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Risorgimento Firenze

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Rassegna stampa

Due mondi e un’isola

08/07/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Luigi Mascilli Migliorini            Sole 24 ore 1 Luglio

Ai primi giorni di novembre del 1860 la costa di Napoli sfuma poco per volta all’orizzonte del piroscafo che porta Garibaldi a Caprera, carico – novello Cincinnato diranno i suoi ammiratori – di qualche pacco di caffè e di zucchero, un sacco di legumi e una balla di merluzzo secco. Con uguale movimento, qualche settimana prima, l’Italia aveva assunto un tratto meno nitido nelle righe di quel Memorandum che, fresco ancora della vittoria del Volturno, egli aveva voluto indirizzare alle grandi potenze e dove, invocando gli Stati uniti d’Europa, si grida «non più eserciti, non più flotte», perché «gli immensi capitali prodigati in servizio dello sterminio» dovevano ora essere messi al servizio di quelle povere creature, condannate, in ogni parte dal mondo dall’egoismo delle classi privilegiate «all’abbrutimento, alla prostituzione dell’anima o della materia».
Un eroe nazionale prende, insomma, il largo – per usare un’espressione marinaresca che non gli sarebbe dispiaciuta – da ciò che egli ha appena costruito. Non ne prende, banalmente le distanze e tanto meno lo rinnega. Semplicemente va oltre, cerca approdi che meglio di quelli che ha potuto fino a quel momento frequentare gli restituiscano il senso profondo della sua avventura umana e storica. Raggiunge i compagni di una volta, Mazzini, Pisacane, per i quali – come per lui – costruire una nazione non ha mai voluto dire rinchiudersi nella difesa di interessi personali e sociali, ma diventare cittadini liberi che si incontrano armoniosamente con altri cittadini liberi di altre nazioni. Prova a respirare quella che altri, in altri, anche più difficili momenti della storia nazionale, chiameranno la libertà liberatrice.
L’espressione – “eroe dei due mondi” – Mille e mille volte ripetuta fin quasi a usurarsi nella banalità quotidiana, racchiude intatta in sé una complessa verità: il nostro maggiore eroe nazionale ha costruito la propria dimensione umana e storica in un lungo e fertile rapporto con uno spazio altrove. Il tempo trascorso tra Brasile, Argentina, Uruguay, a contatto con realtà antropologiche e sociali che la natura e la storia più lontana, ma anche le esperienze più recenti legate a un’impetuosa e contraddittoria richiesta di emancipazione, hanno reso un ricco caleidoscopio, deve essere considerato il tempo nel quale prende forma l’originale fisionomia di Garibaldi, della sua idea di patriottismo e, dunque, del modo in cui egli si farà protagonista, poi, della battaglia per l’indipendenza e la libertà italiana.
In America egli incontra davvero un mondo nuovo che attraverso rivoluzioni, guerre e talvolta anche guerre civili, sta costruendo il proprio definitivo distacco dalla sua storia coloniale, dal Vecchio Mondo. Sono gli stessi spazi che egli incontrerà nel secondo esilio, i pochi anni nei quali, come un eroe di Salgari, naviga lungo le coste dell’America meridionale, da Panama fino a Valparaiso e poi, nel pieno del Pacifico, tra le isole Filippine e le Sandwich fino a Canton , per poi far ritorno «a far lucignoli e a maneggiar sego» nella fabbrica di candele dello sfortunato Antonio Meucci a New York. Nel frattempo, la sua difesa di Roma gli ha assicurato ammiratori meno naif dei suoi compagni di avventure oceaniche: da Quinet, a Hugo, la democrazia europea riconosce nella sua battaglia per l’Italia una bandiera universale di libertà. E così sarà ancora dopo il 1860, quando Lincoln lo vorrebbe tra i suoi generali nella guerra di secessione, quando cinquecentomila inglesi lo acclamano a Londra, quando viene salutato a Ginevra, al congresso per la pace, quale campione di una nuova Europa dei popoli, quando, sotto la neve di Digione – come lo dipinge De Albertis – Garibaldi ha il capo chino, non umiliato da una sconfitta, ma pensoso di fronte alla vittoria di una nazione, la Germania di Bismarck e di Guglielmo II, ormai lontanissima dai suoi ideali.
Strade, piazze, le corrispondenti stazioni di una metropolitana o di una ferrovia che portano il nome di Giuseppe Garibaldi, talvolta scuole, associazioni, costruiscono, poi, un po’ ovunque nel mondo un reticolo della memoria quotidiana che è la più evidente testimonianza della condivisione e della diffusione della sua figura.
Del mito Garibaldi non ha solo il carattere universale, ma anche quello, non meno determinante, della molteplicità dei significati. Esso ci parla in maniera diversa a seconda della domanda che gli poniamo. Durevole nel tempo proprio in virtù della sua capacità di adeguarsi alle interrogazioni mutevoli che ogni generazione si pone affacciandosi sulla scena della storia, il mito di Garibaldi trova in questa apparente docilità la sua ragione di esistenza. È come se la ricchezza della sua vita, necessariamente contraddittoria come tutte le vite vissute intensamente e intensamente pensate, si rispecchiasse nelle diverse idealità politiche che vi si sono volute riconoscere, nelle contrastanti interpretazioni che gli storici vi hanno accumulato, nelle attese collettive di chi, volta a volta, vi ha creduto di scorgere il combattente della patria e quello dell’umanità, il condottiero militare e l’utopista della pace.
In questo senso il rischio a cui si espone un mito non è quello di prestarsi, per dir così, a vaticini diversi a misura delle trepidanti richieste di verità di chi a esso si rivolge. Questa è, anzi, la sua forza, ed è il suo senso più profondo. Il rischio sta nel logoramento che può subire un nome quando dalla dimensione illustre, e già tuttavia insidiosa, delle piazze o delle strade, si riduce alla ripetitività quasi meccanica di uno stanco manuale scolastico o della immagine stereotipa.

