigente fino al 1945 («quarantacinque! ventotto aprile, quella volta», a detta di Gadda). Montale, più di ogni altro poeta moderno, ha riportato l’esercizio delle lettere a una misura terrena e umana, scabra e spoglia di orpelli.
Gli Ossi di seppia nascono all’insegna della «semplicità», della «chiarezza», dell’«umiltà», parole (allora come oggi) sospette e derelitte, che Montale nobilita nello straordinario articolo che s’intitola Stile e tradizione, apparso su Il Baretti di Piero Gobetti, sempre in questo memorabile 1925: «Un primo dovere [sta] nello sforzo verso la semplicità e la chiarezza, a costo di sembrar poveri. […] Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade [Carducci, Pascoli, D’Annunzio) malati di furori giacobini, superomismo, messianismo ed altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo e delle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume». Coscienza del limite, avveduto disincanto, consapevolezza civile, rispetto e ascolto dell’altro, non smania «del rifar la gente», non uso strumentale della cultura, non polemiche astratte, non protagonismi vacui. Tali le coordinate ideali che presiedono agli Ossi di seppia, il libro maturato in Liguria, in dinamico equilibrio tra terra e mare. Lo spazio marino è il luogo dell’avventura, dell’illusione, della sognata felicità, dell’irrazionale smemoramento. La terra, arida, è la sede della razionalità, del giudizio critico, della fatica di esistere: significa serietà della vita, rifiuto dell’avventura e del sogno. Tutti sappiamo che Montale trova la forza di dire no, di respingere la tentazione di tuffarsi in mare («Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra», Falsetto, vv. 5053) e consola il suo coraggioso sconforto con semplici oggetti quotidiani che possono regalare un segreto istante di felicità: come il giallo dei limoni o il «volto» d’un girasole.

Palagio di Parte Guelfa. Sede del Gabinetto Viesseux dal 1923 al 1940
Nel 1927 Montale si sottrae all’angustia genovese e volta pagina. Lasciata la Liguria e la casa di Monterosso, diventa fiorentino e tale rimane fino al 1948, quando si trasferisce a Milano, chiamato al Corriere della Sera. Nel capoluogo toscano si mantiene alla meglio con traduzioni e collaborazioni letterarie, poi dal 1929 è direttore del Gabinetto Vieusseux, fino al 1938, quando è licenziato per non essere iscritto al partito fascista. Gli anni fiorentini sono precari e difficili, tra dittatura, guerra, emergenza e inquieto dopoguerra. È una stagione buia ma intensa che Montale vive con illuminata discrezione, tanto da segnalarsi, tra i coetanei e gli amici più giovani, in tempi di chiusura nazionalistica e di superbia arrogante, come un maestro di rigore intellettuale, di rettitudine civile, di cultura aperta, spalancata sul mondo. Dai tavoli delle «Giubbe Rosse», in piazza della Repubblica (allora «piazza Vittorio»), dalle pagine di Solaria, di Campo di Marte, di Letteratura giunge la sua voce di critico acuminato e di recensore dal fiuto infallibile. A Firenze, dove conosce l’inseparabile Mosca (moglie dal 1962), amica di Svevo e zia di Natalia Ginzburg, si rinnova la voce del poeta, con accenti inediti rispetto alla desolata negatività del «male di vivere» degli Ossi di seppia. Nei versi fiorentini si avverte una caparbia volontà di resistenza, per non cedere alla resa e al silenzio, un bisogno di rinfrancata energia vitale (attinta da Dante e da Petrarca) che alimenta un nuovo orizzonte espressivo, popolato di misteriose apparizioni femminili, presenze salvifiche, interlocutrici enigmatiche che accendono tenui spiragli di luce nelle tenebre e trasmettono fuggitivi bagliori di speranza. Sono le creature che popolano il secondo libro, Le occasioni (1939), e in buona parte anche il terzo, La bufera e altro (1956).
Porta il sigillo fiorentino il secondo e fondamentale tempo della poesia montaliana, tra la Liguria e Milano: il tempo legato all’attraversamento della tragedia, dalla dittatura alla Liberazione, nel segno originalissimo di una lirica sostanziata di pensiero, di riflessioni drammatiche, di acuta intensità emotiva. E Montale (in un’intervista del 1966) si è mostrato riconoscente verso la città che lo ha ospitato, per quanto sia priva di quel mare che rende affascinante la sua Genova: «sotto il profilo della maturazione culturale, i vent’anni che ho passato a Firenze sono stati i più importanti della mia vita. Lì ho scoperto che non c’è soltanto il mare ma anche la terraferma; la terraferma della cultura, delle idee, della tradizione; dell’umanesimo. Vi ho trovato una natura diversa, compenetrata nel lavoro e nel pensiero dell’uomo. Vi ho compreso che cosa è stata, che cosa può essere una civiltà». Credo che questo sia l’elogio più alto rivolto a Firenze da un suo cittadino onorario, che qui riposa, con la moglie, nel piccolo cimitero di San Felice a Ema.
Gino Tellini Corriere Fiorentino 30 gennaio 2025
