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Il Risorgimento degli scienziati patrioti in lotta per l’Italia unita

21/01/2014

Ma la politica non valorizzò Brioschi, Cremona e gli altri matematici

 Giulio Giorello      Corriere  della sera 15.1.14

Manifesto del primo congresso degli scienziati italiani, Pisa 1839«Una rivoluzione è una febbre», diceva Carlo Cattaneo del 1848 in Italia. Nella notte del 5 agosto Carlo Alberto di Savoia aveva lasciato Milano, e qualcuno aveva sparato un colpo, mancandolo, al sovrano che fuggiva. Quando si era presentato tra i volontari per l’ultima resistenza, Francesco Brioschi, rampollo di una dinastia milanese d’ingegneri e animato dalla passione per la matematica, così veniva salutato da Garibaldi: «Ecco un giovane che vuol morire con noi». Dopo alcune peripezie, Francesco sarebbe ritornato in una Milano «protetta» dalle baionette austriache. L’ultimo focolaio della «febbre» italiana, Venezia, si sarebbe arreso il 19 agosto 1849. Tra quelli che si ritiravano dalla Laguna, c’era un altro matematico appassionato, Luigi Cremona, che sarebbe tornato in quella stessa Pavia dove Brioschi si era formato.

Il 22 novembre 1860, ormai laureato e professore di fresca nomina, in una prolusione all’Università di Bologna, Cremona avrebbe invocato la luce della «vastissima scienza che chiamasi geometria superiore» contro gli «irosi pregiudizi» di tutti gli apostoli delle tenebre. L’audacia intellettuale della matematica, il rigore delle dimostrazioni, la duttilità nelle applicazioni, ne fanno la disciplina che sopra tutte è capace di coinvolgere in grandi progetti le risorse intellettuali dei cittadini della nuova Italia. E Francesco Brioschi avrebbe poi dichiarato: «Qui si è compiuta una grande rivoluzione politica, amministrativa, economica». Meno di quarant’anni prima Gabrio Piola, che di Brioschi era stato maestro, aveva ammonito che le scienze non rappresentano un pericolo per la religione o per lo Stato; in particolare, «le matematiche sono innocenti». Però, «tali non sono tutti quelli che le professano»!

Umberto Bottazzini e Pietro Nastasi ci raccontano allora, nel loro recentissimo La patria ci vuole eroi (Zanichelli, pp. 432, e 27), la perdita dell’innocenza, grazie al coraggio e alla tenacia di un «pugno di ricercatori». La vicenda si snoda per tutto il lungo Risorgimento, per concludersi coll’Unità. Un mondo nuovo ha bisogno di nuove scuole. Le parole di Brioschi sopra riportate fanno parte della prolusione per la fondazione, a Milano, del Regio Istituto Tecnico superiore che avrebbe diretto fino alla morte (1897). È il nostro Politecnico, primo ateneo nella città di Milano (l’Università degli Studi, infatti, è del 1923).

Ma il rinnovamento doveva scontrarsi con le ambiguità e i ritardi della politica. Per esempio, lo stesso Brioschi era passato dalle simpatie repubblicane per «Pippo» Mazzini al punto di vista monarchico; e Cremona, in un momento critico dell’ateneo bolognese, avrebbe stigmatizzato come sovversivi i professori mazziniani. Sarebbero state le lungaggini parlamentari e la miopia degli «umanisti» a vanificare le speranze della fase eroica. All’inizio del Novecento Giovan Battista Guccia (creatore del prestigioso Circolo matematico di Palermo, 1884) se la prendeva con la politica, «il microbo che in Italia entra da per tutto e uccide tutto, in particolar modo la scienza». Così scriveva a quello che era uno dei più eminenti matematici d’Italia, Vito Volterra, il quale invece auspicava la collaborazione fra tutte le «energie volonterose» del Paese: se il Politecnico di Brioschi aveva costituito, nel contesto della pubblica istruzione, il corrispondente della rivoluzione politica, a mezzo secolo di distanza Volterra coglieva la portata delle trasformazioni socioeconomiche dovute alla «fonte di ricchezza» scaturita dall’industrializzazione.

Bottazzini e Nastasi sottolineano la contraddizione dei matematici-patrioti. La politica era stata la forza della loro comunità; ora perfino la capacità di integrarsi con la ricerca europea (emblematico è il viaggio intrapreso già nell’autunno del 1858 da Brioschi, insieme con Felice Casorati e Enrico Betti, per contattare i più insigni matematici francesi e tedeschi) diventava una colpa: l’Italia unita rivendicava una sua peculiarità nazionale, contraria a qualsiasi forma di «esterofilia», mentre l’idea che le svolte del pensiero matematico avrebbero dovuto rinnovare l’intera cultura doveva venir cancellata dalla reazione contro il pensiero tecnico-scientifico, che culminerà nell’opposizione di Croce e Gentile alla fusione fra scienza e filosofia proposta generosamente da un grandissimo matematico come Federigo Enriques. E temo che anche oggi la paura dei «filosofi» nei confronti degli scienziati e dei matematici in particolare non sia affatto venuta meno. Come diceva Cremona: «O giovani felici, svegliatevi e sorgete!». Sarebbe ora. 

Pubblicato in: Rassegna stampaTag: mondo
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