• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
  • Passa al piè di pagina
  • Il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
  • Redazione
  • Contatti
  • Photogallery
  • Link
  • Privacy Policy

Risorgimento Firenze

Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

  • Home
  • Focus
  • Tribuna
  • I luoghi
  • Mostre
  • Rassegna stampa
  • Pubblicazioni
  • Editoriale

Rassegna stampa

Quelli che vogliono tagliare le nostre radici

01/02/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Un saggio interpreta la fedeltà dei popoli alle tradizioni come anticamera dell’intolleranza e del nazismo

di Marcello Veneziani – da Il Giornale del 30 gennaio 2012

Vuoi vedere che il male principale del nostro tempo è il richiamo alle radici? Lo ripetono da troppo tempo troppi intellettuali: nelle radici vi sarebbe l’odio per ogni diversità, per la mobilità e l’emancipazione. Nelle radici si nasconderebbe il seme del razzismo e dell’antisemitismo verso l’ebreo errante, l’esodo, il mondo migliore. Le radici sarebbero la figurazione arborea dell’identità, l’ombra legnosa della tradizione, la traduzione in natura dell’ideologia nazionalista e reazionaria.

A comporre questo tam tam giunge ora un libretto di Maurizio Bettini, Contro le radici (Il Mulino, pagg. 112, euro 10), lanciato con evidenza dalla Repubblica. Per uno scherzo del destino in questi giorni esce un libretto di pari formato ma di opposta tesi di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere, pagg. 98, euro 10) con una prefazione di Francesco Perfetti. Scruton sostiene che le democrazie devono la loro esistenza alla «fedeltà nazionale», cioè a quel legame vivo, culturale, storico e naturale, con le proprie radici, il proprio territorio e alla preferenza per il nostrano. Il nazionalismo, a suo parere, è la patologia della fedeltà nazionale o, come preferisco dire, è l’infiammazione dell’idea di nazione: aveva un senso agli albori del Novecento. Gli avversari di Scruton sono le ideologie universaliste, i poteri e le imprese transnazionali, che egli riassume in una sola espressione: oicofobia, ovvero rifiuto delle eredità e della casa. Di oicofobia soffre Contro le radici di Bettini, nel solco de L’invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm, storico che si definisce ancora comunista, e dei numerosi scritti contro l’identità (è il titolo di un testo laterziano dell’antropologo Francesco Remotti).

Secondo Bettini l’immagine delle radici sostituisce il ragionamento con una visione. La metafora delle radici permette di far passare per ordine naturale la sottomissione a una tradizione e a un’autorità. Senza il richiamo alle radici, nota Bettini, un «tradizionalista» non riuscirebbe a dirci come sia concretamente costituita la tradizione o l’identità di cui parla. Non si comprende perché la tradizione abbia necessità di una metafora e, invece, il progresso, l’uguaglianza o la libertà sarebbero in grado di spiegarsi da sole. Non c’è bisogno d’illusionismo o di metafore suggestive per spiegare la tradizione. Ci sono molte cose vive e concrete – atti, patrimoni, eredità, esperienze, legami, gesti, simboli e opere – che indicano la tradizione e l’identità. Le radici sono un simbolo riassuntivo di quell’universo e il frutto di un’analogia tra l’uomo e la terra che abita, tra la vita umana e la natura. L’albero – la pianta, le radici – è sempre stata la più frequente figurazione dell’umano, da Omero a Virgilio e Dante, da Goethe a Heidegger; Bettini, studioso della classicità, lo sa bene. Anche la cultura deriva da culto e coltivazione.

Ma Bettini reputa il richiamo alle radici la pericolosa premessa all’odio per chi non condivide le nostre radici e all’intolleranza verso chi non vi si riconosce. Insomma il nazionalismo (fino al nazismo) è dietro le radici. Ora, che si possano usare le radici anche come corpo contundente per colpire il prossimo, eliminarlo e perseguitarlo, lo conferma anche la storia. Ma la stessa storia insegna che anche nel nome dei diritti umani, dell’uguaglianza, della libertà, della fratellanza, furono violati quegli stessi principi e fu violentata l’umanità. Quante guerre nel nome della pace… Condannare l’amor patrio perché c’è chi fa guerra in suo nome, è come condannare l’amore perché c’è chi compie delitti in suo nome. Le radici possono degenerare in alibi per i violenti ma creano legami – affettivi, comunitari, vitali e culturali – intensi e veri; nessuno può tradurre automaticamente l’amore per le radici in odio verso chi non le condivide. La violenza nasce dal capovolgere le radici in frutti e dal brandirle come rami, violando la loro nascosta profondità. Peraltro nessuno può imporre l’amore delle radici a chi non ne ha, non le sente o non le riconosce. Questa costrizione produce finzione o violenza.

Il dramma della nostra epoca è la perdita delle radici e dei legami, lo spaesamento e la solitudine, la vita labile e precaria che si agita insensata. Se diffidate di Heidegger, leggetevi almeno la Simone Weil di L’énracinement: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana… l’essere umano ha una radice… Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica». Viceversa lo sradicamento per la Weil «è la più pericolosa delle malattie delle società umane».

Parola di Simone Weil, operaista e rivoluzionaria, ebrea e antifascista. Del resto, l’atto dello sradicare evoca in sé una violenza che invece è assente nel radicarsi. È la differenza radicale tra piantare ed espiantare, tra l’essere e la sua negazione.

Aver radici vuol dire non esaurire la propria vita nel presente o nell’egoismo di un’esistenza autarchica; vuol dire venire da lontano, avere un passato e dunque un avvenire, coltivare la vita e non solo consumarla, amare le proprie origini e stabilire consonanze a partire da chi ti è più prossimo. È molto più naturale e umano amare prima chi ti è legato in radice – i tuoi famigliari – piuttosto che amare prima chi è estraneo e lontano. Amare il prossimo si fonda sulla legge della prossimità; amare il prossimo a partire da chi ti è più vicino, stabilendo sugli affetti e i legami un’inevitabile gerarchia d’amore. Non potrò mai amare dello stesso amore mia madre o mio figlio e una persona sconosciuta che vive agli antipodi. Sarebbe falso e bugiardo dire il contrario; sarebbe disumano, anche se passa per umanitario.

E poi le radici sono anche le matrici di una civiltà, le fonti della cultura classica, le tradizioni civili, letterarie e religiose di un popolo. Perché dovremmo considerare barbarico amare le nostre radici? Solo la neolingua totalitaria può indurci a considerare a rovescio la vita, gli affetti, la realtà e l’amore. Shakespeare: «Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? No, o dèi, non sono un vostro vano adoratore. Radici, chiedo ai limpidi cieli». Amate le vostre radici.

