Gli Appuntamenti torneranno a settembre, dopo la pausa estiva. Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento augura a tutti i suoi lettori buone vacanze!
La Danza macabra della Grande Guerra
FORTE DEI MARMI. E’ stata inaugurata venerdì 27 giugno alle 18.30 in Piazza Garibaldi la mostra “La Danza macabra della Grande Guerra“ che resterà aperta nelle sale del Museo della Satira al Fortino fino al 28 settembre. L’esposizione di ben 150 opere, tratte da una collezione unica al mondo, è un’irripetibile occasione per ammirare i capolavori pittorici di artisti del calibro di Mario Sironi, Alberto Martini, Aroldo Bonsagni, Francesco Cangiullo, Lorenzo Viani, Giò Ponti, Lucio Venna, Gabriele Galantara, Antonio Rubino.
Si può raccontare la tragedia di una guerra di trincea, di sangue e fango, con le opere d’arte? La risposta è sì: i grandi artisti satirici furono in grado di narrare il conflitto che trasformò in modo irreversibile il Novecento e combatterono la loro guerra con le armi sferzanti della satira, dando luogo a una produzione artistica che non ha eguali in nessun altro conflitto e che riuscì a svelarne le contraddizioni e le assurdità.
A cento anni esatti dall’attentato di Sarajevo– il casus belli che diede formalmente inizio alla prima guerra mondiale – Il Museo della Satira e della Caricatura di Forte dei Marmi propone la mostra “La danza macabra della Grande Guerra” (a cura di Cinzia Bibolotti, Franco Calotti e Linda Gorgoni Gufoni), con opere provenienti dalla Collezione di Lodovico Isolabella, sicuramente la più importante al mondo nel suo genere.
La mostra presenta disegni e dipinti originali firmati dai più grandi artisti del tempo, che spesso venivano realizzati per i giornali creati allo scopo di sollevare il morale delle truppe. Molte delle tavole esposte sono tavolo cupe, dove aleggia la morte: di enorme suggestione i capolavori pittorici del celebrato artista Mario Sironi, che pubblicava le sue possenti tavole a colori sul giornale per soldati “Il Montello”. La sua Sarabanda finale (immagine logo della mostra), è, ad esempio, un’opera che ammalia e fa risuonare il sabba di un avvenimento drammatico ma liberatorio: sullo sfondo di un cielo nero nascosto da due immense bandiere rosse (allusione all’imminente rivoluzione tedesca), Sironi issa sulle picche le tre teste mozzate dell’imperatore, coi caratteristici baffi a punta, e dei suoi generali e le abbandona al ludibrio della folla. Mentre nel suo Studio per Chiaro di luna siamo attratti dal chiarore di una bella luna che campeggia in un cielo scuro, tanto da illudere i due Imperatori d’Austria e di Prussia che la ammirano stupiti, ma scopriamo presto, osservando meglio, che ciò che campeggia in cielo è in realtà la lama della falce che la Morte agita irrimediabilmente.
Altro esempio di arte macabro-comica, le rare cartoline dell’incisore e pittore Alberto Martini, dal titolo “Danza macabra europea” (titolo preso a prestito per la mostra), una serie di 54 litografie di stampo surrealista contro le crudeltà della guerra, intrisa di satira feroce non solo contro i barbari teutonici, ma anche gli alleati e il patriottismo italiano.
L’immagine del trionfo della morte non è utilizzata solo da Sironi e Martini, ma pervade tutti i capolavori in mostra, da quelli di Ezio Castellucci a quelli di Carlo Bisi, poiché nessun altro tema iconografico sarebbe stato altrettanto efficace nel raccontare le tempeste emotive di uomini rinchiusi nel labirinto senza uscita del fronte.
In mostra si potranno ammirare inoltre anche le splendide tavole originali di Gabriele Galantara, (fondatore del famosissimo giornale satirico “L’Asino”) con le caricature di “Guglielmone” e di “Cecco Beppe” intrise di odio verso la “barbarie teutonica”, nonché quelle più raffinate e liberty di Antonio Rubino, con i personaggi del Caporale C.Piglio o del soldato tedesco Max Pataten, creati per “La Tradotta”, il più diffuso giornale di trincea.
