Palazzo Mediceo Viale Leonetto Amadei 230-Seravezza
La dimora di Cosimo a Seravezza: misteri e storie di fantasmi
La sua sfortuna — i seravezzini rifiutarono perfino la sua donazione alla città ad opera dei Lorena — è stata paradossalmente la sua fortuna. Il Casino di Seravezza, il Mediceo come lo chiamano confidenzialmente gli abitanti della cittadina versiliese, al contrario di altre dimore medicee, non è mai stato ampliato o trasformato nei vari passaggi di proprietà, e così la sua architettura intatta e singolare ne fa uno dei gioielli tutelati dall’Unesco.
La dimora di casa Medici nel territorio strappato alla Repubblica di Lucca nel 1513 quando Papa Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, assegnò «Pietrasanta e tutto il suo territorio» a Firenze, fu voluta da Cosimo, allora solo Duca, in un’area strategica per controllare il territorio e le sue risorse, dall’argento al ferro e alle cave di marmo, di cui Cosimo aveva il monopolio, e lontana dalle aree paludose e malariche della costa. Così nel 1561 iniziarono i lavori del Casino, cioè di una dimora estiva per sfruttare il fresco della zona, su disegno di un architetto sul cui nome non c’è certezza, forse David Fortini, ma c’è chi parla di Bartolomeo Ammannati e Bernardo Buontalenti, architetti medicei ben più noti, e nel 1565 la costruzione era completata. Il palazzo aveva al piano terreno i locali della servitù e le cucine, il piano nobile era adibito ai Medici e alla loro corte; al secondo c’erano piano le soffitte e tutto attorno il cortile, con il palazzo abbellito da una loggia e all’esterno da un orto murato con centinaia di abeti fatti piantare dallo stesso Cosimo, quattro alberi di arancio fatti venire da Massa, due peschiere e robusti castagni. Legato a Cosimo c’è il primo «mistero» legato al palazzo, la targa che il Duca volle fosse scolpita con la scritta «Cosmus Med. Florentie e Senar Dux II» posizionata «sopra la porta del Casino di Seravezza di verso l’orto» e che si trova oggi sulla facciata posteriore dell’edificio. La tradizione racconta che fu Cristina Lorena a invertire l’orientamento del palazzo, con l’ingresso principale dove è attualmente. Comunque sia andata, la villa fu dimora granducale, anche se non troppo amata, con molti soggiorni estivi, fino al 1637 quando Cristina di Lorena la assegnò ai Magistrati di Pietrasanta con le loro famiglie e l’edificio fu suddiviso in più appartamenti. Ma i cambiamenti erano solo all’inizio. Dai Medici il palazzo passò ai Lorena, che nel 1784 lo donarono alla Comunità di Seravezza ma ricevettero un secco no perché i seravezzini non sapevano come far fronte alle spese di mantenimento. Alla fine del Settecento ospitava oltre ai Magistrati, il tribunale, con anche una stanza adibita a cella, la Magona, che si occupava di lavorazione e vendita di minerali. A metà Ottocento tornò brevemente a essere dimora granducale per ospitare le figlie di Leopoldo II e la granduchessa vedova Maria Ferdinanda durante le settimane delle «bagnature in mare», prima del passaggio allo Stato, che lo donò al Comune di Seravezza che stavolta non si oppose, ed accolse anche una Società Filodrammatica e la Guardia Nazionale. Nel 1918 il salone al primo piano divenne sala da ballo. In tutto questo trambusto niente è rimasto degli arredi originali, tranne un tavolo in marmo, il cui autore fu multato per averlo consegnato in ritardo e rovinato, e un quadro settecentesco dell’Annunciazione. Anche l’esterno è cambiato, con un prato al posto del campo di calcio sciaguratamente realizzato negli anni ’50 dello scorso secolo.
E gli inquilini? Il Granduca Cosimo donò il palazzo al figlio primogenito Francesco, tenendo però i diritti di sfruttamento delle cave —da cui aveva cercato di imporre al mondo la «breccia medicea», cioè il particolare marmo screziato che vi si estraeva e con cui sono stati realizzati gli obelischi di piazza Santa Maria Novella a Firenze — e delle miniere, e Francesco vi soggiornò più volte assieme a Bianca Cappello. Alla morte dei due vi si fermò più volte il Granduca Ferdinando — nell’aprile 1603 organizzò un ballo sotto il palazzo per dare un «poco di piacere al popolo» — anche se alla storia locale è passata sua moglie, Cristina di Lorena, che vi abitò a lungo. Era il 3 maggio 1603 quando la Granduchessa, che amava pescare, a Ruosina, nel torrente Vezza, prese alla lenza una gigantesca trota, lunga 73 centimetri e dal peso tra 3 e 5 chili: il pesce fu trasformato in pasticcio e inviato a Roma al cardinale Dal Monte, il mecenate di Caravaggio, e in memoria della pesca fu posto un ceppo a Ruosina con sopra una trota e la scultura di una trota fu posta sul pozzo nel cortile del palazzo mediceo, trota che divenne il simbolo della cittadina.
Ma la fama del pesce portò anche guai, complice la rivalità campanilistica: quella del cippo a Ruosina è stata trafugata e mai ritrovata ed è stata sostituita da una copia, mentre quella del palazzo è stata protagonista del Ratto della Trota. Il primo aprile 1956 — vigilia di Pasqua, con la villa chiusa — dei ragazzi di Querceta scavalcarono il ballatoio e rubarono la scultura. I seravezzini meditarono vendetta e alcuni giorni dopo due distinti signori, spacciandosi per funzionari delle Belle Arti, si fecero dare le chiavi del campanile della chiesa di Querceta senza farsene accorgere portarono via i batacchi delle campane, che così la domenica successiva restarono mute. Dopo lunghe trattive si raggiunse l’accordo e in «territorio neutro» tra Seravezza e Querceta, nella località di Ripa, le refurtive furono scambiate e la trota da allora è tornato al suo posto, sul pozzo.
Sul palazzo aleggia anche la leggenda di un fantasma, quello del segretario del cardinale Dal Pozzo che, alla morte del prelato che soggiornava nella villa, si sarebbe gettato nel pozzo del cortile dal dispiacere, e per costruire l’ascensore è stato trovato lo scheletro di un viandante, forse pellegrino sulla vicina via Francigena, e oggi il Mediceo ospita diverse attività. L’area medicea comprende anche la cappellina e le scuderie, che hanno perso la loro funzione storica, ed il palazzo è sede della biblioteca comunale Sirio Giannini, l’archivio storico comunale, l’Antiquarium, la Fondazione Terre Medicee e al secondo piano si trova il Museo del lavoro e delle tradizioni popolari della Versilia Storica. Che racconta anche l’estrazione del marmo — a Seravezza nella casa di un sarto, poi spazzata via da una delle tante alluvioni, abitò Michelangelo che dal 1517 al 1521 vi soggiornò per fare visita alle locali cave di marmo —, attività iniziata con i Romani e terminata solo nel Novecento.
Mauro Bonciani Corriere Fiorentino 27 ottobre 2024