Archiviato in:Rassegna stampa Contrassegnato con: mondo

L’errore dei Borbone fu inimicarsi Londra

16/01/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

L’articolo di Paolo Mieli, tratto dal Corriere della Sera del 10 gennaio.

Fin da quando salì al trono nel novembre del 1830, Ferdinando II concepì la presenza del Regno delle Due Sicilie sullo scacchiere europeo come quella di un’entità politica in crescita. Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli (Adelphi) notava che, nelle intenzioni di Ferdinando II, il regno doveva essere un organismo politico «nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé». Così, proseguiva Croce, il figlio di Francesco I «guardingo e abile si avvicinò alla Francia, si liberò della tutela dell’Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso l’Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell’Impero». Ma l’Inghilterra riteneva che l’aver difeso i Borbone ai tempi di Acton e di Napoleone le desse i titoli per poter ottenere una totale subalternità da parte di Ferdinando II. E dava segni di fastidio per quel «contegno non servile» di cui parlava [Leggi di più…] infoL’errore dei Borbone fu inimicarsi Londra

Archiviato in:Rassegna stampa Contrassegnato con: letteratura

Garibaldi sull’Aspromonte: italiani contro italiani

11/01/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Dalla rubrica La lettere a Sergio Romano , Corriere della Sera,  Sabato 7 gennaio 2012

Nel rileggere alcuni testi sul Risorgimento, mi sono imbattuto nell’episodio dell’Aspromonte. Lo ricordavo poco chiaro, ma speravo che studi più recenti potessero averlo reso più comprensibile. Invece le spiegazioni non sono cambiate: Giuseppe Garibaldi partì dalla Sicilia con l’obiettivo di arrivare fino a Roma! Ora, Garibaldi non era certamente uno sprovveduto e non poteva veramente pensare di raggiungere questo obiettivo senza alcun appoggio, con i francesi pronti a difendere il Papa con le armi e con i soldati di mezzo esercito italiano dislocati nel sud del Paese per tentare di reprimere il brigantaggio.

Franco Bordogna

Caro Bordogna,
Garibaldi fu audace, generoso, intelligente, capace di prendere all’occorrenza decisioni oculate e assennate. Ma temo che lei non dia sufficiente peso allo stato d’animo di un uomo che fu, soprattutto dopo la spedizione di Sicilia, oggetto di uno straordinario culto e di grandi aspettative.

In una biografia pubblicata da Laterza nel 2011 e diffusa in allegato al Corriere della Sera nel 2005, Alfonso Scirocco ha descritto la nuova casa di Caprera, dove Garibaldi si ritirò dopo l’incontro di Teano. Era colma di regali, inviati dai suoi ammiratori, e meta di continui pellegrinaggi. Tutti, sulla stampa, nei ministeri europei e nelle pubbliche conversazioni, si chiedevano quale sarebbe stata la prossima mossa del generale, su quale fronte avrebbe deciso di tornare in campo con i suoi volontari. Avrebbe agito in Veneto per conquistare Venezia e suscitare le rivolte delle nazionalità centro europee contro l’impero asburgico? Avrebbe lanciato tutte le sue forze contro lo Stato pontificio e dato Roma all’Italia? Per qualche mese Garibaldi fu una sorta di eroe disoccupato, un attore alla ricerca del nuovo copione in cui avrebbe dato nuove soddisfazioni al suo pubblico, un enorme capitale in attesa di un impiego corrispondente al suo valore.

Alcuni fedeli cercarono di provocarlo all’azione. Il 14 maggio del 1862 un gruppo di volontari, comandati da Francesco Nullo, si riunì a Sarnico sul lago d’Iseo e cominciò a marciare verso il confine austriaco. Ma l’esercito regio, come ricorda Scirocco, era stato allertato: Nullo e i suoi uomini furono arrestati, rinchiusi nelle carceri di Bergamo e di Brescia. L’episodio suscitò grande scandalo negli ambienti garibaldini, ma anche forti critiche al generale negli ambienti moderati, preoccupati soprattutto dalla necessità di consolidare la rispettabilità internazionale dello Stato unitario e di evitare l’intervento della Francia.

Dopo un breve ritorno a Caprera, Garibaldi s’imbarcò per la Sicilia. Ricercava il calore, l’entusiasmo e la fede del maggio 1860. Le accoglienze furono superiori alle aspettative e lo convinsero che sarebbe stato possibile ripetere il miracolo di Marsala e di Calatafimi, mettere il governo di Torino di fronte al fatto compiuto. Attraversò la Sicilia alla testa di un esercito che si ingrossò lungo la strada, sbarcò in Calabria, risalì la costa, piegò verso l’Aspromonte nella speranza di non doversi scontrare con le truppe italiane a cui era stato ordinato di fermarlo. Lo scontro — scrive Scirocco — ebbe luogo il 29 agosto 1862, durò quindici minuti e lasciò sul campo 7 morti e 14 feriti fra le truppe regie, 5 morti e 20 feriti fra le truppe garibaldine. Uno dei venti feriti era Garibaldi, colpito da due palle alla coscia sinistra e al piede destro. Fu trasportato a Scilla, portato da una lancia sulla pirofregata Duca di Genova, issato a bordo da un paranco. «Come i buoi», disse sorridendo.

Sergio Romano

Archiviato in:Rassegna stampa

Vita da best-seller di una monaca garibaldina

07/01/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

“I misteri del chiostro napoletano” di Enrichetta Caracciolo è inserito ne “I best-seller italiani 1861-1946″ di Michele Giocondi (Mauro Pagliai Editore). In dieci anni l’autobiografia della monaca scomunicata che lavorò in segreto per Garibaldi vendette oltre diecimila copie, in un’Italia all’indomani dell’unificazione in cui il tasso di analfabetismo era al 78%.