 

 

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CAVOUR E BISMARCK DUE UNIFICAZIONI A CONFRONTO

05/06/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Dalla rubrica del Corriere della Sera    Lettere a Sergio Romano

Potrebbe mettere in evidenza, in sintesi, le differenze esistenti tra l’unificazione tedesca e quella italiana? Chi, tra Cavour e Bismarck, ha avuto più problemi? Chi è stato il più grande?

Sergio Pippi

 

Caro Pippi,
il confronto tra Cavour e Bismarck fu un tema patriottico del dibattito storico italiano dopo l’Unità ed ebbe qualche eco anche nella storiografia europea. Ma è un esercizio impossibile. Posso confrontare le qualità di due atleti che fanno lo stesso esercizio e corrono sulla stessa lunghezza. È molto più difficile confrontare due uomini di Stato che dovettero affrontare problemi alquanto diversi. Cercherò di elencare le principali differenze. Ciascuna delle due unificazioni fu ostacolata dall’Austria, ma Bismarck sconfisse l’impero asburgico sul campo di battaglia nel 1866 e conquistò in tal modo il diritto di perseguire liberamente la sua politica unitaria; mentre Cavour dovette ricorrere all’aiuto militare della Francia di Napoleone III e subirne i capricci.

L’uomo di Stato piemontese fu costretto a battersi contro l’ostilità di tutti gli Stati preunitari della penisola, mentre Bismarck poté contare, soprattutto dopo la vittoriosa battaglia di Sadowa, sulla collaborazione, sia pure riluttante, dei maggiori Stati tedeschi. Cavour dovette misurarsi con la Chiesa di Roma, una istituzione che aveva allora una doppia natura: era uno Stato e governava una parte considerevole dell’Italia centrale, ma esercitava al tempo stesso una considerevole influenza sulle coscienze della società italiana. Anche Bismarck venne ai ferri corti con la Chiesa Romana negli anni Settanta dell’Ottocento, ma il «Kulturkampf» (la battaglia culturale tra Stato e Chiesa) scoppiò quando la Germania era già unificata e per di più in un Paese dove esisteva una forte comunità protestante. Alla Santa Sede di Pio IX non piacque né l’unificazione tedesca né quella italiana. Ma la Chiesa si rassegnò alla prima più rapidamente di quanto non sia accaduto per la seconda. Uno dei primi gesti di Leone XIII, dopo la morte del predecessore, fu l’invio di una lettera all’imperatore Guglielmo in cui diceva di sperare il ritorno a relazioni amichevoli. Il riconoscimento dello Stato italiano, invece, avvenne dopo un negoziato che si protrasse con lunghi intervalli e fasi alterne dal 1919 al 1929. Cavour era morto scomunicato nel 1861 e il sacerdote disobbediente che gli dette l’estrema unzione era stato duramente redarguito.

Come vede, caro Pippi, Cavour e Bismarck non giocarono la stessa partita e non corsero sulla stessa lunghezza. Bismarck poté contare sulla forza militare prussiana e sulla maggiore omogeneità culturale del mondo tedesco. Cavour dovette lavorare di fantasia, d’immaginazione, di diplomazia e di scaltrezza. Fu bravissimo, ma morì troppo presto e il risultato del suo lavoro fu più fragile di quello realizzato da Bismarck negli anni seguenti.

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LA DALMAZIA VENETA DA MAZZINI A PREZZOLINI

30/05/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Lettere a Sergio Romano                                   Corriere della sera del 26 maggio

Mi riferisco alla sua risposta su Venezia e l’italianità della Dalmazia e dell’Istria. Secondo Prezzolini, Venezia avrebbe occupato le città della costa e le isole «per evitare che quei borghi diventassero fastidiosi concorrenti», e la sua funzione di sostegno all’italianità di quelle terre sarebbe stata «un’invenzione degli intellettuali del Risorgimento». È opinione più che affermata che quelle stesse città, che avevano invocato già nel Mille la protezione di Venezia contro gli slavi, si diedero poi a Venezia per la stessa ragione, e che Venezia assicurò la preservazione della loro civiltà, da sempre italiana. Chissà dove, poi, Prezzolini ha appreso che alla caduta della Repubblica la Dalmazia era «un Paese povero, malarico, barbaro, senza strade, senza scuole, senza giustizia». Nella sua documentatissima Storia della Dalmazia Giuseppe Praga scrive che nel 1795 gli abitanti non erano 25.000 come scrive Prezzolini, ma 288.320, che nel ’700 erano state attuate grandi bonifiche, costruite due importanti strade, la produzione agricola era molto cresciuta e così quella industriale, in tutti i centri maggiori c’erano scuole primarie, i rettori veneziani amministravano la giustizia col maggior rigore e «la terra era equamente distribuita fra i lavoratori». L’Istria invece faceva tutt’uno con Venezia fin dall’epoca romana e gli istriani fino ai nostri giorni erano rimasti legatissimi a Venezia. Migliaia di italiani dell’Istria hanno dovuto andarsene, e il trattato di Osimo rimane una ferita dolorosa e insanabile.

