Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento alla Fiaccolata di solidarietà per la Francia in Piazza Ognissanti a Firenze
Il Quirinale diventi museo, è la casa di tutti noi.
Gian Antonio Stella Corriere della Sera 30 dicembre
«Il Quirinale è la casa degli italiani», ha detto più volte Giorgio Napolitano. È una frase molto bella. Espressa, ne siamo certi, con sincerità. Gli italiani, però, possono entrarci poco. Sarebbe un torto alle istituzioni scegliere per il capo dello Stato una sede nobile ma diversa spalancando finalmente a tutti uno dei palazzi più importanti del pianeta?
Conosciamo l’obiezione: ma come, adesso? Non c’è il rischio, in questi tempi di sbandamento, di intaccare una delle figure che ancora godono di largo prestigio popolare? Tesi dura da sostenere: Francesco ha scelto di abbandonare gli appartamenti papali per vivere nei pochi metri quadri di una delle camere con salottino del convitto Santa Marta. E mai Papa ha goduto di tanto prestigio e tanto affetto popolare.
Napolitano, nella scia di Carlo Azeglio Ciampi e altri ancora, ha reso onore al Quirinale. E a buon diritto può rivendicare di avere contenuto le spese: il palazzo costa oggi, contando l’inflazione, meno che nel 2008. E i tagli, compreso quello di 507 addetti, sarebbero stati più vistosi se alcuni costi mostruosi come quello delle pensioni (90 milioni sui 228 della dotazione 2014) non fossero imbullonati alla difficoltà enorme di toccare i diritti acquisiti, sia pure spropositati.
Resta il fatto che la reggia che ospitò i Papi, i Savoia e infine i presidenti della Repubblica, proprio perché è molto più grande e più ricca e più costosa nella manutenzione, come il Colle precisa ogni volta che c’è una polemica sui confronti con l’Eliseo o Buckingham Palace, pesa sulle pubbliche casse più di ogni altro. Nuova obiezione: ma è aperta al pubblico! Sì, alcune stanze di rappresentanza e, precisa il sito, «quasi ogni domenica». Dalle 8.30 alle 12. Tranne l’estate: chiuso. Più le visite delle scuole: un’ora a settimana. Su appuntamento. Più i concerti nella cappella Paolina, tre o quattro al mese da ottobre a giugno. Più le mostre temporanee nelle Scuderie. Come quella del 2013 su Tiziano che richiamò 245.979 turisti. Un piccolo trionfo, con 2.365 visitatori al giorno. Ma comunque all’80° posto nella classifica mondiale. Dopo «La poetica della carta» al Getty Center di Los Angeles.
La Hofburg di Vienna, per secoli cuore del potere degli Asburgo, ospita oggi solo un ufficio di rappresentanza della presidenza più la sede dell’Osce e soprattutto una straordinaria rete di istituzioni culturali. Dal museo di Storia naturale alla Biblioteca Nazionale, dall’Albertina alla Scuola d’Equitazione Spagnola fino al celebre Kunsthistorisches che fa da solo un milione e 300 mila ingressi l’anno.
Lo stesso re di Spagna vive alla Zarzuela e utilizza il Palazzo Reale (formalmente ancora sede della casa regnante) solo per certe cerimonie ufficiali ma il Palacio Real madrileno è aperto al punto di avere accolto nel 2013 oltre un milione di turisti. E lo stesso doppio uso è in vigore da altre parti, come in Svezia, dove la reggia di Stoccolma è aperta tre ore al giorno dal martedì alla domenica nei mesi invernali e tutti i giorni per sei o sette ore in quelli estivi.
Per non dire dei casi storicamente più eclatanti. Il Louvre che da moltissimo tempo non ospita il re di Francia (o il presidente della Repubblica, che sta all’Eliseo, un palazzo minore donato da Luigi XIV a madame de Pompadour) attira ogni anno nove milioni di turisti, la Città Proibita di Pechino dodici.
Diciamolo: è un peccato che tanta apertura non sia possibile al Colle. Certo, è curioso entrarci con la «visita virtuale» offerta dal sito web e «ammirare la ricchezza artistica del Palazzo» grazie alle «immagini “immersive” (come se il visitatore fosse nelle sale o nei corridoi) ad alta definizione». E fa venire l’acquolina in bocca spostarsi dal Cortile d’onore al salone dei Corazzieri, dalla Cappella Paolina dove si svolsero quattro conclavi (ultimo quello che elesse Pio IX) alla Sala delle Virtù e via così. E come dice il cicerone web «tra le tante tappe ci si può soffermare su affreschi di Guido Reni, Pietro da Cortona e altri…». Ma sempre virtuale è.