L’articolo di Mauro Baudino da La Stampa del 04.01.2012

Archiviato in:Rassegna stampa

«L’orgoglio ritrovato di un grande Paese»

01/01/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Giorgio Napolitano fa un bilancio positivo delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità

«L’orgoglio ritrovato di un grande Paese»

«Si avvertiva che l’Italia aveva perduto terreno.
La partecipazione è stata una lezione secca agli scettici»

di  MARZIO BREDA, dal Corriere della Sera del 24 dicembre 2011

In una pagina de La provincia dell’uomo , Elias Canetti sosteneva che «quando tutto va in pezzi, il calendario con i suoi giorni particolari resta l’unica e l’ultima sicurezza». Vale a dire che cercar riparo nel calendario per rivivere certi anniversari (e ciò vale per le paranoie di un singolo individuo come di un intero popolo) serve ad «assorbire la paura». E oggi di paura e incertezza ce n’è molta, nell’Italia che ha appena festeggiato i suoi 150 anni di unità. Non a caso i sociologi la fotografano come depressa, esausta e, appunto, impaurita. Una descrizione che si fonda su buone ragioni. Basta pensare a quanto ci hanno messo sotto stress le esasperate prove di forza in Parlamento, i collassi dell’economia, le ferite all’immagine internazionale del Paese, la caduta di Berlusconi e la nascita del governo Monti come soluzione d’emergenza per una politica in affanno. E, infine, i duri sacrifici imposti dalla manovra per dissipare lo spettro del default.

 

È dunque un anno carico di inquietudini, quello che arriva. Ma, nonostante tutto, Giorgio Napolitano non si arrende alla sfiducia. Le sfide e i rischi che ci stanno davanti sono superabili, dice, «con l’arma vincente della coesione sociale e nazionale». Un’arma che, nei momenti difficili, gli italiani hanno sempre dimostrato di saper ritrovare. Quindi, «ce la faremo, usciremo dal tunnel». Ne è tanto più convinto, il capo dello Stato, dopo che nel suo viaggio dentro la memoria del Paese ha riconosciuto nella risposta della gente vaste e salde tracce di quel «cemento unitario» in grado di offrire speranza. A lui e a noi.

Ne parla mettendo tracciando un bilancio di questa esperienza (più culturale che politica) che un po’ lo ha stupito. Spiegando come – da Quarto a Marsala, da Reggio Emilia a Napoli, da Bergamo a Palermo, a molti altri luoghi – sia riuscito a costruire un «racconto nazionale» in grado di convincere gli italiani a essere fedeli a se stessi. Italiani che, a suo avviso, erano comunque «già pronti a reagire positivamente», unendo le forze e ripartendo dal passato per guardare a un nuovo orizzonte.
Eppure, gli chiediamo, alla vigilia delle celebrazioni qualche segnale fece temere che la guerriglia politica di cui siamo ostaggi contagiasse l’anniversario, facendo prevalere diserzioni e polemiche. Si recriminò perfino sulla proclamazione del 17 marzo «festa della Nazione». Insomma: c’era chi profetizzava il fallimento tout court di quanto era stato messo in cantiere. Ora, a un anno di distanza, le cose sono andate inaspettatamente bene anche grazie a una miriade di iniziative spontanee. E, come lei ha detto, ciò rappresenta «una lezione secca per gli scettici». Come è stato possibile, Presidente? Che cosa ha prodotto questo scatto di coesione, «dignità e orgoglio nazionale» in un popolo sempre in deficit di autostima e diviso? A quali riserve di sentimenti, cultura, capitoli storici e valori simbolici (evidentemente interiorizzati in profondità, nonostante tutto) abbiamo attinto a dispetto di tanta sfiducia?

«Il successo di partecipazione diffusa, la più variegata e popolare, in tutte le regioni, e fin nei più piccoli centri, delle celebrazioni del 150° è stato superiore a ogni previsione. Non direi che le cose sono andate “inaspettatamente bene”: per quel che mi riguarda, nutrivo aspettative consistenti, ero sicuro che l’impresa potesse riscuotere ampio consenso, ero fiducioso. Direi che le cose sono andate bene al di là delle più positive previsioni. Ma la domanda che lei pone è, allora: “Com’è stato possibile?”. Credo che lei colga un aspetto essenziale della spiegazione da dare: e cioè la riserva a cui si poteva attingere “di sentimenti, cultura, capitoli storici e valori simbolici” che evidentemente – lei dice bene – erano stati “interiorizzati in profondità, nonostante tutto”. Ebbene, li abbiamo, per così dire, fatti emergere, li abbiamo – con i nostri appelli, le nostre iniziative, le nostre sollecitazioni – portati in superficie. Ed è stato molto importante, è stato decisivo. Se fossero mancate quelle basi, ogni perorazione sarebbe risultata inefficace o assai limitatamente efficace».
Ma naturalmente non si riduce tutto a questo, per Napolitano. C’è un sottosuolo di sentimenti, e di mortificazioni, che ha sbloccato anche i cittadini più disincantati e prodotto uno scatto di «passione» per la Patria-Italia.

«Sì, c’è un altro aspetto, io ritengo, della spiegazione da dare del successo delle celebrazioni. E cioè che, in effetti, si era via via accresciuto tra gli italiani, tra larghe masse di italiani – uomini e donne di ogni generazione – un bisogno di riaffermazione di quel che siamo, come grande nazione e come moderno Stato europeo. Un bisogno di recupero dell’orgoglio nazionale, in reazione a stati d’animo di disagio, di incertezza e anche di frustrazione. Si avvertiva che in qualche modo, anche (ma non solo) nel confronto internazionale, l’Italia aveva perduto terreno, aveva visto offuscarsi la propria immagine, il proprio prestigio, la propria dignità. Ed ecco quindi che questi stati d’animo, questi sentimenti nuovi, recenti, si sono incanalati nel solco delle celebrazioni del 150°. Queste sono state viste come l’occasione per far nuovamente sentire più forte il patrimonio storico dell’Italia, il nostro ruolo in Europa e nel mondo. E questa occasione è stata colta da milioni di italiani, da quanti mettevano la bandiera al balcone o agitavano il tricolore nelle piazze, nelle strade, e partecipavano alle assemblee, a iniziative di ogni sorta e di ogni dimensione. Credo che questo secondo elemento di spiegazione sia essenziale almeno quanto il primo, che già nella sua domanda veniva chiaramente suggerito».

Durante questo percorso lei è andato oltre una certa ortodossia risorgimentale, senza disconoscere «zone d’ombra» e «vizi d’origine» dell’unità e senza negare alcune letture problematiche che revisionano una «versione di Stato» pietrificata per anni. Riflessioni che lei ha spesso comparato con la ricostruzione di quanto avveniva nel contempo in Europa e corredate con una rivisitazione del ruolo giocato dai diversi protagonisti: Cavour, Mazzini, Garibaldi, Cattaneo.
«È vero che ho ben presto compreso come nel modo di concepire e promuovere le celebrazioni del 150° dovessi, più che “andare oltre una certa ortodossia risorgimentale”, evitare quel che poteva apparire rappresentazione convenzionale e acritica del processo unitario e ancor più dello sviluppo successivo della nostra storia nazionale. Mi sono ben presto reso conto che non bastava nemmeno la valorizzazione appassionata dei simboli della nostra unità nazionale, ma era indispensabile nutrire quella valorizzazione e sollecitazione con risposte a interrogativi non semplici, abbastanza largamente percepiti, che riguardavano criticità indubbiamente rilevabili nel lungo e complesso percorso del Risorgimento e anche della costruzione dello Stato unitario. Mi sono perciò anche personalmente impegnato – ma insieme con molti altri, a cominciare dalle personalità del Comitato dei Garanti, e in primo luogo del suo presidente, Giuliano Amato – in una rivisitazione il più possibile attenta, non elusiva e perciò convincente».