Alvise Zorzi

 

Caro Zorzi,

 La sua lettera è la prima fra quelle ricevute negli scorsi giorni. Altrettanto appassionate e documentate sono quelle di Franco Luxardo, Renzo de’ Vidovich e Lucio Toth, vice presidente della Federazione delle associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati (che può essere letta sul sito dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Giuseppe Prezzolini fu certamente un «debunker», come gli inglesi e gli americani definiscono gli intellettuali quando si compiacciono di ridimensionare e smitizzare certe versioni storiche non sufficientemente verificate o troppo frequentemente ripetute. Il suo libro sulla Dalmazia fu influenzato dal clima sovreccitato del nazionalismo e dell’interventismo italiano tra l’inizio del Novecento e la Grande guerra. Non gli piaceva l’uso che una certa politica italiana stava facendo della questione dalmata e gettò sull’intera vicenda, a modo suo, un secchio di acqua fredda. La sua inchiesta, quindi, è certamente discutibile. Ma ebbe il merito, a mio avviso, di suggerire al lettore che la presenza veneziana nelle città dalmate era anche il risultato di calcoli politici, interessi economici ed equilibri regionali. Continuo a pensare che Venezia fu soltanto in parte uno Stato italiano e che la sua storia più importante è quella di un impero multietnico, proiettato su una regione che va dall’Adriatico al Mar Nero. Il concetto di «Venezia patriotticamente italiana » nasce dopo la morte della Repubblica, si rafforza durante l’occupazione austriaca e la sfortunata impresa di Daniele Manin ed è stato largamente usato per giustificare le rivendicazioni dalmate di quanti hanno costruito, dopo la Grande guerra, il mito della vittoria mutilata. Per Giuseppe Mazzini l’Italia, dopo l’Unità, non avrebbe dovuto aspirare alla «riconquista » dei possedimenti veneziani. Nei suoi scritti sul mondo slavo (ora raccolti in Lettere slave e altri scritti, a cura di Giovanni Brancaccio, Biblion edizioni), la missione dell’Italia era quella di accompagnare e favorire, come sorella maggiore, il Risorgimento slavo e in particolare quello degli slavi meridionali. In un saggio del 1866 (Missione italiana – Vita Internazionale) definì l’Istria «italiana» e la Dalmazia «italo-slava»; e nello stesso saggio immaginò una guerra comune contro l’Impero asburgico in cui gli Slavi meridionali avrebbero potuto tenere per sé Carlopago, Zara, Ragusa, Cattaro, Dulcigno. In uno scritto precedente (1857) aveva ricordato con ammirazione che nel 1845 un’Assemblea croata, a Zagabria, aveva chiesto «arditamente» all’Imperatore un governo locale indipendente per la Croazia e la Slavonia, e che «a siffatta nuova amministrazione fossero riunite la Dalmazia, Zara e Ragusa». Mi sono spesso chiesto come Mazzini avrebbe giudicato gli accordi di Londra del 1915 con cui l’Italia chiese e ottenne tra l’altro, per entrare in guerra, la Dalmazia. Ma è una domanda impossibile, quindi irrilevante.

 

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L’imperatore che detestava Garibaldi

23/05/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Dino Messina  –  la Lettura    inserto domenicale del Corriere della Sera

Un avventuriero», tuonò don Pedro, secondo e ultimo imperatore del Brasile. Come aveva potuto Vittorio Emanuele II lasciarsi prendere la mano dallo stesso corsaro che tra il 1837 e il 1838 aveva combattuto contro l’impero a fianco della repubblica secessionista del Rio Grande do Sul? Le relazioni tra il grande Paese sudamericano e il neonato regno d’Italia si facevano più complicate per il fatto che la consorte di don Pedro, Teresa Cristina, era zia del re delle due Sicilie Francesco II di Borbone, appena spodestato dall’«avventuriero» Giuseppe Garibaldi. In margine alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia (17 marzo 1861), continuano a emergere documenti che ci fanno leggere in una luce nuova la nostra storia nazionale. La storica Federica Onelli, allieva del professor Paolo Simoncelli, sulla base di documenti conservati presso l’archivio storico del ministero degli Affari esteri, racconta sul numero di maggio del mensile Storia in rete, diretto da Fabio Andriola, le difficoltà incontrate dal neonato regno italiano. Base della ricerca sono le lettere inviate dal conte Gabriele Galateri di Genola e di Suniglia, incaricato di affari a Rio, al capo del governo italiano. Per oltre un mese, dal 7 giugno 1861, Galateri chiese consigli a Cavour, ignorando che il primo ministro si era appena spento dopo una breve malattia. Galateri, che trattava con il ministero degli Esteri brasiliano, doveva far dimenticare non solo le imprese di Garibaldi, ma mettere la sordina ai tanti amici dell’eroe dei due mondi che organizzavano raccolte di fondi anche in vista della presa di Roma. L’incaricato organizzò una vera e propria campagna in favore del neonato regno italiano, puntando non tanto sul partito di corte, ma sugli elementi moderati dell’opposizione. Dopo quell’intensa attività diplomatica, l’imperatore del Brasile acconsentì a ricevere una lettera di Vittorio Emanuele II (datata 19 settembre 1861). E don Pedro rispose l’11 novembre dello stesso anno, auspicando relazioni di amicizia tra i due Paesi. La realpolitik aveva prevalso sia sui sentimenti cattolici sia sulla parentela con i Borbone.