Altri pezzi forti in mostra sono le vignette fantasmagoriche di Filiberto Scarpelli, disegnate per le copertine della rivista torinese “Numero”; così come le meravigliose tavole di Golia (Eugenio Colmo), ferocemente antigiolittiano; e i disegni caricaturali di Cesare Musacchio, reclutato al fronte proprio con l’incarico di disegnare le cronache militari. Straordinari i ritratti caricaturali dei soldati sul Carso di Lorenzo Viani, o la sfacciata e potente caricatura dell’imperatore Francesco Giuseppe di Aroldo Bonzagni, come sono assolutamente interessanti e inedite le caricature che il famoso architetto Gio Ponti, arruolato nel Genio pontieri, realizzava su cartoline postali per gli amici.
Tante anche le curiosità: i rarissimi volantini di Giuseppe Scalarini, l’unico autore schierato sul fronte anti-interventista, nei quali il conflitto bellico è presentato per quello che era in realtà: un’ulteriore occasione per permettere alla borghesia e ai profittatori di arricchirsi ulteriormente. Di tutt’altro avviso è il futurista Francesco Cangiullo che, fedele alla linea marinettiana della “guerra sola igiene del mondo” e del “marciare o marcire”, se la prende nel disegno in mostra addirittura con Carlo Carrà, altro autore aderente al movimento futurista, colpevole di essersi in parte pentito dell’interventismo della prima ora.
Pur concentrandosi in misura nettamente maggiore sulla rappresentazione umoristica e satirica della guerra ad opera di artisti italiani, la mostra non trascura l’iconografia austro-tedesca: sono presenti cartine geografiche umoristiche, come quella di Walter Trier, che personifica gli Imperi centrali in soldati gagliardi e vittoriosi, mentre le nazioni avversarie sono simboleggiate da briganti, maiali, scarafaggi ecc.; il manifesto pubblicitario di Eugène Ogé, che nel 1913 ridicolizzava i governanti, ma da segnalare è soprattutto la testimonianza della produzione di quello che probabilmente è il più grande medaglista tedesco del periodo: Karl Goetz. Nelle sue medaglie il nemico è sempre raffigurato con tratti somatici animaleschi, e l’Italia (personificata da Vittorio Emanuele III), traditrice della Triplice Alleanza, è presa a “baionettate” nel posteriore.
La Guerra è sempre una tragedia per chi la vince e per chi la perde, e l’unico rimedio è mantenere e promuovere la pace e l’amicizia tra le nazioni: questa è la chiave di lettura della mostra che vuol essere una visione d’artista della Grande Guerra, per ricordare con rispetto i caduti di tutti gli schieramenti. Con la “La danza macabra della Grande Guerra” – spiegano gli organizzatori – chiudiamo anche un ciclo iniziato sei anni fa con una mostra dedicata a “Le Mot”, il giornale-capolavoro di Jean Cocteau e Paul Iribe, che scrisse in Francia pagina memorabili sul rapporto guerra e arte e proseguito con la mostra dedicata ai giornali di trincea, insostituibile veicolo di propaganda ma anche palestra di grandi artisti (come Sironi su “Il Montello”, o Soffici su “La Ghirba”).
interventi in catalogo di: Lodovico Isolabella, Elena Pontiggia,
Andrea Tomasetig, Enrico Mannucci.
Il volume che accompagna l’esposizione (ff. 23xx30, 184 pagine) sarà disponibile al book shop della mostra, mentre la versione digitale (eBook) sarà scaricabile dal sito ufficiale www.museosatira.it/mostre/danzamacabra .
La mostra resterà aperta fino al 28 settembre 2014, con orario: tutti i giorni dalle 17 alle 20 e dalle 21 alle 24 (ingresso libero).
Per informazioni: Museo Della Satira – Forte di Leopoldo I – Piazza Garibaldi – tel. 0584 280262 (Uffici) – 0584 876277 (Museo) museosatira@gmail.com www.museosatira.it
arte forte dei marmi guerra mare mostre Museo della satira Versilia2014-06-12
I limiti dell’operazione Mare Nostrum
Accogliere sì ma ragionare
Ernesto Galli Della Loggia Corriere della Sera 18 giugno
Salvare dalla morte in mare è un conto, accogliere stabilmente nel proprio Paese un altro. Il primo è un obbligo assoluto per ogni collettività civile, la seconda è una scelta politica.
L’operazione «Mare nostrum» implica invece la contraddittoria sovrapposizione/identità delle due cose. In tal modo infatti viene percepita dall’opinione pubblica, e proprio perciò essa rischia alla lunga di divenire insostenibile.