Su quali studi ha formato le proprie idee? Quali saggi e ricerche consiglierebbe alle generazioni di oggi? «Personalmente sono ripartito da libri che avevo letto e da molti anni – in qualche caso davvero molti – conservato negli scaffali della mia biblioteca. I libri di Giustino Fortunato e i testi del meridionalismo; le diverse Storie di Benedetto Croce, compreso quell’autentico gioiello costituito da Una famiglia di patrioti ; lettere e scritti di Silvio Spaventa; una voluminosa, poco ricordata, ricerca di Giuseppe Berti su I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento ; La storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia del Candeloro; la Vita di Cavour di Rosario Romeo… E mi fermo qui. Ma su Cavour, in anni più recenti, un contributo stimolante e vivo avevo colto nell’agile libro di Luciano Cafagna. E utilissima è stata pochi anni orsono la pubblicazione di una raccolta molto accurata e ricca di testi sul Risorgimento, in 8 volumi, introdotta e curata da Lucio Villari. Poi, nel corso stesso del periodo di svolgimento delle celebrazioni, sono sopraggiunti nuovi apporti sul piano degli studi storici e delle interpretazioni del Risorgimento e della problematica dell’Unità d’Italia: di Massimo Salvadori, di Ernesto Galli della Loggia, di Emilio Gentile, di Alberto Mario Banti, di Adriano Viarengo, per non fare che qualche nome. E non posso trascurare anche apporti di studiosi stranieri, come quello di Lucy Riall su Garibaldi o di Gilles Pécout su Cavour. Infine, non avrei potuto, nei miei interventi e discorsi, seguire un filo coerente, e verificare o affinare dei giudizi storici, senza il dialogo con amici storici, con studiosi di alta qualità come Giuseppe Galasso, Massimo Salvadori, Rosario Villari. Ecco, credo che da questo quadro di riferimento da me sommariamente tracciato in chiave personale, possano trarre indicazioni di lettura utili per qualsiasi approfondimento coloro che siano interessati, specie se giovani, a compierlo». Lei ha sdrammatizzato alcune distorsioni delle dispute sul 150° rammentando che anche in qualche Paese di identità forte, come Francia e Stati Uniti, è in corso un dibattito pubblico sui temi identitari e della nazionalità. Citando Huntington, ha spiegato che «questi dibattiti sono una caratteristica pervasiva del nostro tempo» perché le crisi delle identità nazionali «sono divenute un fenomeno globale».

Sarebbe come dire che la globalizzazione tende a estremizzare la ricerca delle radici locali, con relative spinte centrifughe? Quale potrebbe essere l’antidoto al revanscismo delle piccole – talvolta piccolissime – patrie, dove ci si sente espropriati di sovranità anche a causa del processo di costruzione dell’Europa? «Che la globalizzazione possa determinare fenomeni di “spaesamento”, se così li vogliamo chiamare, suscitare un’ansia di smarrimento della propria identità nazionale o locale, mi sembra indubbio. Ma non credo siano fatali le spinte centrifughe o che esse non risultino dominabili e superabili. Comunque, non ritengo che vi siano nel nostro continente “piccole patrie” in cui ci si possa “sentire espropriati di sovranità” per effetto del processo di costruzione dell’Europa unita. L’autolimitazione delle sovranità nazionali a favore delle istituzioni comunitarie, da parte dei Paesi impegnatisi sulla via dell’integrazione europea, è stata, a partire dagli anni cinquanta dello scorso secolo, una scelta volontaria e consapevole, essendosi compreso che non vi era altrimenti alternativa a una fatale perdita di rilevanza dell’Europa in un mondo che cambiava e anche a una crescente impossibilità di risolvere – nella pace – sul piano strettamente nazionale problemi che oramai stavano travalicando quella dimensione».

Presidente, la tesi di chi contestava l’anniversario si fondava su questo giudizio: «Una storia comune degli italiani non esiste più e forse non è mai esistita». È una vecchia idea, che passa attraverso la scomposizione della carta cronologica del Paese nella quale si pretenderebbe di vedere solo una somma di fratture e discontinuità, cause della pretesa «immaturità» dell’Italia come nazione. L’eredità del passato, perciò, sarebbe sempre controversa e su di essa cova ancora il peso della questione meridionale. Lei ha cercato di sterilizzare anche questo argomento, ragionando sulla nostra identità plurale. Ha puntualizzando da un lato che il Sud «non subì» il moto risorgimentale, ma vi ebbe anzi attivamente parte, e dall’altro ha esortato gli italiani del Sud a essere «maggiormente responsabili del proprio futuro».

Ma che cosa bisognerebbe cambiare – anche sul piano della cultura civica – per spegnere questo ambiguo conflitto e mettere in sicurezza l’unità comune? Che cosa andrebbe fatto, ad esempio, per evitare che il federalismo di cui tanto si discute sia pensato e attuato «contro» l’Italia? «Ho confutato sistematicamente argomenti scarsamente fondati su una fatale dissoluzione della nostra unità nazionale o su una sua antica e nuova immaturità o irrealizzabilità. Non solo non ho negato ma ho messo in evidenza la gravità della maggiore incompiutezza del nostro processo di unificazione indicandola nel persistere della questione meridionale. Si tratta, ovviamente, di un tema di riflessione e di ricerca centrale non solo per chi vive e opera nel Mezzogiorno, ma per chiunque abbia a cuore le sorti e le prospettive dello sviluppo complessivo dell’economia e della società italiana e del rafforzamento dello Stato nazionale. Uno Stato che – fin dagli anni di quella solenne riflessione e anticipazione di futuro che fu il dibattito in Assemblea Costituente, che fu il lavoro creativo dell’Assemblea Costituente – ci siamo impegnati a riformare, innanzitutto nel senso di correggerne il vizio originario: e cioè l’impronta – sia pur storicamente inevitabile negli anni immediatamente successivi al compimento dell’unità, ma senza dubbio distorsiva – di una forte centralizzazione, quasi di una forzosa riduzione all’uniformità. In questo senso c’è ancora molto da fare, anche se non posso improvvisare alcuna breve ricetta nella risposta su questo punto».