Lo diciamo oggi perché Napolitano ha già annunciato le dimissioni e ancora non si sa chi avrà l’onore e l’onere di prendere il suo posto. Sarebbe sgarbato chiedere «dopo» al nuovo capo dello Stato di lasciare quel palazzo già occupato da vari Papi, quattro re d’Italia e dieci (non undici: Enrico De Nicola da «provvisorio» preferì palazzo Giustiniani) presidenti. Ma in questi giorni «neutri», a cavallo fra il prima e il dopo, vale la pena di riproporre quanto già altri avevano suggerito. Nella sua autonomia, il nuovo capo dello Stato potrebbe «dare aria» alle Istituzioni trasferendosi in un altro palazzo, bellissimo ed elegantissimo, come dicevamo, per spalancare il Quirinale agli italiani e agli stranieri che accorrerebbero entusiasti alla scoperta di quelle stanze finora in gran parte chiuse. E fare di quel Palazzo di 1200 stanze un grande museo in grado di sbaragliare, con la sua storia, i suoi capolavori, le sue collezioni di arazzi o orologi, le sue mostre temporanee in spazi meravigliosi, ogni concorrenza mondiale.
Certo, molti funzionari, burocrati, dirigenti che si erano abituati a vivere in quella bambagia, storcerebbero il naso: ma come! la tradizione! il decoro! Gli italiani però, ci scommettiamo, vedrebbero la svolta con simpatia. E la leggerebbero, di questi tempi, come un gesto di sobrietà, di riconciliazione, di amicizia.
Firenze:Volti dell’Ermetismo.
Venturino a Villa Bardini e all’Archivio Bonsanti
14 novembre 2014 / 15 febbraio 2015
Orario: martedì-domenica 10-19, chiuso lunedì
In occasione dei cento anni dalla nascita dei poeti Mario Luzi, Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi, la Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron e il Gabinetto Vieusseux presentano la mostra “Volti dell’Ermetismo. Venturino a Villa Bardini e all’Archivio Bonsanti”.
Attraverso l’esposizione di ottanta opere di Venturino Venturi e in particolare dei ritratti dei protagonisti della grande stagione poetica dell’Ermetismo, la mostra darà conto della singolare osmosi che si venne a creare tra poesia e arte visiva nella Firenze del secondo ‘900. Curata da Lucia Fiaschi, la mostra ha la sede principale a Villa Bardini, dove saranno esposti i ritratti e, per la prima volta, trenta oli su carta della serie degli astratti degli anni Sessanta. Completa l’esposizione un prezioso pendant all’Archivio Bonsanti del Gabinetto Vieusseux con una selezione sempre di ritratti, tracciati a china con formidabile essenzialità, astratti degli anni Quaranta e Cinquanta, album, monotipi e matrici.
Tutte le opere in mostra testimoniano la centralità della figura di Venturino nella rete culturale degli scrittori e dei poeti attivi a Firenze nella stagione ermetica.
Venturino (1918 – 2002) si accosta al ritratto nel 1938, quando, ancora studente d’arte a Firenze, realizza la sua prima prova con il Ritratto di Ottone Rosai. Seguirà questa strada per tutta la vita, anche se pochissimi ritratti saranno consegnati ai modelli: quasi tutti rimarranno nello studio a testimonianza di legami inscindibili, oltre ogni considerazione estetica, psicologica e di opportunità. Per prima verrà la stagione dei ritratti intimi dei familiari e degli amici, poi a partire dal 1953, in contemporanea con l’impresa di Collodi, sarà la volta delle effigi di coloro che gli furono sodali sul piano delle consonanze intellettuali: Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Giovanni Michelucci, Vittoria Guerrini (alias Cristina Campo), Mario Bergomi e Vito Taverna.