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Per un passato nazionale occorre anche la monarchia

17/04/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Rubrica delle lettere al Corriere della Sera

Perché la Repubblica in Italia ha mantenuto i corazzieri, il Quirinale, ed espone in questo palazzo —che già fu sede dei papi e dei re— una mostra meravigliosa sulla regina Margherita? Non dimentichiamoci le notevoli cifre profuse per la rivalorizzazione delle regge sabaude di Venaria, di Racconigi e di Stupinigi. Qualcosa avrà ben lasciato la nostra tanto vituperata monarchia!  Sergio Boschiero

Caro Boschiero,
Quando divenne monarchico, Francesco Crispi disse alla Camera, rispondendo indirettamente a Mazzini, che «la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe». Oggi una improbabile restaurazione monarchica avrebbe l’effetto opposto: spaccherebbe il Paese. Ma questo non esclude che lei abbia almeno in parte ragione. La monarchia ci appartiene, fa parte della nostra storia nazionale, è indissolubilmente legata alla vicenda risorgimentale. Non è giusto identificare la dinastia con le sue pagine peggiori e permettere che alcuni avvenimenti proiettino una luce negativa anche sulle fasi storiche nelle quali i Savoia hanno rappresentato, persino per chi avrebbe preferito uno Stato repubblicano, l’unità nazionale.
Vittorio Emanuele III non fu soltanto il re che firmò le leggi razziali nel 1938. Fu anche il sovrano che assecondò la politica riformatrice di Giovanni Giolitti nel 1900, rimase al fronte per tutta la durata della Grande guerra, ispirò la rinascita morale del Paese dopo Caporetto. Umberto I non fu soltanto il re degli stati d’assedio in Sicilia e a Milano. Fu anche il sovrano che, insieme a Margherita, creò lo stile, i riti e le rappresentazioni di una monarchia che non poteva più essere soltanto piemontese. E Umberto II fu il re che lasciando l’Italia per l’esilio, ebbe il merito di evitarle il rischio di una guerra civile. Possiamo continuare a discutere sul ruolo dei Savoia durante il ventennio fascista, sulla firma delle leggi razziali e sulla fuga di Pescara, ma non possiamo condannare a una sorta di proscrizione perenne tutti coloro che hanno creduto nella monarchia e hanno combattuto nel suo nome.
Un Paese è nazione soltanto quando accetta il proprio passato e assume per tutto ciò che è accaduto nella sua storia una responsabilità collettiva. Finché questo non accadrà tutti gli italiani, anche quelli di più sicure convinzioni repubblicane, saranno privi di una storia veramente nazionale e saranno nella condizione di orfani o figli di divorziati. Credo che i tempi siano ormai maturi per un recupero dell’intero passato italiano e mi sembra che qualche passo in questa direzione sia stato fatto l’anno scorso grazie ad alcuni gesti del presidente della Repubblica nelle celebrazioni per il 150˚ anniversario dell’Unità.

Sergio Romano

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Unità d’Italia, un domani a rischio

14/04/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Il giudizio di Metternich, i successi dei 150 anni, gli scandali

UNITA’ D’ITALIA, UN DOMANI A RISCHIO

Emilio Gentile                                Corriere della Sera  10 aprile

Centosessantacinque anni fa, il 12 aprile 1847, Metternich scrisse all’ambasciatore austriaco a Parigi: «La parola Italia è soltanto una denominazione geografica, un concetto utile alla lingua, ma è parola che non ha il valore politico che tentano di attribuirle gli ideologi rivoluzionari».Quindici anni dopo, l’espressione geografica «Italia» era diventata la denominazione politica di un nuovo Stato, nato dalla simbiosi fra italianità, nazione e unità. La convinzione dell’esistenza di una millenaria italianità, intesa come individualità storica, formata dalle popolazioni native della penisola nel succedersi delle generazioni, fu il presupposto comune a tutti i patrioti del Risorgimento per affermare il diritto degli italiani ad avere un proprio Stato unitario, indipendente e sovrano. Dalla simbiosi fra italianità, nazione e unità nacque nel 1861 lo Stato, nel quale si è svolta la storia degli italiani negli ultimi centocinquanta anni, scandita dalla celebrazione di tre cinquantenari.