Siamo alla vigilia di un anno al quale quest’Italia, che a volte sembra ripiegarsi nelle sue croniche debolezze e incline all’autoflagellazione (quella che Gadda chiamava «la porca rogna del denigramento di noi stessi»), si accosta con angoscia. La crisi che sta attraversando il pianeta colpisce in particolare noi. C’è un’immagine, un episodio, una persona, un libro di questo anno di celebrazioni attraverso il Paese che ricorda in particolare per averne magari tratto una carica d’incoraggiamento?
«Se mi chiede di citare un libro-chiave per la comprensione del processo unitario, non posso che citare l’opera completa, Cavour e il suo tempo , dedicata da Rosario Romeo al massimo artefice politico del successo storico dell’impresa risorgimentale. Il capitolo conclusivo di quell’opera rimane una sintesi mirabile. E se vuole che ricordi un’immagine e un episodio che mi hanno particolarmente colpito e motivato nel corso delle celebrazioni, citerò l’incontro (l’11 maggio 2010) sull’altura di Calatafimi, teatro di una sanguinosa e decisiva battaglia, nel 1860. Su quell’altura che dominava il campo di battaglia, mi sono fermato dinanzi ai cippi con i nomi dei caduti garibaldini provenienti da varie parti d’Italia, e segnatamente da città del Nord. Lì, ho come toccato con mano la prova tangibile, in un’atmosfera di grande emozione, di quella coesione e unità tra gli italiani cui dobbiamo guardare di nuovo oggi come all’arma vincente per superare le sfide del presente e del prossimo futuro».

Archiviato in:Rassegna stampa Contrassegnato con: mondo

Il Risorgimento milanese: il revisionismo di Salvemini

13/12/2011 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Dalla rubrica lettere a Sergio Romano del Corriere della Sera di Giovedì 8 dicembre 2011. [Leggi di più…] infoIl Risorgimento milanese: il revisionismo di Salvemini

Archiviato in:Rassegna stampa Contrassegnato con: letteratura

L’economista Sella che salvò l’Italia con tributi impopolari

10/12/2011 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

 Il politico piemontese fu ministro delle finanze in tre governi diversi. L’uomo di punta della “Destra storica” venne apprezzato anche dai suoi avversari. Articolo di Francesco Perfetti dal Tempo del 6/12/2011

Leggi l’articolo >>

Archiviato in:Rassegna stampa

Liberalismo all’italiana: l’alternanza impossibile

04/12/2011 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Perché Einaudi e Croce all’inizio difesero Mussolini.  Articolo di Paolo Mieli uscito nelle pagine culturali del Corriere della Sera del 29 novembre. [Leggi di più…] infoLiberalismo all’italiana: l’alternanza impossibile

Archiviato in:Rassegna stampa

Italia senza alternanza già nel Risorgimento

05/11/2011 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

In un saggio Michele Salvati s’interroga sulle ragioni lontane della crisi attuale. Articolo di Paolo Mieli dalla pagine culturali del Corriere della Sera  del 1 novembre.

Una paralisi dovuta al peso delle forze antisistema L’ affermazione del fascismo Non furono soltanto le violenze che consentirono a Mussolini di vincere le elezioni del 1924

