
Monumento a Giuseppe Giusti a Monsummano Terme
Molti pensano che Giuseppe Giusti sia un autore di «scherzi» (come li chiamava lui), ovvero passatempi innocenti in una Toscana provinciale e sonnolenta. Invece no. La sua Firenze di primo Ottocento (quella di Alfieri, Foscolo, Manzoni, Leopardi) non è provinciale né sonnolenta.
E gli «scherzi» sono tutt’altro che lazzi divertenti. Nato a Monsummano nel maggio 1809 e, dopo un’esistenza tormentata, stroncato dalla tisi a Firenze nel marzo 1850, appena quarantenne, in casa del marchese Gino Capponi (dove s’era trasferito, ospite dell’amico), nel palazzo di via San Sebastiano (oggi via Gino Capponi), e sepolto nella Basilica di San Miniato al Monte, Giusti appartiene alla categoria degli scrittori che viaggiano poco (come Leopardi, come Cattaneo) ma che vedono lontano.
L’edizione fondamentale dei suoi Versi è del 1845 (esce, per motivi di censura, a Bastia), Sono passati 180 anni e la voce che ne emerge risuona con suggestiva attualità. Sotto l’apparenza d’una facile vena epigrammatica s’avverte l’inquieta personalità d’un osservatore disincantato che diseroicizza i miti patriottici dell’epopea risorgimentale. Si pensi a Io per l’Italia (sul ritmo della «cavatina» di Figaro nel Barbiere di Siviglia), un testo del 1848, quando i volontari toscani sono in partenza per combattere gli Austriaci in Lombardia: «Io per l’Italia / mi fo squartare: / la vo’ redimere, / la vo’ salvare. / L’avere e l’essere / nessun risparmi. / Sorgete, o popoli! / All’armi! all’armi! // Quanto a proteggere / l’ordine interno, / quanto all’infamie / qui del Governo, / poter di Dio! / Ci penso io, / e ho l’occhio desto. / Andate, io resto / giusto per questo» (vv. 1-17). Tecnicamente esperto, specie nei metri brevi a imitazione popolare, Giusti ha dato la prova migliore nella satira di costume. I personaggi presi di mira sono i voltagabbana (come nel geniale Il brindisi di Girella), gli arricchiti tracotanti, i bigotti opportunisti, i tutori dell’ordine costituito intesi alla difesa dei loro tornaconti. L’invettiva colpisce l’assolutismo dei governanti, la demagogia dei populisti, l’egoismo del clero, le quotidiane meschinità della vita sociale: una sorta di minuta commedia umana tratteggiata con tagliente ironia. Girella, il funzionario statale in pensione (lautissima pensione!) che, ubriaco, confessa in prima persona, con vanto e senza vergogna, i propri misfatti di ladro e di spia che se l’è sempre cavata con successo in mezzo a tanti capovolgimenti politici, è personaggio che non fa ridere, ma accende l’indignazione: «Quante cadute / si son vedute! / Chi perse il credito, / chi perse il fiato, / chi la collottola / e chi lo Stato. / Ma capofitti / cascaron gli asini: / noi valentuomini / siam sempre ritti, / mangiando i frutti del mal di tutti» (vv. 163-173). Ciò che più indigna non sono le nefandezze impunite, quanto l’alterigia del malfattore che considera gli onesti come disabili mentali, come deficienti.
Giusti ha il talento del ritrattista che coglie con un sorriso pensoso le componenti meno nobili e meno confessabili della nostra identità nazionale. Il brillante aforisma di Mino Maccari, «Leggi Giuseppe Giusti prima che sia proibito» (Con irriverenza parlando, 1993), richiama l’attenzione sulla forza trasgressiva del poeta, sulla sua energica vocazione a irridere («In questo secolo / vano e banchiere / che più dell’essere / conta il parere» (Le memorie di Pisa, vv. 61-64) l’arroganza e il cinico opportunismo di quanti assecondano l’insolenza dei potenti e, tra Parlamentari e Faccendieri, «inchini strisciano / e reverenze» (Il ballo, vv. 23-24).
Con lungimiranza, la satira investe i governanti che tagliano i fondi per l’istruzione, come nelle strofette: Per il primo congresso dei dotti tenuto a Pisa nel 1839, che portano alla ribalta il duca di Modena, Francesco IV: «Dal mio Stato felicissimo | (che per grazia dell’Altissimo | serbo nelle tenebre) || imporrò con un decreto | che chi puzza d’alfabeto | torni indietro subito: || e proseguano il vïaggio, | purché paghino il pedaggio, | solamente gli asini». Gli strali colpiscono, come nel poemetto Il sortilegio, i processi interminabili di una giustizia lenta e strumentale. Ancora più acuminata la denuncia dei servizi deviati intesi a oscuri maneggi orchestrati nei palazzi di governo, come nelle Istruzioni a un emissario, dove si riferiscono le direttive impartite a un agente provocatore incaricato di destabilizzare la vita politica: «censurate il governo; predicate | che la pace le leggi le riforme | son bagattelle per chetar gli sciocchi | e per dar della polvere negli occhi. || […] Ci siamo intesi: lavorate; e poi, | se ci incastra una guerra, buon per voi». Si parla tanto di pace, ma si cerca la guerra, voluta dal mercantilismo internazionale e dall’aggressività dei grandi interessi finanziari, come in La guerra: «La spada è un’arme stanca, | scanna meglio la banca. || […] | Pace a tutta la terra; | a chi non compra, guerra!».
Il poeta che ha tenuto fisso l’occhio nel pantano ha cercato sempre di tutelare il dono sacro dell’amicizia, come il valore profondo della tolleranza e della fratellanza tra i popoli, tanto che nel tumulto delle battaglie risorgimentali ha trovato il coraggio di difendere l’umanità anche dei nemici, come nel celebre Sant’Ambrogio, contro l’odio tra nazioni alimentato da sovrani malefici «E quest’odio […] / giova a chi regna dividendo, e teme / popoli avversi affratellati insieme» (vv. 65-68). Umorismo amaro, anche nei riguardi di sé stesso. Dopo un’esistenza angustiata dalla malattia, scrive al caro amico Matteo Trenta, da casa Capponi, tre mesi prima di morire: «In sette anni di patimenti continui [per la tisi] avevo imparato a fare a meno della giovinezza; ora sono qui che imparo a fare a meno della salute; vedi che è un buon avviamento a fare a meno della vita».
Gino Tellini Corriere Fiorentino 14 maggio 2025

Ritratto di Giuseppe Giusti Anonimo metà XIX secolo