Nel 1953, Venturino vince, in ex-aequo con lo scultore Emilio Greco, il concorso per un Monumento a Pinocchio a Collodi. Il progetto originale rimarrà incompleto. La stampa e autorevoli voci scenderanno in campo per convincere la giuria a far terminare l’opera, tra queste quella di Alessandro Parronchi. La volontà ferrea e l’impegno disperato condurrano Venturino a portare a termine la parte dell’opera dei mosaici, ma subito dopo cederà alla fatica e alla delusione e sarà ricoverato a San Salvi. Il 1960 segna il ritorno di Venturino sulla scena dell’arte, festeggiato con due importanti mostre: una alla Strozzina a Firenze e l’altra all’Università di Pisa, quest’ultima a cura di Ragghianti. A partire dal quel momento e fino alla fine degli anni Sessanta, Venturino darà vita alla terza sequenza dei ritratti, quelli di Romano Bilenchi, Piero Bigongiari, Leone Traverso, Vasco Pratolini e Giuseppe Ungaretti. Diversi per materia, cemento, macigno, marmo verde di Prato, marmo bianco di Carrara, pietra savonniére del Lussemburgo, legno, ma tutti egualmente assoluti, liberi ciascuno dalla soggezione al modello, concepiti con slancio e impeto eccezionali.
Non facciamone il centenario dell’Italietta
Articolo di fondo della rivista “Storia e storie di Toscana” del direttore Pierandrea Vanni
La guerra è la più sciagurata delle imprese umane. Lo è così tanto da rappresentare una costante nella storia del mondo.
La prima guerra mondiale, per essere stata tale, per essere stata soprattutto guerra di trincea, per di più con l’impiego delle prime armi di distruzione di massa, è risultata fra le più sciagurate.
Questa premessa è necessaria per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Ma il rifiuto, anzi il ripudio della guerra per usare un termine inserito nella carta costituzionale, non significa cancellare l’oscuro sacrificio di migliaia di soldati e dimenticare che per l’Italia si trattava di portare a compimento l’unità nazionale e di concludere il ciclo risorgimentale.
Per un certo periodo nei libri di scuola la “Grande Guerra” veniva indicata come la IV guerra di Indipendenza. Solo retorica? Può darsi ma allora è retorico l’intero risorgimento e lo sono persino i primi moti con i quali si chiedevano ai governi dell’epoca di introdurre libere elezioni e di rinunciare all’assolutismo.
Oggi si chiede di riabilitare i disertori, o ritenuti tali, fucilati. C’è chi propone di chiedere scusa ai soldati mandati a combattere e chi contrappone l’eroismo della truppa alla fellonia dei generali e dei vertici militari, dipingendo la solita immagine di una Italietta approssimativa. Tutto legittimo, per alcuni aspetti anche vero, ma si può dire che questo è davvero uno strano modo per prepararsi a ricordare il centenario del 24 maggio 1915?
Da Redipuglia Papa Francesco ha ribadito con forza il no alla guerra e ha lanciato il suo monito ad una umanità che non rinuncia a combattersi, al tempo stesso ha reso omaggio ai caduti, a tutti i caduti, senza distinzioni. Un anniversario così significativo dovrebbe servire a questo ma anche a ricordare lo spirito di sacrificio di quanti erano al fronte, la consapevolezza di tanti di loro, sicuramente non tutti, di combattere per il Paese, anzi per la Patria. E di rappresentare la volontà, il desiderio o la speranza di una parte non piccola del popolo italiano. Non esistevano i sondaggi e dunque non si può sapere che dimensione avesse quella parte, ma era interclassista, politicamente traversale e certo non era costituita solo da generali ed esponenti dell’industria bellica.
La consapevolezza delle sofferenze patite, dei tanti drammi che sono comuni alle guerre, degli errori e degli eccessi commessi e dell’incapacità di una parte della classe dirigente, rappresentano tutti tasselli di un mosaico che certo non va dimenticato. E tuttavia ricordare e sottolineare solo questi aspetti significa proporre una sorta di verità monca, dunque parziale ma anche per certi aspetti ingiusta proprio nei confronti di chi non si tirò indietro e si fece carico di un peso enorme. Compresa una parte importante dello Stato e della classe dirigente.
Il tiro a segno che è iniziato prima ancora di entrare nel 2015 lascia perplessi. Sembra quasi che ci si debba cospargere il capo di polvere solo perché l’Italia si accinge a ricordare, sicuramente con sobrietà visti i tempi difficili, meglio se senza retorica. Ma il lungo tempo trascorso, l’essere in Europa con i nemici di allora, i cambiamenti enormi che ci sono stati, tutto questo e altro ancora è cosa ben diversa dal voler rappresentare per l’occasione l’Italia come uno struzzo. O nella migliore delle ipotesi come un Paese afflitto da strabismo, e, peggio, da una sorta di autoflagellazione ben al di là di “colpe” individuali e collettive che non possono offuscare i meriti, il coraggio, l’altruismo e il sacrificio di molti.