Finora le autorità italiane hanno cercato di eludere la contraddizione ora detta ricorrendo a un escamotage . In pratica, salviamo dal naufragio gli immigrati ma, contravvenendo alle disposizioni europee, spesso evitiamo di identificarli nel solo modo possibile, cioè prendendo le loro impronte digitali e depositando queste in una banca dati europea. In tal modo è loro possibile cercare di andare (e restare) in qualche altro Paese dell’Unione Europea perché da esso, anche se scoperti, non potranno mai essere rinviati nel Paese di prima accoglienza che li ha identificati – come prescrivono sempre le norme europee – semplicemente perché un tale Paese non è mai esistito.
È in questo modo che l’Italia, alla quale sotto questo riguardo fa buona compagnia tutta l’Europa, evita di affrontare la questione cruciale: quanti immigrati possiamo (può l’Unione) assorbire? Nessuno lo sa e/o lo dice: dieci milioni, venti milioni? I numeri che premono dall’Africa e dall’Asia sono di quest’ordine, ma nessuno se ne cura. Sembra che neppure sia lecito porsi la domanda.
Che tuttavia resta la domanda. Anche se preferiamo aggirarla definendo «operazione umanitaria» di salvataggio qualcosa che è senz’altro questo, sì, ma che, per le ragioni dette sopra, è pure una decisione politica di accoglienza. Una decisione che appartiene peraltro a quel genere di decisioni che hanno due caratteristiche che dovrebbero far tremare le vene ai polsi di qualunque politico si appresti a prenderle, dal momento che: a) una volta adottata è terribilmente difficile revocarla, e, b), una volta adottata, il ruolo di chi la adotta non può che essere di totale passività.
E infatti è questo il nostro caso. L’Italia e il suo governo, una volta deciso di affrontare l’immigrazione transmarina con l’operazione «Mare nostrum», di fatto non sono più in grado di esprimere alcun punto di vista o di sostenere alcun interesse proprii con una minima possibilità di far valere concretamente l’uno o l’altro. Anche perché privi di reali interlocutori. Essi svolgono più o meno il ruolo che svolge un centralino dei Vigili del fuoco nel rispondere alle chiamate di soccorso. Punto e basta.
Ma anche se non riceve risposta, la domanda decisiva resta in tutta la sua crucialità: quanti immigrati può accogliere l’Italia? Quanti l’Europa? Un numero illimitato? Può essere, ma allora sarebbe bene dirlo. Invece le classi politiche italiane ed europee hanno preferito finora far finta di nulla, e nei fatti conformarsi ai due comandamenti etici e/o ideologici che sembrano prevalere presso le loro opinioni pubbliche. Quello del cosmopolitismo multiculturale da un lato, e quello della sollecitudine cristiana per i derelitti dall’altro. Entrambi ottimi principi i quali, però, non solo non servono a governare il fenomeno migratorio, ma contribuiscono non poco a dare l’impressione – pregna ahimè di contenuti politici – di un Paese e di un continente che di fronte all’immigrazione non sanno fare altro che tenere la porta aperta e lasciare entrare chiunque voglia. Alimentando così il richiamo che esercitano sull’elettorato europeo (non sempre di destra!) i partiti che si ispirano a un radicalismo identitario fortemente xenofobo; i quali sono ben lieti di approfittare della politica dello struzzo adottata da troppe forze democratiche, della loro troppo frequente rinuncia suicida a dare voce alle ragioni dell’interesse e dell’identità nazionali.
Pensare che dal bene non possa che nascere il bene è da ingenui o da sprovveduti. Soprattutto nelle democrazie è spesso dal bene che può nascere il male: e in genere quando ci se n’accorge è regolarmente troppo tardi.
Europa o no.
Sogno da realizzare o incubo da cui uscire.
Autore Luigi Zingales
Editore Rizzoli
Prezzo 18,00
Dati 2014, 205 p.