Quando si parla della storia d’ Italia va sempre tenuto a mente che alle prime elezioni, nel 1861, ebbero diritto di voto 420 mila elettori maschi, meno del 2 per cento della popolazione, e andò a votare solo il 56 per cento di loro, talché il primo Parlamento del nostro Stato unitario venne eletto da circa l’ 1 per cento degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di duecento voti per mandare a Torino un deputato; in uno, solo 89. È questo il punto d’ avvio di un libro di Michele Salvati, Tre pezzi facili sull’ Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi (il Mulino), il quale si propone di mettere a fuoco carenze ed errori che ci aiutano a capire che cosa è accaduto negli ultimi vent’ anni. Una evidenziazione a tratti dissacrante di quel che ha mal funzionato (o non ha funzionato affatto) lungo l’ arco dei 150 anni di unità celebrati nei mesi scorsi in ogni città e piccolo paese d’ Italia. Si parte dunque dalla esiguità del numero di coloro che furono coinvolti nella fase iniziale dell’ avventura. Per poi dividere la storia del Paese in tre stagioni: quella che va dal 1861 al 1913, l’ Italia liberale; quella dal 1914 al 1924, l’ Italia alle prese, in particolare nel primo dopoguerra, con i partiti di massa; e infine – accantonato il ventennio mussoliniano – quella che va dal 1943 al 1993, la cosiddetta Prima Repubblica. Il Regno d’ Italia, e l’ unità italiana di cui abbiamo testé celebrato il 150° anniversario, nascono dunque «dall’ alto», sono costruiti «da un’ élite molto ristretta, da un ceto di politici liberali grosso modo divisi in una destra monarchica, moderata o conservatrice, e in una sinistra in cui confluiscono gli eredi delle forze repubblicane e mazziniane». «Non ho niente contro questa costruzione dall’ alto», dichiara Salvati, «molte unità statali nascono come costruzioni di élite e poi riescono a coinvolgere con successo il popolo nel processo di ampliamento della democrazia». Ma a questa seconda fase da noi si arrivò tardi, molto tardi. Anche restando nell’ ambito di una «costruzione di élite», la nostra nasce con un vizio d’ origine: l’ esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX – la proibizione fatta ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato che la Chiesa non riconosce – renderanno debole il fronte borghese, con conseguenze molto gravi sulla «qualità democratica» dei governi liberali, sulla stessa «tenuta della democrazia» nelle prove che essa sarà costretta ad affrontare dopo la Grande guerra. Per cinquant’ anni, nella fase iniziale della storia d’ Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisistema». Sono i «neri», come li definivano i liberali. Ai quali andavano ad aggiungersi – sul versante politico opposto – i «rossi», cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l’ ossatura del Partito socialista che nascerà a Genova nel 1892 (in Germania la Spd era stata creata nel 1869). I rossi, ancor più dei neri, sono forze antisistema e, per trovare un inizio di dialogo tra socialisti e liberali, tra Filippo Turati e Giovanni Giolitti, si dovrà attendere la vigilia della Prima guerra mondiale. Sulla scia di due studi molto importanti – Il trasformismo come sistema (Laterza) di Giovanni Sabbatucci e Storia d’ Italia e crisi di regime (il Mulino) di Massimo Salvadori – Salvati individua in quel che si è appena detto l’ origine dei problemi successivi: Destra e Sinistra storica non potevano opporsi l’ una all’ altra come in Inghilterra, cioè nella patria della democrazia rappresentativa, facevano già allora i Whigs, i liberali, e i Tories, i conservatori. Nell’ assillo che, in caso di sconfitta, la Destra scegliesse di allearsi con i «neri antisistema», e la Sinistra con i «rossi antisistema», così da poter giungere ad uno strappo della tela unitaria, in quell’ assillo, dicevamo, la lotta politica fu soprattutto una lotta interna a un’ unica grande maggioranza. Una gara la cui posta era la leadership della maggioranza stessa, mai la formazione di una maggioranza alternativa. In un bel libro, pubblicato anch’ esso dal Mulino, Ottocento. Lezioni di storia contemporanea  Raffaele Romanelli spiega come anche il passaggio del 1876 dalla Destra di Marco Minghetti alla Sinistra di Agostino Depretis non si configurò in un quadro di alternanza. Depretis portò al governo un «amalgama», come allora fu detto, di un centro aperto alla sinistra moderata (in particolare quella meridionale) «che teneva a distinguersi a sinistra dai gruppi più radicali e a destra dai più retrivi». Agli uni e agli altri «mancavano peraltro programmi e punti di riferimento forti, tali da connotarli in positivo e da fondare una dialettica parlamentare». E così, prosegue Romanelli, «il modello centrista, essendo privo di effettivi antagonisti, risultò dall’ occasionale accorparsi attorno al governo di singoli deputati o gruppi; agiva in questa direzione anche la debolezza della presidenza del Consiglio, giacché il regime parlamentare si era instaurato per via di prassi e formalmente il capo dell’ esecutivo era tuttora il re». Qualche tempo dopo Depretis si compiacque della capacità dei parlamentari di «trasformarsi» scegliendo la via del «progresso». Ma questo verbo «divenne presto uno stigma negativo e “trasformismo” divenne sinonimo di accomodamento interessato, privo di idealità e di forza, di quell’ attitudine alla transazione – alimentata dal connubio di parlamentarismo all’ inglese e di accentramento amministrativo alla francese – per la quale i singoli deputati patteggiavano il loro sostegno alla maggioranza in cambio di favori al proprio collegio, o agli interessi di riferimento, in genere agrari, industriali, finanziari». Già nella seconda metà dell’ Ottocento si potevano constatare i perniciosi effetti dell’ assenza di alternanza o quantomeno di una prospettiva di alternanza. Sidney Sonnino nel 1900 mise bene a fuoco la questione. «I pericoli e le difficoltà speciali in cui si trova il governo monarchico-rappresentativo in Italia», scrisse, «il premere dei partiti estremi, poco scrupolosi nella scelta dei mezzi e delle alleanze e alimentati dalle tradizioni rivoluzionarie che coadiuvarono alla costituzione prima del Regno… l’ ostilità irriducibile del Vaticano che dà colore antidinastico e antiunitario a un partito che altrimenti si presenterebbe soltanto come ultraconservatore, tutte queste cose insieme e altre ancora rendono, a parer mio, impossibile al grande partito costituzionale e liberale di darsi il lusso di dividersi normalmente in due schiere distinte e distintamente organizzate che si alternino con regolare vicenda al governo della cosa pubblica. Ognuno dei due partiti cadrebbe vittima del partito estremo che gli resta più vicino, la sinistra dei sovversivi, la destra dei clericali». Non fu dunque – come comunemente si crede – la guerra fredda a determinare qui in Italia, nella seconda metà del Novecento, l’ impossibilità dell’ alternanza. Già un secolo prima, fin dall’ inizio della nostra esperienza unitaria, tale impossibilità fu un carattere basilare del nostro sistema politico, carattere che con il passare degli anni lo rese unico al mondo. Unico. Non ci fu alternanza dopo le elezioni del 1913 (le ultime con il sistema uninominale) quando finalmente, grazie al suffragio universale maschile, andarono alle urne otto milioni e mezzo di elettori, talché i candidati appoggiati dai cattolici e quelli socialisti ottennero ottimi risultati. E neanche dopo le elezioni del 1919 (le prime con il proporzionale) o del 1921 quando i partiti di massa conquistarono la maggioranza in Parlamento. Non potendosi coalizzare tra di loro e non riuscendo a farlo – per il «teorema Sonnino» – con i liberali, i nuovi partiti spalancarono, anzi, le porte alla dittatura. Giustamente poi Salvati si sofferma sulle elezioni del 1924 osservando che, certo, ci furono violenze e un forte clima di intimidazione in molti seggi, «ma non sono queste le ragioni che spiegano il successo della Lista nazionale fascista», la quale ottenne quasi il 65 per cento dei suffragi. Utile precisazione. Nel secondo dopoguerra il problema si ripresentò. Non potendo consentire – dopo il 1947 – l’ ingresso dei comunisti al governo, i partiti laici e, successivamente, i socialisti furono «costretti» a partecipare ad un governo quasi sempre a guida democristiana. Di qui «la formazione di un ceto di governo permanente, soggetto a periodici assestamenti interni – sono cinquanta i governi della Prima Repubblica, più di uno all’ anno – ma non il frutto di una scelta degli elettori tra programmi alternativi». Questa «la conseguenza della coazione a stare insieme di partiti che programmi alternativi pur li avrebbero avuti – a differenza dei notabili dell’ Italia liberale – ma non potevano esprimerli attraverso una scelta di opposizione, per il rischio di far vincere il grande oppositore antisistema: le diversità programmatiche dovevano essere smussate attraverso continue mediazioni interne, che si riflettono nel vorticoso succedersi di governi espressi da una classe dirigente che è sempre la stessa». E se c’ è un ceto di governo permanente, «deve anche esistere un ceto di opposizione permanente: una situazione questa – la certezza che non si sarà mai chiamati a governare – che di sicuro non giova a un’ evoluzione riformistica del partito di opposizione». Salvati qui parla esplicitamente di «lesione dei principi democratici» provocata da questo stato di cose. Lesione che avrà come effetto «una sempre minore efficacia dell’ azione dei governi». Debole capacità di governo che «si vedrà meno nella lunga fase dei governi centristi, tra il 1948 e il 1963, soprattutto per lo strapotere che la Dc esercitava nei confronti dei partiti minori». Forse un benefico effetto avrebbe potuto averlo la «buona» legge elettorale maggioritaria del 1953 che, però, non passò. Cosicché la Dc fu costretta ad allargare la maggioranza ai socialisti, i quali dalla metà degli anni Cinquanta andavano staccandosi dal Pci. Nel corso di questo tragitto ci fu nel 1960 il governo guidato da Fernando Tambroni con i voti del Movimento sociale italiano, «tentativo fallito», specifica Salvati, «in realtà non intensamente