Italia 1911, Italia 1961, Italia 2011: non c’è stata un’unica e identica Italia a festeggiare il compleanno dello Stato nazionale, ma tre Italie diverse, fra di loro persino antitetiche

Nel 1911, il cinquantennio dell’Italia unita fu celebrato dalla monarchia laica e liberale, ma la sua interpretazione della simbiosi fra italianità, nazione e unità, fu aspramente contestata dai cattolici, dai repubblicani, dai socialisti, dai nazionalisti e da molti altri che avevano diversa concezione della patria e dello Stato. Tuttavia, nessuno dei contestatori si proponeva di ricondurre l’Italia a una espressione geografica. Nel 1961, nell’Italia repubblicana, fu la Democrazia cristiana, che deteneva le massime cariche dello Stato e del governo, a officiare i festeggiamenti del centenario dello Stato italiano con la benedizione del Sommo Pontefice, interpretando la simbiosi fra italianità, nazione e unità come un parto della Divina Provvidenza: contro le celebrazioni democristiane, protestarono tutti i partiti laici, dai comunisti ai neofascisti, ma nessuno di essi auspicò la fine dello Stato nazionale. Tuttavia fu notato allora, da qualche osservatore spassionato, che negli italiani e nelle italiane del «miracolo economico» non albergava più il patriottismo, necessaria linfa vitale per la simbiosi fra italianità, nazione e unità: «Il patriottismo – scriveva già nel 1959 Domenico Bartoli sul «Corriere della Sera» – è una disposizione a sacrificare qualcosa, almeno una parte dei propri comodi. L’italiano di oggi, in tutti i ceti, ma specialmente dalla media borghesia in su, pensa soltanto a star meglio, si abbandona mollemente agli interessi immediati, al gretto egoismo». In effetti, nell’Italia del 1961, si poteva constatare la formazione di una nuova italianità collettiva, attraverso le massicce emigrazioni interne, la televisione e la diffusione dei consumi di massa, che avevano antropologicamente eguagliato gli italiani come mai era avvenuto nel secolo precedente: ma la «nuova italianità» era dissociata dallo Stato nazionale, verso il quale era indifferente, diffidente o ribelle.

La dissociazione della nuova italianità dalla nazione e dallo Stato si aggravò nel cinquantennio successivo. Nel 2011, alla vigilia del terzo cinquantenario, la presenza al governo di un movimento secessionista, che nega l’esistenza della nazione italiana e si propone il disfacimento dell’unità politica, ha reso incerta perfino la celebrazione stessa dell’anniversario. Invece, con stupore di molti, la celebrazione c’è stata, con una partecipazione popolare probabilmente più ampia del 1911 e del 1961, accompagnata da inni al ritrovato orgoglio dell’italianità. Tuttavia, trascorso un anno dalla festa dello Stato italiano, non sembra che il rinnovato orgoglio italiano abbia rinvigorito la simbiosi fra italianità, nazione e unità. Infatti, lo Stato italiano appare ogni giorno più degradato, inefficiente e corrotto, mentre cresce la sfiducia verso di esso da parte degli italiani e delle italiane. Inoltre, l’orgoglio d’italianità scaturito dal terzo cinquantenario dell’Italia unita può contenere in sé un germe parassitario, perché riguarda in massima parte beni e glorie creati dalla generazioni passate, a cominciare dalla creazione dello Stato nazionale, delle quali le generazioni presenti non hanno alcun merito.

Negli anni in cui l’Italia era una espressione geografica, Giacomo Leopardi ammoniva: «Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto all’ignavia e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione».

La simbiosi fra italianità, nazione e unità non è inevitabile né inscindibile. Non lo era quando nacque lo Stato italiano, non lo è oggi che molti ne paventano o ne auspicano la fine. Ci può essere italianità senza Stato nazionale, come c’è stata per mille anni, fin da quando Dante e Petrarca invocavano il nome «Italia», senza però concepire l’esistenza di una nazione italiana in un proprio Stato indipendente e sovrano. Centosessantacinque anni fa Metternich non immaginava che quindici anni dopo l’espressione geografica sarebbe diventata un’espressione politica.

Nulla esclude che in un futuro, prossimo o remoto, esaurita la linfa vitale della simbiosi fra italianità, nazione e unità, l’espressione politica torni ad essere un’espressione geografica. Così come nulla esclude che gli italiani e le italiane, vergognandosi delle presenti condizioni del loro Stato, siano capaci di rinnovare la simbiosi fra italianità, nazione e unità, per costruire un nuovo Stato di cittadini liberi ed eguali, di cui essere orgogliosi nelle celebrazioni del quarto cinquantenario nel 2061.

Emilio Gentile

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Dunant e gli altri, svizzeri che hanno fatto l’Italia

04/04/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Le vite avventurose del fondatore della Croce Rossa, di Viesseux e Debrunner

Arturo Colombo   Corriere della Sera 31 marzo

I centocinquant`anni dell`unità d`Italia  hanno visto fiorire una serie notevole di pubblicazioni.

Uno degli esempi più recenti è Il Risorgimento italiano e la Svizzera (il titolo di un saggio edito dalla Nicomp di Firenze), che è nato da un convegno di studi ricco di interesse, e soprattutto testimonia – come sottolinea l`ambasciatore Bernardino Reguzzoni – «il continuo intreccio della storia dei nostri due Paesi».