Tanto l’euro quanto l’unificazione europea sono stati celebrati – come già fu per l’unificazione italiana – come ideali romantici, che non lasciavano spazio per un’analisi economica dei costi e dei benefici. Oggi, però, il “meraviglioso esperimento” di cui parlava Robert Schuman, il sogno di una “pace perenne” dopo secoli di guerre, si è trasformato in un incubo: quella stessa Unione creata per favorire lo spirito europeo sta diventando una prigione, che istiga all’odio etnico e alimenta i peggiori stereotipi. Tenendosi a distanza dall’europeismo fanatico e dall’antieuropeismo irrazionale, Luigi Zingales analizza i fondamenti economici e le scelte politiche dell’attuale Unione Europea, vista non come fine ma come mezzo per garantire la libertà, la pace e la prosperità del nostro continente, e mette a fuoco alcune verità necessarie. Prima fra tutte che questa Europa è un patto faustiano tra Francia e Germania, che riserva al Sud del continente, e quindi all’Italia, un ruolo di comprimario e spesso di vittima. Dobbiamo ammettere che, così com’è, l’Europa non è sostenibile, ma il progetto europeo è ancora salvabile, a patto di riforme radicali in tempi brevi. Allo stesso modo dobbiamo ammettere che la crisi strutturale in cui l’Italia è precipitata negli ultimi vent’anni non è colpa dell’euro né può essere risolta con la nostra uscita dall’euro. Il vero problema è che abbiamo smesso di crescere, e in particolare ha smesso di crescere la nostra produttività. Se non invertiamo questa tendenza, non possiamo competere in Europa e nel mondo, non possiamo sostenere il debito pubblico, non possiamo offrire ai nostri figli un futuro nel nostro Paese, Europa o no.
Ma in quelle tracce costruite con cura manca il legame con le nostre radici
GIOVANNI BELARDELLI
Spesso, negli anni passati, le tracce dei temi per la maturità sono sembrate scelte senza troppa cura, incoerenti, a volte abborracciate. Quest’anno, per fortuna, non è andata così. Soprattutto le lunghe tracce per la tipologia del «saggio breve» hanno proposto agli studenti brani per lo più interessanti, dietro la scelta dei quali deve esserci stata — è da presumere — un’attenzione non banale e non affrettata. Penso al brano sulla fragilità della Terra, resa visivamente presente a tutti dopo lo sbarco sulla Luna del 1969. O a quello di Theodor Adorno sulla decadenza del dono nel mondo contemporaneo. O, ancora, ai brani sulla realtà e l’utopia dell’intelligenza artificiale. E poi ai testi di Benjamin, Arendt, Gandhi e così via.
Eppure, dopo aver letto le tracce c’è qualcosa che non convince. Tutte singolarmente accettabili — da quella (certo non più che diligente) su Quasimodo a quella sulle periferie, evocate attraverso una citazione di Renzo Piano — quelle tracce comunicano un insieme di realtà, si riferiscono a un complesso di argomenti, di temi appunto (come si diceva una volta, quando i pedagogisti non egemonizzavano ancora il mondo della scuola e di chi la governa) che hanno poco o nulla di attinente con il Paese nel quale pure gli studenti vivono.
A parte Quasimodo, certo, ci parlano di un mondo contemporaneo privo di relazioni con qualcosa di specificamente italiano.
Neppure i temi storici, cui di solito si affida la presenza di argomenti meno lontani dalla realtà del Paese, svolgevano questa volta una funzione del genere.
Da una parte si proponeva «violenza e non violenza nel Novecento», che nulla suggeriva di mettere in rapporto con le vicende italiane come pure (dal fascismo al terrorismo degli anni 70) sarebbe stato possibile.
Dall’altra, il tema storico vero e proprio richiedeva un confronto, peraltro troppo complesso da svolgere, tra l’Europa del 1914 e quella di oggi.
L’unico rapporto con l’Italia di ieri poteva scaturire da un brano, bellissimo, di Grazia Deledda.
Vi si racconta di un’epoca in cui l’arrivo di un fratellino poteva ancora essere spiegato a una bambina come il«dono» che il suo papà aveva «comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”».
Ma non so quanti studenti siano stati in grado di cogliere in questo brano, inserito com’era nella traccia sul dono, la testimonianza di un’Italia ancora relativamente vicina come anni, eppure appartenente nella percezione di tutti a un’altra epoca storica.
Insomma, se proviamo a leggere le non poche pagine prodotte dal ministero come fossero esse stesse un tema, dovremmo concluderne che quel tema ci parla quasi per nulla di un Paese specifico,il nostro (eccezion fatta, ripeto, per il«minimo sindacale» rappresentato dall’analisi di una poesia di Quasimodo).
Si potrà pensare che, immersi da vent’anni almeno nel mondo globalizzato, questa è una scelta naturale, coerente, ottima magari. È possibile che sia così.
Restano due forti perplessità. La prima riguarda il fatto che, se la nostra scuola deve fare davvero questo (diluire la percezione di ciò che è specificamente italiano) avremmo forse dovuto discuterlo esplicitamente.
