
Forte dei Marmi, Forte LeopoldoI
31/05/2025 al 09/11/2025
I migliori amici di Cecconi. Pointer, cani da lepre, setter, bracchi: ognuno con il suo sguardo e il suo carattere
«C’è gente nei quadri di Eugenio Cecconi», osservava l’amico ed estimatore Telemaco Signorini, e quel giudizio apparentemente così vago, coglieva e coglie l’essenza di una poetica. La «gente» di Cecconi sono soprattutto i cani, ed è dunque più che giusto che la mostra Giornate di caccia e di colore (a cura di Elisabetta Matteucci, Forte dei Marmi, Forte Leopoldo I, fino al 9 novembre) dedichi una delle sue sette sezioni all’amico dell’uomo, nonché grande amico dell’artista livornese.
Cecconi cercava, a trovava, nei suoi cani caratteristiche specifiche e distinte: «non solo estetiche, fisiche, ma di indole, capaci di delineare e dare forma ad una, potremmo dire, personalità, a tal punto definita, da essere investita di una funzione primaria nel motivo pittorico, degna cioè di divenire il soggetto dell’opera stessa», ricorda Matteucci. Vivi, veri, vitali e straordinariamente empatici, ognuno col suo «sguardo», fatti per stare accanto all’uomo, i cani di Cecconi: i pointer, i cani da lepre, i setter, i bracchi, i bastardini, tutti i cani da caccia ritratti in mostra sono non solo immagini, ma anche caratteri, e ognuno si merita un affettuoso nomignolo: Farfalla, Picche, Magrina, Pireno, Lupetto, Vienna, Vespina, Fumetto, Drago, Marengo. Una schiera dei più svariati tipi, colti nella trepidante tensione venatoria, nella contesa per la preda, nella quieta naturalezza quotidiana. C’è il padrone, che non è un «padrone»: lungo il corso dell’esistenza, a dare un’impronta ai giorni, sono l’affetto e la fedeltà. Reciproci. L’eccezionale abilità di Cecconi era tanto nota e ammirata da diventare proverbiale. Nella raccolta di aneddoti di Renato Fucini, Acqua passata ,il vernacolista pisano (Neri Tanfucio) e il pittore livornese si trovano insieme, uniti dallo spirito goliardico, tra sacro e profano. Che è accaduto? È successo che Eugenio, «detto il Ceccone dei cani», ha peccato di superbia, dicendo a un potenziale acquirente inglese che nessuno dipinge i cani meglio di lui. Ed ecco che da una tela si è staccata l’immagine di un cane, è diventato carne viva e, ispirato dal Maligno, ha morso a sangue il Pittore. E tanto perché nulla manchi all’orrido scenario, è comparso anche un serpente sputando veleno addosso al povero Eugenio.
Che si fa in questi casi? Beh, da buon livornese, il pittore chiede soccorso alla Madonna di Montenero. Preghiera esaudita: il cane rientra nel quadro, il serpente si dissipa con grande odore di zolfo, il Maligno fugge dall’uscio, l’inglese acquista il quadro miracoloso. Roba da Amici miei! Ci immaginiamo Mascetti che confezione una «supercazzola»… Però, scherza coi santi e lascia stare i cani! Schietti sodali di Cecconi ma anche di Fucini. Tanto è vero che una delle sue poche poesie in lingua (cinquanta) è intitolata Il mio cane. Leggiamola: «Piange se parto, se non torno geme,/ Tanto l’affetto mio nel cuor gli preme./ Se di un fallo la mia man lo punisce, /Dolce mi guarda e quella man lambisce/ Che a su tempo gli dà carezze e pane./ Additatemi un uom che a lui somigli!…/ O mamme, o mamme, quando passa un cane, / Additatelo ai figli». Enfatica, zuccherosa, retorica, esagerata, stucchevole? Sì, ma Renato ci credeva. E ci credeva Eugenio. Certo, il Livornese — spirito indipendente spirito ma nutrito dai Macchiaioli, dunque in sintonia con Martelli, Borrani, Abbati, Sernesi, Fattori, Signorini, Lega — era uscito all’aperto, sotto il cielo, nei campi, era andato a caccia, si era messo a contemplare albe e tramonti. Ci credeva. Dunque bisognava portar via dallo studio tavolozza e pennelli, respirare, vedere. E bisognava avere accanto chi ci dà fiducia, chi si fida di noi, chi sta insieme a noi e ci rimane per tutta la vita. Gli amici del Sodalizio di Castiglioncello, da cui si impara e con cui si beve, si scherza, si ride. Gli amici cani che vivono nelle tele e nei disegni. E sono nelle «opere» perché sono nei «giorni». Fuori dagli atelier.
Lo proclamano a chiare note — stare dentro la vita, tra la gente — gli «scandalosi» Impressionisti; lo proclamano, insieme a loro, nello stesso tempo Macchiaioli, Labronici e, appunto, Eugenio Cecconi che intreccia e potenzia variegati motivi ispiratori in mezzo a quel che ci vien voglia di chiamare il suo «popolo». Lo incontriamo, lo tocchiamo da una sezione all’altra della mostra. E se i cani sono un contrassegno, di «gente» ce n’è anche altra. Fioriscono visioni nella «Luce dell’Etruria», nella «Maremma fatale e fatata», tra le «Fiere donne». Donne dolci, docili, dunque indomabili. Butteri e cacciatori, gli uomini, forti e scontrosi. Le donne impegnate nei lavori domestici e nei campi, o dedite a offrire i doni della terra, come fienaiole, raccoglitrici, lavandaie, traghettatrici, venditrici di aranci e di polli. Umili, ma nobilitate da una fierezza antica. Tra paesaggi dove il valore è dato dai ritmi e dai riti della terra.
In tutte le opere di Cecconi (dalla Sera sul lago di Massaciuccoli alle Pollaiole gabbrigiane alle Fienaiole in riposo)è come se si percepisse il senso antico di una preghiera. Il genius loci, le forze primigenie nutrono il cuore, il colore, la rappresentazione. Niente di idillico, intendiamoci, ma una continua acquisizione del vero, senza sconti.
Mario Bernardi Guardi Corriere Fiorentino 17 giugno 2025
