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Se tutta l’Italia diventa Mezzogiorno. La minaccia di una deriva dall’Europa

11/02/2014 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertinaUn saggio risale alla politica dello Stato borbonico. e lancia un allarme

I mali del Sud come causa di un possibile declassamento

Michele Salvati      Corriere della Sera   5 febbraio 2014

«Il primo problema del Mezzogiorno non è quello della riscossa delle energie locali, la grande strada che occorre tentare. È invece quello della fiducia, senza la quale quella strada non può neppure essere tentata: fiducia del Mezzogiorno in se stesso, fiducia degli altri verso il Mezzogiorno, fiducia del Mezzogiorno verso gli altri. Ma fiducia vuol dire prima di tutto sentirsi protetti dalla giustizia e dall’ordine pubblico. Protetti quando si agisce, quando si intraprende, quando si innova per il progresso, quando ci si difende. Il più vero nemico del Mezzogiorno non sono le Leghe del Nord. Non sono ipotetici sfruttatori appollaiati in luoghi lontani. È la congiura contro la fiducia, che parte dalla violenza, passa per la paura e l’omertà, viene sfruttata, nelle sue cause e nei suoi effetti, da una perversa democrazia del consenso». Chi scrive potrebbe essere Saviano. È invece Luciano Cafagna, uno dei più grandi storici economici italiani e profondo conoscitore dello sviluppo economico del nostro Paese, del Settentrione e del Mezzogiorno. (Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia , Marsilio, 1994).

Anche Emanuele Felice è uno storico economico, uno dei tanti giovani studiosi italiani emigrati in ambienti più favorevoli alla ricerca di quanto non siano oggi le nostre università (insegna all’Università Autonoma di Barcellona): avvicinarlo a Cafagna è il più grande complimento che gli si possa fare. Ma le conclusioni politiche cui approda, la scelta interpretativa che adotta, la qualità delle ricerche che ha svolto giustificano il confronto. Per il Mulino aveva già pubblicato un buon lavoro d’insieme sull’intervento pubblico nel Mezzogiorno (Divari regionali e intervento pubblico , 2007). Quello che è appena uscito, sempre per lo stesso editore (Perché il Sud è rimasto indietro ) è assai più ambizioso.

Anzitutto può essere letto come un’accurata rassegna delle ricerche svolte in questi ultimi trent’anni dagli storici dello sviluppo economico italiano: rispetto ai tempi in cui Cafagna scriveva i suoi principali lavori, c’è stato un grande progresso nella quantità e qualità dei dati disponibili e dunque nella possibilità di appoggiare l’interpretazione storica a robuste basi empiriche. Avendo lui stesso partecipato ad alcune delle ricerche che hanno prodotto la documentazione di cui oggi disponiamo, Felice ci porta dentro la «fucina dei dati» ed è ammirevole come riesca a rendere interessante anche la costruzione e la critica di una serie storica, sicuramente un lavoro minuto e faticoso. Ma reso interessante da due suoi aspetti: anzitutto l’ingegnosità e l’esperienza necessarie a trasformare pochi appigli sicuri in serie storiche affidabili. E soprattutto perché una serie affidabile può confermare o smentire ipotesi interpretative in precedenza avanzate, sulla base di dati parziali o, come talora avviene, puri pregiudizi. Le interpretazioni fondate sui dati lungamente discussi da Felice – perché il Sud sia oggi così mal messo – confermano le intuizioni di Cafagna e smentiscono, sono ancora parole di Cafagna, «quella storiografia meridionalistica intrisa di spiriti revisionistici e insofferente a categorie come arretratezza e sottosviluppo, dualismo e… persino Mezzogiorno». In particolare esse mostrano l’infondatezza di quell’atteggiamento «rivendicativo e «risarcitorio» che ancora è presente in alcuni studiosi, e assai diffuso in chi studioso non è: un atteggiamento basato sulla presunta responsabilità per i danni che la classe politica dell’Italia unita avrebbe arrecato al Mezzogiorno. La verità è un’altra: il governo borbonico, specie nel periodo in cui altrove in Italia e in altri Paesi europei ritardatari si creavano le premesse istituzionali per l’imminente sviluppo capitalistico – il mezzo secolo precedente l’Unità – deliberatamente si pose controcorrente, esasperando quei tratti reazionari, regressivi ed «estrattivi» che avrebbero condannato il Mezzogiorno alla minorità economica e istituzionale nella successiva fase unitaria.