In queste pagine si ripropone – in modo certo sintetico ma estremamente originale – un tema poco noto come il notevole contributo offerto dalla Confederazione Elvetica al processo di unificazione del nostro Paese (del resto, la Svizzera è rimasta sempre straordinaria «terra ospitale» per quanti, fra noi italiani, sono stati costretti in differenti contesti storici a fare i «fuorusciti»!).

Ne il Risorgimento italiano e la Svizzera – oltre all`efficace rievocazione che Carlo Moos fa di un personaggio come Carlo Cattaneo, che all`indomani del1848, trova rifugio in Cantone Ticino, per l`esattezza a Castagnola, presso Lugano, dove passerà il resto della sua vita, fino al 1869, non solo insegnando al liceo ma anche approfondendo i temi a lui molto congegnali del federalismo -, spiccano soprattutto tre personalità svizzere che hanno saputo dare apporti, diversi eppure sempre significativi, alla causa dell`indipendenza del nostro Paese.

Basta considerare il ruolo svolto da Giovan Pietro Vieusseux, di famiglia ginevrina (un autore destinato a diventare molto caro anche a Giovanni Spadolini), che era arrivato a Firenze e fin dal 1819 aveva aperto un «gabinetto scientifico-letterario», per poi fondare la rivista «Antologia»:

due iniziative – spiega Cosimo Ceccuti – che avevano raccolto i migliori ingegni d`Europa, ed erano diventati subito un centro di diffusione degli ideali del Risorgimento (tanto è vero che Giuseppe Mazzini vi esordì nel 1826, quando era poco più che ventenne).

Non meno rilevante è stato il ruolo svolto da un altro nativo di Ginevra, Henri Dunant – su cui si sofferma Paolo Vanni -, che aveva preso parte alla battaglia di Solferino nel giugno del 1859, ma soprattutto che si era fatto geniale promotore di una fondamentale istituzione come la Croce Rossa (e un simile personaggio emerge anche dal volume Henri Dunant, la pace e il filo d`Arianna per vincere il Minotauro, curato da Rachele Farina e pubblicato re- centemente dall`Unione Femminile Italiana di Milano).

Ma forse la vera novità quale ci propone Giovanni Cipriani è Jean Debrunner, che era andato a Zurigo e nel 1848-49 era accorso in difesa della Repubblica Veneta, a capo di quella che si chiamava «compagnia dei cacciatori volontari svizzeri».

Oltre al notevole apporto da lui fornito sul piano specificamente militare, il quadro che emerge dalle sue numerose e puntali relazioni costituisce ancor oggi un documento decisivo, per verificare quali fossero state le terribili condizioni delle caserme, delle prigioni e degli ospedali durante quei mesi, così carichi di speranze e di dolori.

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Napoli, un regno che finì suicida

09/03/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

In un libro di Gianni Oliva la “storia negata” dei Borbone: al tempo dei Lumi il loro Stato era più avanti di Torino

 

Mario Baudino                       La Stampa 6/3/12

 

“La storia dal punto di vista dei vincitori è sempre arrogante, quella dal punto di vista dei vinti è rancorosa»: così Gianni Oliva, storico dei Savoia e degli Alpini, ma anche fra i primi a indagare senza complessi la tragedia delle foibe quando non era considerato affatto opportuno parlarne, lancia una provocazione che ha per titolo Un regno che è stato grande , in libreria da oggi per Mondadori. È un libro dedicato al Regno della due Sicilie, alla «storia negata dei Borboni», che ne ricostruisce la vicenda dal 1734, quando le «ardite combinazioni della diplomazia europea» fanno sì che Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V e della seconda moglie Elisabetta Farnese si ritrovi a capo di un regno nuovo di zecca, fino ovviamente al 14 febbraio 1861, quando Francesco II e la regina Maria Sofia abbandonano Gaeta – assai poco rimpianti – su un piroscafo francese che li porterà nello Stato Pontificio.

Non è un libro «revisionista», nel solco di quella pubblicistica cosiddetta neoborbonica che l’anno scorso ha avuto un certo successo dipingendo un Meridione avanzato, ricco, prospero, una sorta di Paese del bengodi saccheggiato dal Nord e ridotto in una situazione di sfruttamento, povertà, disordine sociale. Oliva, semplicemente, riparte dai dati di fatto, e da opere non certo inclini alla propaganda come la Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce. Ne esce un quadro tra luci e ombre, dove però alcuni aspetti essenziali vengono rimessi a fuoco al di là di una certa «vulgata» nordista: per esempio, la grande stagione che nel Settecento fece di Napoli una metropoli internazionale, e del regno addirittura una speranza per i primi intellettuali che sognavano un’Italia unita.

Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia fino al 1759 (poi di Spagna fino alla morte), e il figlio Ferdinando I sembrano anzi realizzare un sogno. Fanno del Mezzogiorno uno Stato autonomo, e non solo una sorta di colonia spagnola; avviano riforme ambiziose (riescono persino, almeno in parte, a far pagare le tasse alla Chiesa), contrastano con qualche efficacia i privilegi e gli arbitri baronali, rimodernano il gioiello di Palazzo Reale a Napoli, creano la reggia di Caserta e il teatro San Carlo, scavano a Pompei e Ercolano, radunano intorno a sé una élite intellettuale di primissimo ordine, potenziano l’Università. Tanto che già nel 1736 il piemontese Alberto Radicati di Passerano si rivolge a Carlo invitandolo «a compiere quel che a Torino non si era stati capaci di fare».

La Napoli dell’Illuminismo, come sottolinea Oliva, è indubbiamente più avanti di Torino. È una delle città più importanti d’Europa, ricca e cosmopolita. Politicamente conta poco – anche se nel 1744, durante la guerra di successione austriaca, il neonato esercito borbonico riesce a bloccare le truppe imperiali a Velletri: ed è forse l’unica vittoria sul campo in tutta la storia del Regno -; culturalmente vive una grande stagione, se pure, sul piano amministrativo, le riforme non arrivano a compimento. In certi casi sono troppo ambiziose: per esempio fallisce miseramente, per la rivolta delle gerarchie ecclesiastiche e l’ostilità della popolazione, un coraggioso tentativo di accogliere gli ebrei, stimolandone l’immigrazione per rendere più dinamica l’economia.

Alla fine la modernizzazione resta monca, e non sono sufficienti le prime ferrovie o le strade, o il miglioramento dei porti. Il Regno delle due Sicilie paga così lo scotto quando arrivano i venti della Rivoluzione; la feroce repressione della Repubblica partenopea, nel 1790, decapita – con inusuale ferocia – un’intera classe dirigente, e non basterà il periodo di parziale rinascita dopo il Congresso di Vienna per rimediare a quella che Oliva definisce una «frattura drammatica» che il Nord non ha conosciuto. I primi rintocchi delle campane a morto suoneranno nel 1848, quando Ferdinando II, ancora una volta, non saprà confrontarsi con le rivolte liberali se non usando la dissimulazione e la forca; e proprio l’isolazionismo ora davvero «borbonico» finirà per spingere il pendolo internazionale in favore di Vittorio Emanuele e Garibaldi.

Un regno che è stato grande finisce suicida? «Diciamo che perde la sfida del ‘48», risponde Oliva, «perché si trova ad aver svuotato l’alleanza sociale che aveva reso possibile il riformismo. È proprio a questo punto che scatta il «sorpasso» definitivo e irrimediabile. La storia si farà a Torino. Ciò non toglie che quella di Napoli – e di Palermo – abbia avuto la sua grandezza. «Sicuramente il Nord era più avanti, ma non è che il Sud fosse totalmente privo di una classe media, e neanche di investimenti», conclude Oliva. È questo il senso del suo libro? «La conclusione è che al Sud dobbiamo riconoscere qualcosa. Perché quando è nata l’Italia come Stato unitario, anziché valorizzare il meglio del Mezzogiorno, ci siamo rivolti al peggio». Ma questa è già un altro libro. Forse il prossimo.

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Onore ad Aguyar garibaldino ignoto

25/02/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Perché «Andrea il Moro» che morì per l’ Italia merita di entrare nei libri di storia

Gian Antonio Stella     Corriere della Sera 22/02/12

«Non ci sono italiani negri», urlavano i tifosi razzisti contro Mario Balotelli. In realtà sono millenni che, a fasi alterne, ci mischiamo. Basti ricordare, tra i tanti, il caso di San Benedetto il Moro, che era siciliano di San Fratello (il paese originario di Bettino Craxi e di Al Pacino), veniva da una famiglia di schiavi portati in Sicilia secoli prima dagli arabi, si fece frate verso la metà del 1500, morì nel 1589 e fu acclamato patrono dalla città di Palermo nel 1703, assai prima che Pio VII lo canonizzasse ufficialmente nel 1807.

 Ci fu anche chi morì per fare l’ Italia.

 Si chiamava Andrea Aguyar, era nato da una famiglia di schiavi dalle parti di Montevideo, era stato al fianco di Garibaldi in Uruguay e al suo rientro in Italia aveva seguito il condottiero nizzardo. Un disegno di George Housman Thomas per The Illustrated London News, lo raffigura dietro l’ eroe dei due mondi mentre questi stava parlando con Nino Bixio. Sullo stesso quotidiano londinese, viene descritto come «un ragazzo minuto, vestito con un cappotto aperto rosso e uno sgargiante fazzoletto di seta legato attorno al collo che copriva le spalle». Di lui, dice Wikipedia citando fonti varie, scrissero «anche altri volontari stranieri giunti per combattere con Garibaldi, come lo svizzero von Hofstetter o il pittore olandese Jan Koelman», secondo il quale era «un Ercole di color ebano». Combattente coraggioso e straordinario domatore di cavalli (era lui, col suo lazo, a recuperare quelli sbandati dopo le battaglie), la leggenda dice che in almeno un paio di occasioni salvò la vita al condottiero guadagnandone non solo la stima ma l’ affetto. Morì il 30 giugno 1849, difendendo la Repubblica romana, colpito dalle schegge di una granata francese vicino alla basilica di Santa Maria in Trastevere. Dicono le agiografie che, prima di esalare l’ ultimo respiro a Santa Maria della Scala, adibita a ospedale, mormorò: «Lunga vita alle Repubbliche di America e Roma!». Eppure il suo busto non c’ è, tra gli 84 eroi del Gianicolo tra i quali ci sono quattro dei tanti stranieri che combatterono per l’ Unità: l’ inglese John Peard, il finlandese Herman Lijkanen, l’ ungherese Istvàn Türr e il bulgaro Petko Voivoda. Né, forse, sarebbe sopravvissuto al fascismo e alla dottrina della razza. Unico riconoscimento, fino a qualche giorno fa, una scalinata tra Trastevere e Monteverde intestata ad «Andrea il Moro». Un nome anonimo, che dice e non dice. E che infine sarà cambiato, grazie a una decisione del consiglio comunale di Roma nata da una mozione del democratico Paolo Masini. E così finalmente, un secolo e mezzo dopo, Andrea Aguyar tornerà in possesso del suo nome. E chissà che anche qualche libro di storia cominci a parlare di lui… Dio sa quanto i nostri scolari ne abbiano bisogno