Ma si sa, della scuola sembriamo interessarci solo quando si tratta di precari, graduatorie, «concorsoni» e basta.
In secondo luogo, essendo ovvio naturalmente che la scuola deve mettere in grado i giovani di muoversi nel mondo globalizzato, è discutibile che possa farlo al meglio prescindendo, come sembrano fare le tracce ministeriali, dalla specifica realtà del Paese in cui quei giovani vivono.
Dovrebbe anzi essere la scuola, perché nessun altro può altrimenti farlo, a esplorare i legami, le relazioni spesso nascoste,tra la realtà in cui viviamo immersi e la cultura da cui proveniamo.
Da tempo, nelle famiglie italiane nessuno più racconta le vecchie storie di bimbi portati dalla cicogna o «comprati a mezzanotte », storie che ai ragazzi di oggi appariranno distanti anni luce.
Eppure quelle storie sono state ascoltate ancora dai loro padri o dai loro nonni; ci comunicano un passato, una tradizione, un tempo lontano da cui tutti — anche gli studenti di oggi, che ne siano consapevoli o meno — siamo abitati.
Donne nella Grande Guerra
Introduzione di Dacia Maraini
Editore Il Mulino
Collana Biblioteca storica
Pag. 264,
Anno 2014
Prezzo Euro 22,00
«Storie che raccontano il coraggio, la tenacia, la forza di corpi femminili in azione, prima, durante e dopo una guerra devastante che ha impoverito e umiliato il nostro paese. Donne che hanno avuto una parte importante nelle cronache del tempo e che qualche volta sono state anche riconosciute e ammirate dai loro contemporanei. Ma poi, appena si è cominciata la sistemazione della memoria comune, sono passate nel silenzio di una sepoltura che viene considerata “naturale”, ma naturale non è».
Qual è stato il ruolo delle donne italiane nella Grande Guerra? In tutti i paesi belligeranti, il conflitto fu un’occasione di emancipazione per le donne, che si trovarono a rimpiazzare in molte funzioni gli uomini partiti per il fronte, e in qualche modo andarono in guerra anche loro: come crocerossine, in Carnia come portatrici, nelle retrovie come prostitute a sollievo delle truppe. Ma il libro ci racconta anche di una spia, di un’inviata di guerra, della regina Elena che trasformò il Quirinale in ospedale, delle intellettuali che militarono pro o contro la guerra: da Margherita Sarfatti a Eva Amendola e Angelica Balabanoff, alla dimenticata maestra antimilitarista Fanny Dal Ry, per finire con Rosa Genoni, pioniera della moda italiana, che abbandona il lavoro e si batte contro la guerra.
Le autrici del volume, tranne Marta Boneschi e Paola Cioni, fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Come opere collettive hanno pubblicato anche «Piccole italiane» (Anabasi, 1994), «Il Novecento delle italiane» (Editori Riuniti, 2001), «Amorosi assassini» (Laterza, 2008) e, con il Mulino, «Donne del Risorgimento»
Officine Galileo: 150 anni di storia e tecnologia.Dal 13 giugno al 7 settembre al museo della Scienza di Firenze
Allestita in occasione del 150° anniversario della fondazione di Officine Galileo, oggi Finmeccanica–Selex ES, la mostra si propone di tracciare la storia di un’azienda che ha avuto un forte impatto sul tessuto sociale fiorentino, rivestendo inoltre un ruolo estremamente significativo per la storia della scienza e della tecnologia nella nostra città.
L’esposizione, curata da Paolo Brenni, si articola in tre periodi cronologici: dall’officina alla fabbrica (1863-1914); le guerre mondiali (1914-1945); dal secondo dopoguerra a oggi (1945-2014).
Sono esposti strumenti che coprono l’intero arco di vita di Officine Galileo, provenienti dal Museo della Tecnologia “Adolfo Tiezzi”, dal Museo FirST-Firenze Scienza e Tecnica, dal Museo Galileo e da collezioni private. In mostra anche diplomi, medaglie, cataloghi e documenti fotografici che evidenziano i molteplici aspetti della vita e dell’evoluzione dell’azienda.
La storia delle Officine Galileo inizia a Firenze nel 1863-1864 quando, per iniziativa di alcuni scienziati, costruttori di strumenti e imprenditori viene creata una società per produrre apparati fisici e ottici. Verso la fine del decennio appare per la prima volta il nome “Officina Galileo”, che nel 1906 diventerà “Officine Galileo”.