La città capitale
FIRENZE
Prima, durante e dopo
Autore Zeffiro Ciuffoletti
Editore Le Lettere
Anno 2014
Prezzo 16,50
Carlo Cattaneo ne La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, fece di Firenze e della sua storia il simbolo della città moderna e della civiltà: “Ciò che contraddistingue le città toscane e soprattutto Fiorenza è l’aver diffuso sino all’ultima plebe il senso del diritto e della dignità civile. Superarono in ciò anche l’antica Atene; la cui gentile cittadinanza aveva pur sempre il barbaro sottostrato della schiavitù”. Sono parole del 1858, quando Firenze stava per assurgere a città-chiave del Risorgimento italiano, per poi diventare nel 1865, a quattro anni dalla nascita dello Stato Unitario, la capitale del nuovo Regno, così come aveva auspicato Massimo D’Azeglio già nel 1861.
Quella della capitale fu un esperienza sconvolgente, ma si inserì in un fase di intenso sviluppo della città che avrebbe cambiato il suo volto e fissato una nuova connotazione urbanistica che ha retto sino ai giorni nostri. Firenze raddoppiò la sua popolazione e diventò una città che senza rimpiangere il suo grande passato, ma anzi mitizzandolo divenne più moderna ed europea.
Questo libro ricostruisce in ogni suo aspetto politico, urbanistico, culturale e sociale le vicende che precedettero e poi seguirono l’esperienza breve e straordinaria della città capitale.
Zeffiro Ciuffoletti studia all’Università di Firenze, dove si laurea nel 1968 con Carllo Francovicho esponente di rilievo della cultura azionista fiorentina e autorevole storico del Risorgimento. Ha insegnato dal 1976 al 1979 nell’Università di Siena come professore incaricato di Storia del Risorgimento. Dal 1980 è diventato ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Firenze . Ha insegnato Storia sociale della comunicazione presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” della stessa università. Ha insegnato al Middliebury College (Vermont-USA).
È autore di saggi di storia politica e sociale, di storia sociale della comunicazione, di storia dell’agricoltura e dell’alimentazione. È membro dell’Accademia dei Georgofili e di altre istituzioni scientifiche nonché di riviste come Rivista di storia dell’agricoltura, Nord e Sud. È vicepresidente della “Società toscana per la storia del Risorgimento”. È editorialista de la Nazione e cura la rubrica “I sapori della storia” per il quotidiano economico Italia Oggi.
1915-2015, è l’ora di fare giustizia.
Le istituzioni mostrano scarso interesse per la Grande guerra, evento fondativo della nazione. Ma per fare i conti con il passato prima occorre riabilitare le vittime delle esecuzioni sommarie
Antonio Polito La Lettura (Corriere della sera) domenica 21 dicembre
Meno male che c’è la prova d’appello del 2015. Eh sì, perché il «nostro» anniversario della Grande guerra arriva un anno dopo, l’anno prossimo, esattamente il 24 maggio (quando il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei nostri fanti). E dunque c’è speranza che si risvegli una riflessione politica e culturale su quello che è stato, seppur mezzo secolo dopo l’Unità, un atto fondativo della nazione Italia.
Nonostante l’interesse dei media, le istituzioni hanno finora guardato quasi con indifferenza a questo centenario. Al Sacrario di Redipuglia, dove sono sepolti i morti nel fango del Carso, c’è andato il Pontefice, ma non il premier. Altri Paesi, come la Francia e il Regno Unito, hanno un rapporto più risolto con la loro memoria. In fin dei conti, per i francesi è l’ultima guerra veramente vinta, e per gli inglesi quella più dolorosa. Chiunque si sia trovato a Londra alle ore 11 del giorno 11 dell’undicesimo mese dell’anno, e abbia assistito al minuto di silenzio che ferma spontaneamente e letteralmente tutto il Paese, sa che significato ha tuttora per quel popolo l’armistizio che mise fine alla Grande guerra.
Noi italiani invece, pur avendola vinta, non amiamo ricordarla. Ci sono almeno tre buone spiegazioni di questa rimozione collettiva. Ed è proprio su di esse che varrebbe la pena di riaprire un dibattito nazionale.