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Il Risorgimento che l’Italia ha dimenticato

03/02/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

PIERLUIGI PANZA – Corriere della Sera | 31 Gennaio 2012

I sentieri interrotti del Risorgimento, dal federalismo al cattolicesimo liberale, dalla questione meridionale alla nascita dei miti nazionali sino alla costruzione di una memoria condivisa, sono gli argomenti di sei incontri promossi a Milano da Intesa Sanpaolo. Lo scopo è quello di riflettere su questioni aperte nel nostro Paese e su quale destino conferire al senso di nazione in un momento in cui l’Europa e la globalizzazione sembrano orizzonti che comprimono le singole identità. Gli incontri, da domani al 7 marzo (a Palazzo Marino e nella sede Intesa di piazza Belgioioso), hanno il titolo «Vincitori e Vinti», e rappresentano uno degli eventi più impegnativi a chiusura delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità.

«Le banche hanno il dovere di sostenere la cultura e lo studio dei valori nazionali — ha affermato presentando l’iniziativa il presidente del comitato di Sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli — e gli istituti di credito italiani lo fanno molto di più di quanto accade all’estero. Questa non è un’invasione di campo, ma una caratteristica che ha sempre interessato le banche. Il patrimonio comune è la nostra arma contro la crisi di identità».

Così, dopo l’apertura delle Gallerie d’Italia di piazza Scala con le sale dedicate alla pittura dell’800 (quelle del ‘900 saranno inaugurate nel prossimo autunno), e dopo la mostra «L’Italia e gli Italiani» nell’obiettivo dei fotografi Magnum a Torino (sino al 26 febbraio), si aggiunge ora questo ciclo di conferenze organizzato da Gianfranco Brunelli. «Giudico che sia stata una fortuna inaugurare la pinacoteca Gallerie d’Italia in coincidenza della crisi economica e in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia — continua Bazoli —. A ciò aggiungiamo ora un tassello, raccontando quei filoni del Risorgimento che, come fiumi carsici, sono rimasti poco espressi. Li rivisitiamo perché ci vuole un nuovo idealismo: penso al cattolicesimo liberale, a Manzoni, al federalismo di Cattaneo. L’unità europea non deve annullare le identità nazionali. Così come quando abbiamo costruito l’Italia l’abbiamo fatto fondendo diverse identità, allo stesso modo deve avvenire ora per costruire l’Europa politica. Ma non, come è stato fatto 150 anni fa, adottando un modello rigido, che ha nuociuto alle singole autonomie, bensì facendole proprie».
Aggiunge Brunelli: «Questa passeggiata nei nostri 150 anni ricostruisce tendenze rimaste inespresse. Dobbiamo interrogarci su quale Italia portare in Europa. Oggi l’Ue appare come un mosaico di egoismi nazionali. Pertanto i temi che proponiamo in questi incontri non sono indifferenti a quanto sta accadendo. L’unione non si fa senza i popoli: quale idea dell’Italia vogliamo portare nel mondo? L’identità nazionale non impedisce una politica sovranazionale; ma sarebbe pensabile un’Europa senza una matrice italiana?».

Il primo incontro  è tenuto il primo febbraio alle 18 in Sala Alessi del Comune di Milano ed era dedicato alla generosità dei giovani nel Risorgimento. S’intitola «All’onore della nostra età e della patria comune. L’ideale politico-culturale di una generazione romantica e ribelle». I successivi incontri si terranno nella Sala Convegni di Banca Intesa in piazza Belgioioso 1 e tratteranno il tema della condivisione dei valori attraverso la lingua (8 febbraio); la questione cattolica e il contributo, anche linguistico, dato dal cattolicesimo al Risorgimento (16 febbraio); il tema del Mezzogiorno come questione prioritaria nella costruzione dell’Italia unita e poi problema per eccellenza (23 febbraio); il rapporto tra centralismo e federalismo, cercando di riscoprire il contributo di teorici come Carlo Cattaneo (primo marzo); l’ultimo incontro (il 7 marzo, ancora in sala Alessi a Palazzo Marino) sarà dedicato alla memoria condivisa e al mito della nazione

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