
L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza. L’opposto dell’educazione non è l’ignoranza, ma l’indifferenza. L’opposto dell’arte non è la bruttezza ma l’indifferenza. L’opposto della giustizia non è l’ingiustizia, ma l’indifferenza. L’opposto della pace non è la guerra, ma l’indifferenza alla guerra. L’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita e alla morte.
Sono parole che lo scrittore Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace nel 1986, pronunciò il 12 aprile 1999 alla Casa Bianca, invitato dal presidente Clinton. La forma quasi litanica è incisiva e potrebbe essere allungata a dismisura. L’indifferenza è una sorta di nebbia che confonde e sfigura ogni verità, è una superficialità che si alimenta solo di banalità e di stereotipi, è la ricusazione di ogni impegno severo e faticoso, è un’assuefazione che s’adatta a ogni dittatura sociale e politica. Apparentemente inoffensiva, l’indifferenza è come un efficace distillato di veleno che paralizza la coscienza.
Sulla rivista «La città futura» l’11 febbraio 1917 Antonio Gramsci scriveva: «L’indifferenza è il peso morto della storia, è la materia inerte che opera passivamente, ma opera… È una malattia morale che può essere anche una malattia mortale». Wiesel in quel discorso, come antidoto proponeva il «fare memoria». Infatti, è la smemoratezza nei confronti dei grandi valori e della stessa nostra eredità culturale che appiattisce e impoverisce la persona e la società. L’indifferenza, poi, diventa spesso complicità.
È ciò che suggeriva Liliana Segre, in un suo intervento del 2019: «L’indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi o ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore».
Gianfranco Ravasi Il Sole 24 Ore