La prima ragione è il pacifismo-irenismo che è diventato la religione civile della nostra cultura popolare. Ogni guerra è ingiusta, figurarsi quella marchiata a fuoco da Benedetto XV come un’inutile carneficina, e che nella storiografia viene sempre più presentata come il frutto di un impazzimento collettivo, la conseguenza irrazionale del comportamento di un gruppo di Sonnambuli , secondo il titolo del fortunato bestseller di Christopher Clark (Laterza).
Come sostiene Mario Silvestri nello splendido Isonzo 1917 (Bur), un grande libro di storia scritto da un grande profano (l’autore era un docente di Impianti nucleari del Politecnico di Milano), nel discutere della Grande guerra «siamo ancora sotto il ricatto dell’enorme sacrificio compiuto», e della convinzione che «tale sacrificio fu sterile, anzi devastatore, che i caduti morirono invano e per ragioni ingiuste». Eppure, ciò nonostante, il nostro sentimento dovrebbe essere quello così ben riassunto da uno scrittore francese: «Odio la guerra, ma amo coloro che l’hanno fatta».
È infatti amore ciò che non può non sentire chi provi oggi a fare i conti con la memoria di quegli uomini, leggendo la vasta letteratura che — anche grazie all’iniziativa editoriale del «Corriere» — ha raggiunto le librerie e le edicole; o anche solo visitando i luoghi nei quali la tragedia si è consumata. Sono stato in pellegrinaggio quest’estate sul Pasubio, nel Trentino, dove si è combattuta per anni una guerra di così alta quota come mai prima e mai dopo nel mondo, tra la neve e il ghiaccio, prima che tornassero i prati, per parafrasare il titolo del film di Ermanno Olmi; una guerra nella quale, ancor più che il nemico, i Kaiserjäger , alpini austriaci, si sfidava la natura.
Ebbene, basta guardare dal basso il Canalone Battisti, la stretta gola lungo la quale l’irredentista trentino si inerpicò con un centinaio di uomini, trascinando su una pendenza impossibile armi, artiglieria e muli, solo per essere catturato dagli austriaci una volta in cima e poi impiccato come traditore; basterebbe quella storia per amare chi ha fatto la guerra. E per chiedersi perché mai di Battisti, di Damiano Chiesa, di Fabio Filzi, nomi che ancora affiorano dalla mia memoria di scolaro alle elementari, oggi non parli più nessuno.
Averli amati poco, questi eroi per scelta o per caso, fu del resto la colpa all’origine della seconda causa di questa rimozione collettiva: il fascismo. È anche per reazione all’enfasi retorica che il regime mise sulla Vittoria, ben testimoniata proprio dalla magniloquenza del Sacrario di Redipuglia, che oggi ne abbiamo pudore. È come se la coscienza democratica del Paese temesse ancora di confondere la memoria e il rispetto per i caduti con un cedimento alla propaganda nazionalista di Mussolini. Eppure fu proprio per non aver saputo amare quegli ex combattenti, quei reduci, la generazione più mutilata della storia, che perse gambe, braccia, mani, occhi, talvolta perfino il volto, perché scagliata come carne da macello contro la più letale artiglieria della storia, che in Italia il mito della «vittoria mutilata» venne regalato all’autoritarismo fascista (a proposito di mutilazioni, è da leggere l’inquietante Ci rivediamo lassù , romanzo di Pierre Lemaitre uscito quest’anno da Mondadori).
Ma per amare coloro che hanno fatto la Grande guerra bisognerebbe infine, e forse innanzitutto, riparare a un grande torto, riconoscendo formalmente le atrocità commesse nei confronti dei soldati italiani dai comandi militari. In due saggi di grande successo editi quest’anno da Mondadori, La guerra dei nostri nonni di Aldo Cazzullo e Italiani voltagabbana di Bruno Vespa, si riapre questo dolorosissimo capitolo.
L’occasione del centenario italiano deve essere usata per avviare un rigoroso processo storico di riabilitazione delle tante vittime innocenti di una disciplina militare sanguinaria, che credeva di poter forgiare una forza combattente con la minaccia delle esecuzioni, e giustificare ogni sconfitta scaricandone la colpa sulla vigliaccheria o il tradimento della truppa. Era un’epoca in cui dominavano le teorie militari del colonnello francese de Grandmaison, che predicavano l’«attacco a oltranza», l’offensiva per l’offensiva, l’assalto alla baionetta contro una potenza di fuoco mai vista prima sui campi di battaglia. La dottrina che portò nel 1916 alla follia di Verdun, descritta da Alistair Horne nel suo Il prezzo della gloria (Bur). E dunque chiunque esitava, o anche solo ragionava, prima di andare incontro a morte certa (l’80% della fanteria italiana di prima linea è deceduta in combattimento), veniva punito, e ogni insubordinazione sanzionata con la fucilazione.