Dunque, dati più solidi e sicuri per sostenere l’interpretazione dei motivi per cui «il Sud è rimasto indietro», in larga misura interni al Mezzogiorno stesso. Ma anche categorie teoriche più moderne, che consentono di collegare meglio il Mezzogiorno ai tanti casi di sviluppo stentato o distorto che la letteratura degli ultimi decenni ha studiato a fondo.
Prima ho virgolettato il termine «estrattivo» per caratterizzare quei tratti – istituzionali, economici, politici – che il governo borbonico aveva accentuato nella sua ultima fase, che il regno d’Italia e il fascismo non hanno estirpato e anzi hanno assecondato, e che ancora in forme diverse permangono in regime repubblicano. La dicotomia tra istituzioni economiche e politiche «inclusive» e istituzioni «estrattive» è dovuta ad un importante lavoro di Daron Acemoglu e James A. Robinson (Perché le nazioni falliscono , Il Saggiatore, 2013). Le prime favoriscono il coinvolgimento di larghi segmenti della società in attività economiche libere, regolate da uno Stato autorevole che difende i diritti dei cittadini: ciò conduce alla crescita economica e allo sviluppo umano e civile. Le seconde sono finalizzate a estrarre rendite a vantaggio di una minoranza di privilegiati, ciò che avviene anche se, anzi proprio perché, l’economia ristagna: diritti di libertà garantiti e ampiamente diffusi, e di conseguenza la crescita economica e civile, minaccerebbero gli equilibri politici che garantiscono l’estrazione di rendite. Rinvio chi è interessato ad una valutazione critica del lavoro di Acemoglu e Robinson a un bel simposio sulla rivista «Stato e mercato», 2013/1, cui hanno partecipato Arnaldo Bagnasco, Leonardo Morlino e Salvatore Rossi, un sociologo, un politologo e un economista. Qui mi limito ad osservare che Felice fa un buon uso delle categorie dei due autori americani: l’analisi dell’ultima fase del governo borbonico, delle grandi organizzazioni criminali, della debolezza delle istituzioni statali, del funzionamento della politica meridionale, specie della politica locale, e di tanti altri pezzi del puzzle del Mezzogiorno si adatta bene alle categorie di Acemoglu e Robinson. E dove se ne discosta – nessun Paese è uguale a un altro – la migliora, come avviene per la maggiore attenzione che Felice dedica alla diseguaglianza tra le diverse regioni italiane, alla più alta sperequazione nei redditi e nelle ricchezze che già caratterizzava il Sud all’inizio dell’esperienza unitaria.

Un lavoro importante, dunque, molto utile e facilmente leggibile, a tratti appassionante, per chi voglia disporre di una interpretazione documentata dell’origine e della permanenza dello sviluppo dualistico del nostro Paese. Ma proprio perché l’interpretazione è convincente e affidabile, si tratta anche di un libro sconfortante: se tutti i pezzi del puzzle «estrattivo» si tengono così bene, come si fa a romperlo? Dove applicare la leva del cambiamento?
Dovrebbe essere politica la leva, ma la politica è parte del problema, non della soluzione: come diceva Cafagna nella citazione da cui sono partito, è una «perversa democrazia del consenso» quella che regge le sorti delle amministrazioni locali del Sud, inquina quelle nazionali e dunque sostiene le istituzioni estrattive del Mezzogiorno. Ma lasciamo la parola a Felice: «Lo Stato italiano si è talmente indebolito che alla fine è diventato incapace di qualunque spinta modernizzatrice… E anche le istituzioni economiche e politiche del Nord hanno preso ad assomigliare sempre di più a quelle del Mezzogiorno. Se continua così, nei prossimi decenni il divario si potrebbe forse colmare, ma al ribasso, con il Nord che sempre di più si avvicina al Mezzogiorno. Per allora si sarà creato un altro divario, ancora più profondo, tra l’Italia e i Paesi avanzati».
Che dire? «Allegria!» avrebbe esclamato Mike Bongiorno. Ma ad uno studioso compete il lavoro di scienziato e al massimo la segnalazione dei problemi che poi, sulla base di una ben diversa «vocazione», sarà compito del politico affrontare.

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