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Risorgimento Firenze

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Livio Ghelli

1890:La maestrina degli operai di De Amicis

05/02/2016 da Livio Ghelli

125 anni dopo: una recensione di LIVIO GHELLI del Comitato Fiorentino per il risorgimento

La maestrina copertinaSiamo a Torino, attorno al 1890. Il piccolo sobborgo di Sant’Antonio, fuori di porta, è abitato in gran parte da contadini e da operai: due grandi fabbriche di ferramenti e di acido solforico, che lo riempiono di rumore e lo coprono di fumo, una strada dritta, di case e di orticelli, un viale che porta alla chiesa, in mezzo alla campagna, dove si trovano l’osteria e la scuola, con cinque aule al pianterreno e, di sopra, i quartierini per le quattro maestre e il maestro. La maestra Varetti, giovane e spaventata, ha un viso da bambina, una dolcezza e una signorilità naturali e pochissimi punti di riferimento: il ritratto del padre ufficiale, morto nella battaglia di Custoza quando era piccolissima, il ricordo austero del collegio per signorine dove era stata fino a diciott’anni e il diploma di maestra.

Proprio a lei, del tutto inadeguata, viene assegnato il corso serale, una quarantina di maschi dai dodici ai cinquant’anni, operai di fabbrica, contadini, pastori, lavoratori occasionali che vivono in una dimensione incerta, ai confini del sottoproletariato, dove la rabbia sociale mandata giù a forza si risolve nel vino, nelle risse con bastoni e coltelli, nel disprezzo per la donna, nel rispetto per chi riesce brutalmente a imporsi. Un giorno dopo l’altro, aggrappandosi ai pregiudizi della dignità e dell’onore cari a suo padre, accumulando molti errori, poco aiutata dai colleghi, la maestrina va avanti, per senso del dovere. E’ terrorizzata dalla corte occulta e spietata del teppista Muroni detto Saltafinestre, viene tormentata e presa di mira dai delinquentelli più giovani. Gli alunni anziani non riescono a darle aiuto, hanno paura. Per tutta la classe la maestra graziosa e indifesa resta un irraggiungibile oggetto di desiderio.

Ma per Saltafinestre quella che all’inizio era stata un’infatuazione testarda e vendicativa si trasforma, col tempo, in un amore grande e senza speranza, che lo rende irriconoscibile a se stesso e lo squalifica nel suo ambiente: prende le difese della maestrina contro i suoi tormentatori e si batte, in una rissa notturna, nella quale viene accoltellato. Portato a casa morente chiede della maestra, che lo raggiunge e, presa dalla pietà e da una infinita tenerezza, pensando che il giovane muore per lei, finalmente lo bacia. Muroni detto Saltafinestre muore così contento, finalmente in pace.

E la maestrina? La sua reputazione di signorina perbene verrà compromessa? Avrà un richiamo? Come se la caverà domani col resto della classe? E dopodomani? Ce la farà a costruirsi l’autorevolezza necessaria per farsi rispettare? Manterrà il suo lavoro? Troverà un fidanzato? Tutte queste cose che il lettore si chiede, De Amicis non le dice. Comodo lasciare le cose a metà! Chissà, forse la maestrina deciderà di farsi suora per aiutare i poveri, vincendo nella santa missione il “terrore fantastico della plebe” che l’aveva ossessionata fin da bambina, oppure, in alternativa, diventerà una fervente militante socialista, e dedicherà la vita al riscatto del proletariato. E se invece diventasse anarchica (‘Addio Lugano bella’ e tutto il resto, con buona pace della memoria del padre sabaudo)?

Un personaggio come la maestra Varetti non può essere sprecato, ha tutta una vita romanzesca davanti, ha l’età, i difetti e le qualità giuste per partecipare pienamente alla vita del suo tempo. Io da scrittore la vedrei volentieri militante per l’emancipazione femminile: a scuola per l’educazione delle bambine e delle donne, in fabbrica per la pari dignità, contro la violenza dei capisquadra e del padrone sulle operaie. Probabilmente la farei incontrare con Anna Kuliscioff.