Nel 1909 l’azienda si trasferisce dal quartiere delle Cure al nuovo stabilimento di Rifredi.
Dalla fondazione in avanti, i macchinari e i metodi di lavoro vengono più volte rinnovati e il repertorio delle realizzazioni ampliato, includendo apparati per la Marina, telegrafi ottici, dinamo e lampade ad arco per l’illuminazione pubblica, che permettono di farsi strada nel mercato nazionale ed estero.
Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo s’intensifica la produzione di apparecchiature per la Marina e l’Esercito, specialmente durante la Prima Guerra Mondiale. La temporanea espansione della produzione destinata a soddisfare le esigenze belliche è responsabile dei gravi problemi del primo dopoguerra, superati nel corso degli anni Venti con la fabbricazione di nuovi apparecchi, come bilance e distributori automatici, strumenti elettrici di misura, per la topografia, la geodesia e la fotogrammetria.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo un primo periodo di crescita, l’azienda attraversa un’altra fase critica, che culmina nel 1944, quando l’esercito tedesco in fuga fa saltare gran parte della fabbrica. La ripresa e la riconversione dell’azienda avvengono però in tempi brevi. Fra i numerosi prodotti del dopoguerra troviamo contatori elettrici, apparecchi di rilevamento, strumentazione scientifica ed elettrica, apparati per la tecnologia del vuoto e macchine fotografiche. Particolarmente importante è la produzione di telai, che contribuisce a rilanciare l’industria tessile di Prato, gravemente colpita dalle vicende belliche.
Nella seconda metà del XX secolo cambia la struttura delle Officine Galileo: l’azienda diviene di proprietà di varie società, che si succedono sino al momento in cui entra nel Gruppo Finmeccanica. Nel 1980 la sede è trasferita a Campi Bisenzio. Infine, cambia il nome dell’azienda: dopo essere diventato Galileo Avionica e poi Selex Galileo, al seguito di varie ristrutturazioni e fusioni all’interno del gruppo è oggi Finmeccanica–Selex ES.
Finmeccanica–Selex ES produce apparecchiature e strumenti altamente tecnologici, che comprendono sistemi elettronici e optronici (combinazione di elettronica e ottica tradizionale) applicati nella difesa aerea, navale e terrestre e nell’aeronautica civile, oltre a sofisticate soluzioni per la gestione della sicurezza, della logistica, delle comunicazioni e dell’energia. L’azienda è anche leader nel settore spaziale, con strumenti, sistemi, sensori e prodotti per l’osservazione della Terra, l’esplorazione planetaria, le missioni di navigazione e le telecomunicazioni.
La mostra, con il patrocinio del Comune di Firenze, è promossa dal Museo Galileo e da Finmeccanica–Selex ES, in collaborazione con il Museo FirST–Firenze Scienza e Tecnica e con la partecipazione di Opera Laboratori Fiorentini–Civita Group e Fratelli Alinari.
Orari e accesso
Museo della Scienza
Orari di apertura
Il museo è aperto tutti i giorni, incluso domeniche e festivi, ad eccezione del 1 gennaio e 25 dicembre.
Dal lunedì alla domenica 9.30-18.00
Martedì 9.30-13.00
Prezzo del biglietto
Intero € 9,00
6-18 anni; oltre 65 anni € 5,50
Gruppi (minimo 15 persone) € 5,50
Gruppi scolastici (6-15 anni) € 4,50
Minori di 6 anni accesso gratuito
Biglietto famiglia (2 adulti + max 2 ragazzi fino a 18 anni) € 22,00
Emilia Sarogni
CARLO PISACANE
L’amore. L’Italia. Il socialismo
Edizioni: Spartaco
Pagine: 192
Prezzo: 15,00 €
«Combatteranno con me tutti i dolori e tutte le miserie d’Italia»
La vita di Carlo Pisacane, patriota napoletano del Risorgimento, è un avvincente romanzo. Personaggio generoso, ribelle, pieno di coraggio, intelligenza, forza polemica, di origini aristocratiche eppure primo socialista della nostra storia, ha espresso nel testamento spirituale, redatto andando a morire a Sapri, il grande sogno di un’Italia nuova, più democratica, più giusta.
Questa biografia, emozionante nella vicenda umana, puntuale nella ricostruzione storica, ne racconta la passione travolgente per Enrichetta Di Lorenzo, le imprese militari, le opere anticipatrici di un’epoca ispirata a idee di equità sociale.