Vespa cita statistiche che assommano a 200 mila imputati per diserzione, 170 mila condannati, e 750 condanne a morte eseguite in Italia, le più numerose tra i Paesi belligeranti; cui vanno aggiunte almeno trecento esecuzioni sommarie e migliaia di vittime di decimazioni molto spesso scelte a sorteggio («Ho dato disposizione che alcuni soldati, colpevoli o no, fossero passati per le armi», scriveva il Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata). Capitò perfino a uomini appena arrivati al fronte di essere puniti per atti di diserzione cui non potevano aver partecipato (Cazzullo racconta un processo farsa non dissimile da quello narrato da Stanley Kubrick nel suo Orizzonti di gloria ).
Il ministro Roberta Pinotti ha insediato di recente una commissione «per far luce sui soldati italiani fucilati, vittime di singole esecuzioni o di decimazioni sommarie effettuate sul posto, senza processo». Il Pd ha presentato una proposta di legge. È un buon inizio.
Nessun discorso nazionale sulla Grande guerra può infatti cominciare senza una solenne riconciliazione della Repubblica con i discendenti e le famiglie dei soldati il cui nome è stato infangato ingiustamente. Amare è prima di tutto rendere giustizia.
Rosalia Montmasson, la garibaldina di Crispi
Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera Domenica 21 dicembre
Non ho letto il suo libro su Francesco Crispi, posso immaginare in che scarsa considerazione sarà stata tenuta Rosalia Montmasson, che fu la moglie ed ebbe l’ardire di unirsi ai Mille. Il motivo della lite tra i coniugi pare sia stato il voltafaccia di Crispi che abbandonò i repubblicani per schierarsi con i monarchici, ma non so se Lina Barbagallo fosse già l’amante di Crispi. Essendo al corrente delle vicende potrebbe narrarle?
Franca Piccinini
Cara signora Piccinini,
non credo che lo scoglio su cui naufragò l’unione di Francesco Crispi con Rosalia Montmasson fosse una divergenza politica. Si erano incontrati a Torino, dopo il fallimento dei moti mazziniani del 1853. Sembra addirittura, secondo fonti difficilmente verificabili, che l’incontro abbia avuto luogo nel carcere di palazzo Madama, dove Crispi fu custodito per qualche giorno prima della sua estradizione e dove Rosalia, giunta a Torino dalla Savoia, lavava e stirava. Lui aveva 35 anni, era già noto per il suo impegno politico e piaceva alle donne; lei ne aveva 28, era attraente, sensuale, robusta, piena di coraggio e passione. Quando Crispi fu espulso dal Regno di Sardegna e s’imbarcò a Genova per Malta, Rosalia lo seguì. Il loro soggiorno nell’isola durò soltanto un paio d’anni. Non appena ricominciò a fare politica con la comunità degli esuli, Crispi attirò l’attenzione del governatore e dovette andarsene. Ma prima di lasciare Malta volle regolarizzare il suo rapporto con Rosalia. Cercarono qualcuno che li sposasse segretamente, alla vigilia della partenza per Londra, e si imbatterono in un prete vagabondo che li unì in matrimonio frettolosamente nella sua camera da letto. A Londra, dove viveva Mazzini, la donna di Crispi entrò nel giro della grande cospirazione. Dagli inizi del 1859 , mentre il Regno di Sardegna si preparava alla guerra contro l’Austria e i patrioti italiani rientravano in Italia, non vi fu fase dell’organizzazione in cui Rosalia non facesse coraggiosamente la sua parte. Aiutò Crispi portando messaggi e ordini da Londra al continente, salpò con i Mille da Quarto a bordo del Piemonte, curò i feriti sul campo di battaglia di Calatafimi, fu amata e rispettata dagli uomini con cui combatteva. Insieme a Jessie White Mario, la moglie americana di Alberto Mario, Rosalia Montmasson fu per qualche tempo una first lady del Risorgimento. Più tardi, dopo l’unificazione, i reduci della spedizione in Sicilia vollero renderle omaggio offrendole una croce di diamanti che portava sul petto come una decorazione. Il rapporto con Crispi cominciò a incrinarsi quando il governo e il Parlamento si trasferirono a Firenze, fra il 1865 e il 1870. Lui era ormai un leader politico, frequentava i salotti della nuova capitale, aveva stretto una nuova relazione; lei amava il lusso, riempiva il suo guardaroba di vestiti eleganti, beveva troppo e troppo spesso. La separazione, quando Crispi decise di sposare la giovane Lina Barbagallo, figlia di un magistrato borbonico, fu per Rosalia il colpo da cui non riuscì più a sollevarsi. La ferì e la umiliò soprattutto la spiegazione che Crispi aveva il diritto di sposarsi perché il matrimonio di Malta, celebrato di nascosto da un prete compiacente, non aveva alcun valore. Fu un breve e raro motivo di conforto l’incontro in via Nazionale a Roma con un uomo che le buttò le braccia al collo piangendo di gioia. Era un garibaldino che lei aveva assistito a Calatafimi bendandogli la ferita con la sua camicia.