voluto» (interessante puntualizzazione). Fu poi la volta delle «convergenze parallele» e, finalmente nel 1963, del primo centrosinistra organico con il Psi. All’ area di maggioranza «si aggiungeva un grande e orgoglioso partito che arrivava al governo con un programma di riforme robusto: nulla di incompatibile con un’ economia capitalistica, ma tale da preoccupare gran parte dei ceti dai quali la Dc traeva i suoi consensi». Con il tempo, «il Psi venne a più miti consigli, scambiando il radicalismo delle riforme con un accesso sempre più ampio alle pratiche di lottizzazione». E, se si considera che da quel momento i sindacati ebbero un rapporto assai fluido con tutte le forze di governo e che i comunisti, i quali pure fino al 1976 rimasero fuori dalla stanza dei bottoni, furono «ben dentro» i luoghi in cui si decideva la destinazione delle risorse, si comprende come e da cosa ha avuto origine la lievitazione del debito pubblico. In un libro molto denso e intelligente testé pubblicato da Einaudi, Pensare l’ Italia , Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone si soffermano su quegli anni con acute osservazioni. Galli della Loggia spiega bene le caratteristiche di tutto il secondo dopoguerra. Anni in cui «noi realizziamo la seconda, massiccia ondata di industrializzazione che ci rende un Paese definitivamente moderno», percorrendo contemporaneamente tre strade: quella della costruzione di un regime democratico, quella della progressiva messa a punto di un sistema di Welfare State, e, infine, quella dell’ allargamento dell’ apparato produttivo industriale. Ciò che ha voluto dire che «tra il 1945 e il 1968 noi abbiamo dovuto mettere ai voti ogni cinque anni la nostra rivoluzione industriale», così che «il prezzo della modernizzazione italiana fu uno statalismo fuori misura». Salvati definisce un «capolavoro politico» della Dc l’ essere riuscita a tenere il Pci, «partito antisistema», fuori dalla maggioranza senza compromettere la natura democratica del sistema stesso. E tutto andò per il meglio nella stagione del centrismo. Ma, finita l’ industrializzazione «facile» del primo dopoguerra, «le visioni di politica economica delle culture cattoliche, socialiste e comuniste non erano certo le più idonee a indirizzare un’ economia di mercato che stava avviandosi a una complessità crescente». Così da quando, dopo il 1953, iniziò l’ opera di coinvolgimento del Partito socialista (che andò in porto dieci anni dopo, nel 1963) le cose cambiarono: era inevitabile «che, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello programmatico, sia, e sempre di più, sul piano della spartizione del potere, i contrasti (e dunque le difficoltà) di governo aumentassero di molto». E qui una notazione importante: che «un Partito socialista collaborasse stabilmente con una Democrazia cristiana fu un fenomeno anomalo, foriero di conflitti e incoerenze politiche, che si giustificava solo per la presenza di un partito antisistema che doveva essere escluso dal governo: date le loro differenze ideologiche e i diversi interessi rappresentati, normalmente i socialisti e i democristiani costituivano in Europa i due poli dell’ alternanza democratica. Nel lungo andare i conflitti ideologico-programmatici si attenuarono, certo; ma si inasprirono i conflitti di potere, aventi per oggetto la spartizione delle risorse pubbliche». L’ intera seconda parte della Prima Repubblica – trent’ anni, dal 1963 al 1993 – fu governata da governi di centrosinistra con un, più o meno esplicito, coinvolgimento del Pci. E qui la tesi di Salvati – espressa per sua stessa ammissione «in modo apodittico» – è che in quella stagione «siamo entrati in una situazione di rallentamento economico più grave degli altri Paesi europei a seguito delle scelte (e delle mancate scelte) delle classi dirigenti del centrosinistra». Tesi che «non salva l’ opposizione comunista, che è anzi l’ elemento determinante di un sistema politico incapace di controllare le tensioni distributive di breve periodo e attuare le necessarie riforme strutturali». Discorso che, ovviamente, investe anche i governi della cosiddetta Seconda Repubblica. È vero che negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia tenne lo stesso ritmo del resto d’ Europa (che, però, negli anni Cinquanta e Sessanta era stato maggiore). Ma questo è potuto accadere perché negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia ha potuto godere di un sostegno fiscale straordinario, «quello, appunto, che nasceva dai disavanzi pubblici e diede origine al colossale debito che tuttora ci affligge». Svalutazione della lira e «sommerso», vale a dire evasione diffusa delle tasse nelle aree di maggior sviluppo, fecero il resto. Poi, però, quando si arrivò all’ ora della verità, venne al pettine il nodo di cui si è detto, l’ inidoneità delle visioni di politica economica riconducibili a Dc, Psi e Pci. Salvati è particolarmente severo con quelle della sinistra «dove, fino alla fine degli anni Ottanta, furono prevalenti orientamenti culturali difficilmente spendibili per un moderno riformismo». Discorso che vale in pieno per il Partito comunista. Ma anche per quello socialista, il quale «ancorché staccatosi dall’ alleanza con il Pci nei primi anni Sessanta, ci mise molto tempo ad acquisire orientamenti di socialismo liberale: bisognerà aspettare Craxi e la fine degli anni Settanta». Ma una volta acquisiti orientamenti più moderni, «l’ anomalia del sistema politico e le lotte di potere con i democristiani sulla spartizione delle risorse pubbliche impedirono al Psi di esercitare appieno la funzione modernizzatrice e liberale che avrebbe potuto avere». Così i partiti di governo nella stagione del centrosinistra «divisi al loro interno da conflitti ideologici di antica origine e da lotte di potere sempre più aspre, tallonati dai sindacati e dal Pci, furono incapaci non soltanto di prendere la posizione dura di de Gaulle (e più tardi della Thatcher), ma anche di avviare una concertazione costruttiva come avveniva in altre democrazie: il sindacato e, dietro di esso, il Pci, lo impedivano e bisognerà attendere la crisi finale della Prima Repubblica affinché una concertazione efficace possa aver luogo… Insomma, la concertazione efficace e il definitivo sradicamento dell’ inflazione (in mezzo a sofferenze e contorsioni ideologiche di cui le dimissioni di Bruno Trentin, dopo aver sottoscritto l’ accordo del 1992 sulla scala mobile, restano l’ esempio più illuminante) avvennero con dieci anni o più di ritardo rispetto agli altri Paesi europei». Salvati non esita a puntare l’ indice contro «la prevalenza nelle forze di opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte del Novecento, che ebbero un ruolo determinante nell’ ostacolare la formulazione e l’ esecuzione di politiche economiche efficaci». Dunque, per quel che riguarda la storia della Prima Repubblica, all’ epoca dei governi centristi «le classi dirigenti fecero, nella buona sostanza, le scelte giuste e colsero le occasioni di sviluppo che ad esse si erano presentate»; mentre la cause del ristagno relativo vanno rintracciate nelle culture politiche che prevalsero nei trent’ anni del centrosinistra. Tesi originale in sé. Ma ancor più interessante se si considera che a proporla è il padre ed inventore del Partito democratico, cioè la forza politica che raccoglie gli eredi di quella stagione. Poi, gran parte delle riforme attuate dai primi governi della Seconda Repubblica e soprattutto dagli ultimi due governi della Prima (quelli presieduti da Giuliano Amato e da Carlo Azeglio Ciampi) – sostiene Salvati – si sono mosse, pur con qualche errore, nella direzione giusta, quando hanno cercato di introdurre nel sistema gli elementi di liberalizzazione, di efficienza e di competizione necessari all’ attuale fase economica mondiale. «Ma il problema di fondo», aggiunge, «è che le riforme sono state calate in un contesto fortemente deteriorato». E, come ha documentato Fabrizio Barca in Italia frenata (Donzelli), questo contesto ha provocato tante e tali resistenze che, passato l’ effetto di tali governi, quasi tutto è tornato al punto di partenza. Un libro a cura di Giuseppe Ciccarone, Maurizio Franzini ed Enrico Saltari, L’ Italia possibile. Equità e crescita (Brioschi) ha recentemente sostenuto la tesi (di Mario Tronti) secondo la quale – in sintesi – una politica sindacale più aggressiva dopo la svalutazione del 1992-96, e dunque una crescita più sostenuta dei salari, una minore possibilità di ricorrere al lavoro precario e a basso costo, avrebbero indotto le imprese a maggiori investimenti in innovazione. E, con ciò, avrebbero provocato una maggiore crescita sia della produttività che della domanda interna e di conseguenza del reddito complessivo. Salvati risponde che «la tesi è interessante, l’ argomentazione che la sostiene è ben costruita» e pur tuttavia «non è convincente né da un punto di vista economico, né da uno politico». La «colpa» del ristagno – secondo l’ autore di Tre pezzi facili sull’ Italia – va attribuita a squilibri di finanza pubblica accumulati nel passato, ad un tessuto produttivo debole o, più in generale, a fattori reali d’ offerta degenerati come conseguenza delle mancate riforme del «lungo centrosinistra». Gli errori successivi («errori che sarebbero stati evitabili nelle condizioni di forza sindacale e di prevalenza politica di coalizioni pro-labour nella seconda parte degli anni Novecento») sono semmai una conseguenza di quella colpa. Circola da tempo una visione nostalgica, un rimpianto diffuso per la Prima Repubblica e per il centrosinistra, alimentata soprattutto dall’ insoddisfazione per la rissa politica e per i deludenti esiti economici della Seconda. «Insoddisfazione più che giustificata», chiosa Salvati, «ma che non deve condurre a mitizzare una fase non felice della nostra vita pubblica e la politica economica in essa attuata; l’ eredità di quella fase è stata molto pesante e contribuisce a spiegare gli stessi esiti deludenti del periodo successivo». Mai da uno studioso di sinistra erano state usate parole così aspre nei confronti della stagione che si aprì con il governo guidato da Aldo Moro e da Pietro Nenni nel dicembre del 1963