Amore e patria furono l’orizzonte della sua esistenza.
Fu conteso dai salotti di Parigi e di Londra; conobbe gli aridi deserti del Nord Africa, la triste condizione di esule in Svizzera, l’intensa stagione della Repubblica Romana, la quiete solitaria dell’Altopiano Ligure, e fu anche in Abruzzo, in Trentino, in Lombardia a combattere contro l’Austria, mosso da passioni personali e politiche, da amicizie e scontri con gli altri grandi del Risorgimento.
Il Mezzogiorno ha avuto con Pisacane un interprete straordinario dei suoi valori e delle sue sofferenze: nell’ultimo momento, drammatico, definitivo, impartì l’ordine di non sparare contro i contadini. Questo anche se il popolo lo chiamava brigante, malfattore
Emilia Sarogni, nata a Piacenza, si è laureata a Torino in Giurisprudenza e Scienze politiche. Consigliere parlamentare dal 1976, è scrittrice, saggista e conferenziera, in Italia e all’estero. Ha pubblicato i romanzi Torino Addio. Quando gli dei amano e Il contrabbando della vita. Passioni e politica nell’Italia del Risorgimento (Daniela Piazza Editore 2001 e 2010); i saggi La donna italiana 1861-2000. Il lungo cammino verso i diritti (il Saggiatore 2004) e L’Italia e la Donna. La vita di Salvatore Morelli (Daniela Piazza Editore terza edizione 2011), da cui ha tratto ispirazione per il dramma Salvatore Morelli. Una tragedia italiana (Daniela Piazza Editore 2010).
STATO E CORRUZIONE Popolo di corrotti?Un segnale concreto per contrastare il deficit di etica (pubblica e privata)
Giovanni Belardelli Corriere della Sera 7 giugno
Siamo un popolo di corrotti? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di malaffare, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Ma una risposta negativa, pur ineccepibile, non soddisfa più.
C’è qualcosa, nel modo d’essere e di agire degli italiani, che ci rende più inclini di altri popoli a infrangere regole e norme, o quanto meno ci spinge a tollerare con disinvoltura che altri lo facciano? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di corruzione seriale, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Per dirla in modo brutalmente sintetico, siamo un popolo di corrotti? Il fatto è che una risposta negativa, pur ineccepibile (a intascare od offrire tangenti non sono «tutti», ma sempre persone con un nome e un cognome), non soddisfa più.
Non allontana la sensazione che certi fenomeni di corruzione, se effettivamente sono presenti in tutte le democrazie sviluppate, in Italia appaiono non solo più diffusi ma anche radicati nella cultura del Paese, quasi fossero parte dell’identità della nazione, ne caratterizzassero l’anima profonda. E neppure funziona più, di fronte a una sequenza di scandali che pare ininterrotta, la consolatoria spiegazione che attribuisce il malaffare diffuso a un certo numero di politici e imprenditori disonesti, aiutati da qualche pubblico funzionario senza scrupoli. Non perché queste responsabilità non ci siano davvero tutte, come mostrano le cronache di questi giorni. Ma perché da tempo quelle stesse cronache danno regolarmente notizia di piccole e grandi ruberie, truffe, imbrogli (dai falsi permessi per disabili all’alterazione delle autocertificazioni sul reddito) che coinvolgono una platea di cittadini non proprio ristretta e segnalano la sostanziale accettazione di fenomeni di illegalità di massa. Insomma, al mito della società civile onesta, che si contrappone alle varie cricche politico-affaristiche, non crede ormai più nessuno. Del resto, l’idea che il nostro Paese abbia qualche serio problema nel rapporto con la legge circola da secoli. Era proprio questo che tra Sette e Ottocento (l’epoca del Grand Tour, che aveva l’Italia tra le sue mete obbligate) sostenevano tanti osservatori stranieri: convinti che ogni popolo avesse un suo «carattere nazionale», vedevano negli italiani una grande vitalità e creatività, bilanciate però da una scarsa o nulla inclinazione a rispettare le leggi, a guardare oltre il proprio interesse individuale concepito nell’accezione più egoistica del termine.
