Quando il 3 febbraio del 1865 «il migliore de’ re», Vittorio Emanuele II varcò la soglia di Palazzo Pitti per farne la sua residenza in attesa di Roma, il «Giornale Illustrato» salutava la Reggia quale «pupilla della nazione, museo di storia e cenacolo dell’arte e dei più bei prodotti del genio italiano. Residenza sovrana» era, con le sue collezioni che annoveravano da Raffaello a Michelangelo, ad Andrea del Sarto «arca della nazione, custode dell’avvenire e della grandezza d’Italia». I nuovi fasti, del palazzo che era stato dei Pitti, poi dei Medici e dei Lorena, non sarebbero durati in realtà molto a lungo. E anzi, negli inventari del 1911 si percepisce già un’aria di generale smobilitazione, tanto più che dopo la breccia di Porta Pia molto del mobilio di pregio era stato trasferito al Quirinale, a volte smembrando salotti, cicli di arazzi, suppellettili, in alcuni casi con pregiudizi di leggibilità che permangono tutt’oggi.
Il periodico toscano, tuttavia, aveva proprio ragione. Detta con la sua enfasi, ancora oggi quella residenza «ridesta grandi rimembranze storiche» grazie ad artisti che «formano una pleiade brillante come le stelle del firmamento». Per cui la ricomposizione del Complesso mediceo degli Uffizi, delle sue collezioni e della sua centralità quale più importante museo italiano, non poteva che cominciare anche da qui. Seguendo un imprescindibile risarcimento dopo cinque anni di chiusura e di oblio, in seguito a nove mesi di restauri effettuati dalle maestranze di Opera Laboratori, martedì 21 gennaio saranno riaperti infatti al pubblico proprio gli Appartamenti reali del palazzo. Un lavoro meticoloso dalle volte ai pavimenti che ha permesso la salvaguardia dei tappeti storici, lasciando a vista i parquet antichi perfettamente conservati, il restauro dei mobili, dei tendaggi, dei parati di seta, di numerosi dipinti, mobili e soprammobili. E che consegna così ai cittadini un risultato stupefacente, ovvero la resurrezione intatta, che sembra un viaggio nel tempo, di uno dei luoghi più identitari della storia italiana, caratterizzato da una stratificazione rimasta sostanzialmente inviolata e in cui ancora oggi coesistono armoniosamente reliquie del passato mediceo, della lunga parentesi lorenese, suggellate dal contributo definitivo dei Savoia che arricchirono la residenza di arredi venuti dalle regge di quasi tutti gli altri territori fin lì conquistati: Milano, Modena, Lucca, mentre dai palazzi ducali di Parma e Colorno, dicono le cronache, si mosse verso Firenze un corteo di carri carichi all’inverosimile, lungo niente poco di meno che un chilometro e mezzo.

Il percorso comincia logicamente dall’Anticamera del Re, uno dei rari spazi integralmente di epoca sabauda, per continuare con il Salotto Rosso la cui complessità, fatta di stucchi risalenti al periodo lorenese, parati in broccato fiorentino voluti da Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, granduchessa di Toscana dal 1809 al 1814 e il mobilio introdotto dai Savoia, testimonia la stratificata continuità storica del palazzo. Segue uno degli ambienti più suggestivi, ovvero lo Studio del sovrano in cui, al centro di parati fiorentini in seta improntati alla più squisita moda francese carica di accenti orientali, troneggia la splendida scrivania Luigi XVI, già della duchessa di Parma, Louise Elizabeth, e firmata dal grande ebanista Pierre II Migeon. Superate le camere da letto del Re e della Regina, il secondo climax della visita è senz’altro rappresentato dal cosiddetto Gabinetto Rotondo, stratificazione di realizzazioni lorenesi, volute da Maria Teresa d’Austria in previsione dell’ascesa al trono granducale del figlio Leopoldo, napoleoniche e, infine sabaude, allorché Margherita di Savoia impresse l’ultima e decisiva impronta facendone un salotto costellato da una panoplia di poltroncine una diversa dall’altra, alla moda dell’eclettismo vittoriano. In fondo al percorso, superata la cappella che fu di Leopoldo di Lorena, dove si può ammirare la Madonna delle Rose di Botticelli in uno dei rari ambienti rimasti sostanzialmente medicei, varcata la Sala Celeste, con i ritratti di Giusto Sustermans, a concludere al massimo della potenza si entra nell’imponente Sala del Trono. Quasi a spiegare la rivisitazione del palazzo, il trono non è nient’altro che una seduta di epoca medicea cui venne aggiunto lo stemma dei Savoia, pastiche reso possibile dalla moda eclettica imperante in Europa, ma interpretata in maniera sui generis come nel resto degli appartamenti.

A differenza delle altre potenze del continente, infatti, l’eclettismo sabaudo non puntò a esaltare le abilità produttive di un’industria capace di produrre in serie, e in funzione di un progetto nazionale, tutto ciò che nel passato era costato sforzi unici e irreplicabili, ma a dichiarare una rassicurante continuità dell’Italia unita con il passato. Timida ricomposizione borghese dei suoi vissuti feudali e in un felice rispetto della tradizione, anche nell’ambito della committenza artistica fu specchio di un troppo fragile progetto nazionale in confronto ai modelli continentali. Non aveva certo torto, però, il cronachista del «Giornale illustrato», snocciolando «il firmamento» degli artisti che abitano Pitti. Oltre ai già citati Botticelli e Sustermans, gli appartamenti che ora si restituiscono al pubblico ospitano capolavori di Santi di Tito, Carlo Dolci, Luca Giordano. Senza dimenticare, infine, che varcata una porta si entra in una delle più intatte pinacoteche antiche, la Galleria Palatina che dal 1833 e grazie alla munificenza di Leopoldo II di Lorena venne aperta al pubblico per diventare l’altro polo del complesso degli Uffizi. Qui, come per gli appartamenti reali, è in programma un vasto progetto di restauro e di adeguamenti impiantistici che porterà alla sostituzione del sistema di trattamento dell’aria, al restauro degli infissi, alla sostituzione dei parati tessili deteriorati ma, soprattutto, al rifacimento completo dell’impianto di illuminazione, oggi colpevole di rendere poco visibili i capolavori di una delle raccolte più importanti al mondo. L’investimento, per una prima fase, sarà di circa 4 milioni di euro al fine di restituire, intatto e pienamente leggibile alla coscienza degli italiani e dei cittadini del mondo, uno dei documenti più ricchi e complessi della storia nazionale.
Simone Verde Direttore degli Uffizi Sole 24 ore 19 gennaio 2029