Mieli Paolo

Mieli Paolo

Archiviato in:Rassegna stampa Contrassegnato con: mondo

UN ROMANZO STORICO AL SERVIZIO DELL’UNITÀ

19/10/2011 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Dalle lettere a Sergio Romano nel Corriere della Sera del 16 ottobre.

[Leggi di più…] infoUN ROMANZO STORICO AL SERVIZIO DELL’UNITÀ

Archiviato in:Rassegna stampa

  • « Vai alla pagina precedente
  • Vai alla pagina 1
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 23
  • Vai alla pagina 24
  • Vai alla pagina 25
  • Vai alla pagina 26
  • Vai alla pagina 27
  • Pagine interim omesse …
  • Vai alla pagina 30
  • Vai alla pagina successiva »

Barra laterale primaria

il Comitato Fiorentino per il Risorgimento
è associato al Coordinamento nazionale Associazioni Risorgimentali FERRUCCIO

L’editoriale del direttore

1° MAGGIO. La Festa del Lavoro

Prossimi appuntamenti

La commemorazione di Curtatone e Montanara al Cenacolo di Santa Croce a Firenze

21/05/2022

27 APRILE. Festa dell’Indipendenza della Toscana

20/04/2022

BUONA PASQUA

14/04/2022

Lettere al Direttore

L’INTERNAZIONALISMO DELLA RESA

04/05/2022

Focus

UN VERO ALPINO DIFENDE LE RAGAZZE, NON LE MOLESTA

14/05/2022

Tribuna

La guerra in Ucraina ha rimesso la Storia al centro della cultura europea

30/03/2022

Luoghi

Giardino delle Rose

22/04/2022

Mostre

Giuseppe Bezzuoli. Un grande protagonista della pittura romantica

16/05/2022

Rassegna stampa

Imprese e passioni del giovane Cavour prima della politica

09/05/2022

Pubblicazioni

Adriano Olivetti, un italiano del Novecento

23/05/2022

RisorgimentoFirenze.it nella tua mail

E' possibile ricevere un messaggio e-mail ad ogni nuova pubblicazione sul nostro sito.
Basta inserire il proprio indirizzo di posta elettronica nella casella sottostante. Il servizio è gratuito e può essere interrotto in ogni momento.

Unisciti a 79 altri iscritti

Footer

Archivio articoli

Archivio rubriche

Area amministrativa

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Blogroll

  • Arte del Poggio
  • Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali
  • PensaLibero.it, quotidiano on line dei laici e dei liberali della Toscana.
  • Risorgimento Toscana
  • Sito ufficiale delle celebrazioni per il 150° anniversario

Direttore Sergio Casprini | Responsabile della Comunicazione Irene Foraboschi | Webmaster Claudio Tirinnanzi

 

Caricamento commenti...