Sergio Romano
Lorenzo Viani e la Grande Guerra a Viareggio
La Grande Guerra di Lorenzo Viani -Viareggio-Parigi-Il Carso.
Pittura e fotografia della Grande Guerra in Lorenzo Viani e Guido Zeppini
Sabato 6 dicembre alle ore 17 a Viareggio, presso Villa Argentina, via Fratti angolo via Vespucci, si terrà l’inaugurazione della mostra “, curata da Enrico Dei. . La mostra, a ingresso libero, rimarrà aperta fino al 1° marzo 2015 con il seguente orario: 10.00-13.00 e 15.30-18.30, chiuso lunedì (aperto 8 dicembre, chiuso 25 dicembre e 1° gennaio). Per informazioni si può contattare il numero telefonico: 334/6490850. Si tratta di un viaggio che dura da cento anni, dallo scoppio del primo conflitto mondiale, e che ora viene esplorato attraverso i lavori del più importante espressionista italiano, il viareggino Lorenzo Viani e del capitano medico, e fotografo dal fronte, Guido Zeppini. Oltre 120 opere – di cui dieci xilografie inedite di Viani – tra disegni, quadri, fotografie, oggetti privati e ricordi dell’artista. La Grande Guerra, dunque, sarà il palcoscenico di questa esposizione, dedicata, nelle intenzioni degli organizzatori – Provincia di Lucca, ente capofila del progetto insieme a Fondazione Mario Tobino, Fondazione Festival Pucciniano, Comune di Viareggio e Soprintendenza BAPSAE di Lucca e Massa Carrara, con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e Fondazione Banca del Monte di Lucca – ai 381caduti viareggini, che partirono giovanissimi nelle loro divise grigio verdi, senza mai più fare ritorno a casa. Lorenzo Viani in divisa grigioverde, dipinge e disegna scene di civili coinvolti, loro malgrado, nella follia armata: anonimi e umili soldati, attori di sanguinari scontri subiti e commessi. I suoi capolavori ci appaiono come un diario di guerra: nere croci di un cimitero, macabri funerali, trincee come tombe, terrore di battaglia. Guido Zeppini, invece, ci consegna quell’orrore con l’occhio attento e veritiero del fotografo, che immortala scene di soldati, accampamenti, carneficine, trincee, rovine di abitazioni bombardate, vita quotidiana nelle interminabili ore di attesa e di paura, offrendo al visitatore uno spaccato reale, e molto emozionante, di quello che fu il primo conflitto mondiale.All’interno dell’esposizione troveranno spazio, oltre a due disegni e due bronzi di Domenico Rambelli, uno dei massimi scultori del Novecento e autore del monumento ai caduti di Viareggio, più di 60 opere di Viani. Quadri realizzati con varie tecniche, dieci xilografie inedite, effetti personali e lettere che il pittore scrisse e ricevette quand’era al fronte. Al loro fianco verranno ospitate anche 60 fotografie di Zeppini, accompagnate da documenti e oggetti cari al fotografo
Le ambizioni dell’Italia durante la grande guerra
Lettere a Sergio Romano
Corriere della Sera 12 dicembre
Il Patto di Londra era ovviamente più vantaggioso delle concessioni austriache, ma si riferiva ugualmente alla questione marginale dei confini orientali. A conferma della miseria politica e culturale dell’Italia. Gli interessi nazionali? Sarebbe stato più vantaggioso trattare con gli imperi centrali la spartizione delle colonie inglesi e francesi.
