Dai palazzi agli Uffizi, viaggio a Firenze in una storia di ingegni
«Cavasi per diversi luoghi la pietra forte, la qual regge all’acqua, al sole, al ghiaccio, ed a ogni tormento, e vuol tempo a lavorarla, ma si conduce molto bene, e non v’è molte gran saldezze. Della qual se n’è fatto e per i Goti e per i moderni i più belli edifici che siano per la Toscana, come si può vedere in Fiorenza…»: è il Vasari nella sua Introduzione alle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, nell’edizione del 1568.
In realtà, le pietre di Firenze hanno sempre appassionato e interessato gli studi, dal Vasari al Del Riccio, dall’Alberti al Targioni Tozzetti, dal Baldinucci al Rodolico, e tanti altri fino ai geologi e ai petrografi dei nostri giorni, dei quali ricordiamo il Cipriani e il Malesani. Nel 1952 usciva, con la gloriosa e fiorentinissima casa editrice Le Monnier il volume Città d’Italia di Francesco Rodolico. L’ultima edizione è del 1995, uscito insieme agli Atti del convegno che organizzammo per ricordare l’insigne maestro e il suo determinante insegnamento (oggi, purtroppo, trascurato nei piani di studio) per gli studi di architettura e per l’esercizio del restauro in particolare. Rodolico, ancorato agli studi dei «naturalisti toscani del Settecento», e da questi mutuando la sistematica sollecitazione alla ricerca e alla classificazione, ci ha lasciato un monumento di letteratura scientifica, umile ed efficace.
Città di pietra Firenze, come poche altre nell’intera Europa. Ma anche città di marmi nelle sue maggiori architetture religiose: un’antologia di materiali lapidei a cielo aperto, perseguita nei secoli fino ai primi del Novecento. La «pietraforte» abbondava sulle colline meridionali della città, in sinistra d’Arno; il «macigno», la «pietra serena», la «pietra bigia» invece nelle colline fiesolane, tra Monte Rinaldi e Monte Ceceri. «Ed è tanta copia di pietre varie appo la città — ci dice il Del Riccio — che non è meraviglia che i tempii e chiese, torri, palazzi, casamenti, loggie fanno stupire i forestieri…». Così da averla «Città con gran maestria edificata et bella sopra tutte le città d’Europa».
Ma vediamone, partitamente alcuni esempi. Palazzo Pitti, sia nel suo primo impianto (le sette finestre centrali) che nei successivi ampliamenti fino ai rondò, è il più calzante esempio di impiego della pietra forte (anche per la presenza della cava nella stessa collina di Boboli, («la chava di pietre forti delle monache di Santa Felicita»); le sue poderose bozze, il suo caldo color biondo ferrigno ne fanno la tipica distintiva pietra fiorentina; impiegata dal medioevo a tutto l’Ottocento con Pasquale Poccianti. Orsanmichele è un altro inno alla bellezza della pietra forte che ne caratterizza il corpo di fabbrica sui quattro lati. Palazzo Strozzi è già un interessante ibrido fra il corpo esterno in pietra forte e il corpo interno col cortile e le sue colonne in pietra serena. Le Porte dell’ultima cerchia di Mura, la poderosa Loggia dei Lanzi, il raffinato Palazzo Uguccioni, Palazzo Rucellai, Palazzo Antinori, Palazzo Medici-Riccardi, la Fortezza da Basso e Belvedere, Ponte Santa Trinita, esprimono la loro cultura, impressa dai migliori architetti del tempo (da Arnolfo a Michelozzo, dall’Alberti ad Antonio da Sangallo il Giovane e Buontalenti), proprio con la pietra forte. Di minor qualità la pietra forte di Palazzo Vecchio, di pezzatura più piccola e tormentata da piani di calcite che la rendono più fragile alle intemperie.

Ma sarà il dirompente arrivo di Filippo Brunelleschi, ai primi del Quattrocento, a introdurre e diffondere l’impiego della pietra serena. Fin dalle sue prime commissioni (Spedale degli Innocenti, Sacrestia Vecchia di San Lorenzo) ne stimerà la bontà della lavorazione a scalpello, la possibilità di averne colonne monolitiche e non a rocchi e dunque strutturalmente più stabili. Di ritorno dal suo primo viaggio a Roma (col suo inseparabile Donatello) riproporrà un suo inconfondibile classicismo a cui gli architetti a seguire si conformeranno. Michelangelo sigillerà l’impiego della pietra serena accostandola al bianco apuano nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo, facendone un capolavoro assoluto nel Vestibolo della Biblioteca MediceaLaurenziana. Ma l’impiego più vasto e sistematico, a costituire uno dei frammenti urbani più importanti sarà la Fabbrica degli Uffizi da parte di Giorgio Vasari, notoriamente ammiratore del maestro di Caprese. Da codesto momento tutti i cortili fiorentini, caratterizzati da lati colonnati, saranno in pietra serena con colonne ricavate da un unico pezzo in cava. Il Poggi, l’urbanista che ridisegnò l’extra moenia della città, fu tra gli ultimi a impiegare la pietra serena fiesolana, per i suoi restauri e le sue ville.
Quando poi si passi ai marmi, abbiamo il Battistero di San Giovanni a fondamento, Santa Maria del Fiore, il Campanile di Giotto, San Miniato al Monte, Santa Maria Novella e più tardi Santa Croce: queste ultime col corpo di fabbrica in pietra forte e la facciata in marmo bianco di Carrara e Verde di Prato (un marmo serpentino che «sbulletta» come ci avverte il Vasari). Resta da dire della pietra «alberese» e di quella, davvero particolare sopra Pian de’ Giullari. Di alberese è l’imponente Palazzo degli Studi della Certosa del Galluzzo (voluto e pagato da Niccolò Acciaioli) e l’intero Castello degli Acciaioli nella vicina Scandicci. C’è infine la «cicerchina», un conglomerato che affiorava intorno a Santa Margherita a Montici: una pietra usata per le macine, da cui il proverbio dimenticato «da Dio vengon le grazie e da Montisci le macine».
Francesco Gurrieri Corriere Fiorentino 6 febbraio 2025