In anni più vicini a noi, le scienze sociali non hanno fatto altro, in fondo, che dare una veste scientifica a quella diagnosi, evocando il «familismo amorale» o la scarsa «cultura civica» degli italiani. Si è trattato di spiegazioni suggestive, anche se mai interamente convincenti. In ogni caso, il deficit di etica pubblica e privata di cui soffre il Paese sembra innegabile. Ma questo riconoscimento dovrebbe portare a qualcosa di più efficace del solito auspicio di trasformazioni culturali profonde, che vedranno semmai i nostri nipoti. Dovrebbe indurre a dare un qualche riconoscimento a quella parte del Paese che tutto sommato le leggi le rispetta, ma che non si sente adeguatamente valorizzata dalle istituzioni. In attesa, infatti, di una rivoluzione culturale, se verrà e quando verrà, che cambi la mentalità collettiva, i pubblici poteri dovrebbero puntare il loro sguardo, ad esempio, su quegli italiani che abusi edilizi non ne hanno fatti, ma vedono chi invece ne ha compiuti godere in assoluta tranquillità i frutti del proprio comportamento. Sono pur sempre le istituzioni, come sostenne ai suoi tempi Jean-Jacques Rousseau, a formare «il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo». E allora, se – invece di promuovere tanti corsi, giornate, navi della legalità, invece di obbligare ogni università ad avere il suo bel «piano triennale anticorruzione» – si abbattessero un po’ delle ville e villette che hanno distrutto chilometri delle nostre coste, tanti italiani certo insorgerebbero. Ma tanti altri, è probabile, sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati, che punta su di loro per uscire prima o poi dalla palude fatta di una illegalità e una corruzione accettate, più o meno fatalisticamente, come normali.
Dalla guerra italo-austriaca a quella contro la germania
Lettere a Sergio Romano
Corriere della Sera Domenica 1 giugno 2014
A un secolo dallo scoppio della Grande Guerra si moltiplicano anche da noi le pubblicazioni di libri e articoli rievocativi, anche se — occorre ricordare — per l’Italia, entrata in guerra il 24 maggio 1915, il centenario cadrà l’anno venturo. Dichiarata guerra solo all’Austria-Ungheria, nell’ottobre 1917 il nostro esercito fu travolto a Caporetto dall’offensiva austro-germanica. Da quando erano iniziate le ostilità contro i tedeschi? E che cosa davvero avvenne a Caporetto? Mi risulta, se non sbaglio, che le responsabilità della «rotta» furono oggetto anche di un’inchiesta parlamentare, pubblicata dopo la guerra e oggi — credo — irreperibile. A quali risultati condusse tale investigazione?
Tiziana Durante ,
Cara Signora
Le sue domande sono numerose e le risposte saranno necessariamente brevi. L’Italia entrò in guerra con rivendicazioni che concernevano l’Austria-Ungheria e dopo un negoziato durante il quale un ex-cancelliere tedesco, Bernhard von Bülow, aveva fatto del suo meglio per convincere Vienna ad adottare posizioni più concilianti sulla questione del Trentino. Con la Germania, invece, non esistevano divergenze. I grandi progressi dell’economia italiana durante i governi di Giolitti erano stati favoriti dai capitali finanziari tedeschi e il carbone di cui l’Italia aveva bisogno proveniva soprattutto dalla Germania. Ma gli Alleati insistettero perché l’impegno dell’Italia nella guerra contro gli Imperi centrali fosse totale e il governo presieduto da Paolo Boselli dichiarò guerra alla Germania il 27 agosto 1916, due settimane dopo l’ingresso delle truppe italiane a Gorizia.
Su Caporetto esiste una sterminata bibliografia: saggi di storia militare, memorie e diari di combattenti che parteciparono all’evento e di giornalisti che ne furono testimoni. Uno dei libri più intelligenti è quello di Mario Silvestri, nuovamente pubblicato in tempi recenti dall’editore Rizzoli nella Bur. La rottura del fronte, secondo Silvestri, fu dovuta principalmente a una strategia austroungarica che lasciava ai piccoli reparti, la libertà di spingersi autonomamente dentro le linee nemiche per attaccare le posizioni italiane ai fianchi e alle spalle. La grande massa degli uomini dislocati sul fronte e lo spazio montuoso in cui occorreva operare ebbero l’effetto di trasformare la ritirata in una rotta che fu possibile fermare soltanto sulle rive del Piave.
Quanto al testo della Commissione d’inchiesta («Dall’Isonzo al Piave 24 ottobre-9 novembre 1917») è stato recentemente pubblicato dall’Ufficio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito a cura di Aldo A. Mola e del colonnello Antonino Zarcone.