Bruno Telleschi
Caro Telleschi
La spartizione degli imperi coloniali nell’Africa a sud del Sahara ebbe sino alla fine del conflitto una importanza modesta. La posta in gioco erano i nuovi rapporti di forza. La Grande guerra fu in realtà una pluralità di guerre, combattute contemporaneamente, in cui ogni Stato perseguiva i propri obiettivi. Francia e Germania si batterono per l’egemonia sul continente europeo, Gran Bretagna e Germania per l’egemonia sui mari e sugli oceani, Russia e Turchia per il controllo degli Stretti. Per l’Italia il problema non era soltanto la conquista delle terre irredente, come erano chiamate le province italiane dell’Impero asburgico. Era anche l’egemonia sull’Adriatico, un mare che, se l’Austria avesse vinto, sarebbe diventato asburgico e a cui l’Italia voleva restituire il suo vecchio nome: Golfo di Venezia. Fu questa una delle ragioni per cui la guerra durò molto più di quanto i «sonnambuli» (come lo storico Christopher Clark ha definito i leader europei alla vigilia del conflitto) non avessero previsto. Nessuno, sino al 1918, era disposto ad aprire trattative di pace se non aveva prima raggiunto gli scopi che si era prefisso. Le difficoltà per l’Italia cominciarono dopo la fine della guerra, quando l’impero austro-ungarico si disintegrò e sulla scena internazionale apparve un nuovo Stato adriatico, nato dall’unione della Serbia con la Croazia e la Slovenia. Gli Alleati erano disposti a tenere conto delle richieste italiane in una situazione in cui occorreva tenere a bada l’Austria-Ungheria. Non erano altrettanto disposti a garantirle maggiore spazio dopo il collasso dell’Impero asburgico, soprattutto se ciò fosse accaduto a danno della Jugoslavia. Fu questa in particolare la posizione adottata dal presidente americano Woodrow Wilson. Quando venne affrontato il problema delle colonie tedesche, i maggiori beneficiari furono la Francia, la Gran Bretagna e il Belgio. L’Italia ebbe dalla Gran Bretagna un piccolo pezzo di Kenya (l’Oltregiuba) sulla frontiera somala, e dalla Francia, più tardi, un pezzo di Ciad sulle frontiere meridionali della Libia. Si prese l’Etiopia a dispetto dei suoi vecchi alleati e non esitò, un po’ troppo frettolosamente, a farne il suo Impero. Ma fu una conquista effimera, destinata a durare soltanto cinque anni.
Sergio Romano
Dalla rivoluzione al governo.La sinistra di Antonio Mordini nell’età della destra (1861-1869)
Autori e curatori Christian Satto
Contributi Zeffiro Ciuffoletti
Editore Franco Angeli
Collana Fondazione di Studi Storici Filippo Turati
Argomenti Storia politica e diplomatica
Dati pp. 256, 1a edizione 2014
Prezzo Euro 30,00
Il percorso attraverso il quale la Sinistra storica si trasformò in opposizione costituzionale fu complesso e comportò crisi di coscienza e riserve mentali non facili da superare. Antonio Mordini fu tra i primi a rendersi conto della necessità di dare una risposta al problema della natura non pienamente costituzionale dell’opposizione, operando prima dall’interno della Sinistra, poi fondando il “Terzo partito”.
Questo studio si propone di indagare l’idea di opposizione costituzionale che Mordini propugnò negli anni 1861-1869. Nella sua ottica la Sinistra doveva diventare un cardine di stabilità per il sistema politico e un’alternativa alla Destra per il governo. Chi non accettava la legalità sancita dai plebisciti del 1860 doveva “risegnare il proprio mandato, presentare la propria renunzia e ritirarsi dal Parlamento”. Il vero scopo della Sinistra doveva essere “convertire la minorità in maggiorità”, abbandonando l’azione extra legale. L’opera del deputato toscano permette di comprendere meglio alcune dinamiche che accompagnarono il pieno inserimento della Sinistra nel sistema politico postunitario.
Christian Satto è allievo del corso di perfezionamento in discipline storiche della Scuola Normale Superiore e si occupa di storia politica dell’Ottocento italiano. Fra i suoi contributi recenti: “Per religioso convincimento”: il ruolo di Roberto d’Azeglio nell’emancipazione dei “dissidenti” subalpini, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia”, Serie 5, 2013.