Ma la capacità narrativa di De Amicis è di bozzettista più che di romanziere. Diceva di sé: Non sono che un giornalista, uno che annota la vita di ogni giorno, e sceglie quel che più di esemplare vi accade. Certe volte mi piace divertire i miei lettori ma per consolarli. Non ho altra ambizione.

Ma se il bozzettista pecca talvolta di stereotipi, il giornalista sa fornirci descrizioni vive e dettagliate di una Torino alla fine dell’800 già operaia, conflittuale e complessa, e di una scuola che fa fronte come sa e può ad un compito immane: i maestri non hanno più l’aura semi-eroica o patetica del libro Cuore, qui sono dei piccolo-borghesi con davanti un mondo di disgraziati che non capiscono e con cui non hanno il coraggio di contaminarsi, appaiono intimiditi, stravaganti o nevroticamente fissati sui decreti e gli aumenti quinquennali di stipendio. Eppure non sono del tutto pessimi, il lavoro va avanti, tanti studenti impareranno a leggere. Anche perché, allora, lo Stato nell’istruzione ci credeva, e così anche gli scrittori e la parte migliore del popolo…

 

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Un museo delle parole inutili

06/04/2014 da Livio Ghelli

imagesL’italiano è diventata una brutta lingua, piena di parole esagerate e di strilli, di frasi inutilmente lunghe, di termini stranieri che non servono. I giovani acchiappano subito le parole alla moda, senza chiedersi se servono, se rendono meglio una certa idea, e io un po’ li capisco, poveracci: il linguaggio di TV, video, internet è fatto soprattutto di immagini e suoni, ci abitua a rispondere senza avere tempo per  riflettere, e scuola e famiglie si sono ormai arrese alla superficialità generale… Però capisco meno gli adulti che un po’ più di sale in zucca dovrebbero averlo, e invece, presi anche loro dalla smania di strillare, adoprano parole ed espressioni alla moda senza un minimo di discernimento. Magari lo fanno per fare i giovani, oppure sono solo pigri e ignoranti e si credono di far bella figura senza spendere, gonfiando il loro linguaggio come tacchini: “Signor Presidente, posso fare una domanda interrogativa?” –sproloquiava qualche tempo fa Ermanno Russo, aspirante assessore della Campania. Oppure usano parole del cui significato non hanno la più pallida idea: “Grazie Presidente, breve e circonciso” esordisce alla Camera l’onorevole Tripiedi. “Conciso –non può fare a meno di correggerlo il presidente- quella è un’altra cosa…” (Sottofondo di risate dei parlamentari più istruiti), Tripiedi imperterrito ripete come uno scolaretto la parola giusta, conciso, che gli è stata suggerita e prosegue.  Cavolate a parte, i politici tendono a parlare tutti uguale, con lo stesso timbro di voce, le stesse pause, le stesse espressioni obbligate: “sediamoci attorno a un tavolo” (per dire: mettiamoci d’accordo), prediligono i termini sportivo-calcistici: “la squadra che abbiamo formato…”,  come tanti alberini di vivaio vogliono “radicarsi nel territorio”, promettono “un dibattito a più voci” (come se il dibattito uno lo potesse fare anche da solo). Ripulire la nostra lingua vuol dire ripulire noi stessi. Eliminare ridondanze, ripetizioni, esagerazioni. Sgonfiarci. Per fare l’Italia gli uomini del Risorgimento, Manzoni, Nievo, Settembrini, De Santis e mille altri  hanno lavorato ad una lingua comune, che fosse bella, pulita, espressiva, libera dalle falsità della retorica. Doveva diventare la lingua di tutti, un cantiere dove il lavoro non può finire mai, e dove le parole in costruzione acquistano vita e solidità dall’esperienza e dalla cultura del popolo. L’antifascismo ha fatto lo stesso: lottare contro la dittatura voleva dire ricostruire una coscienza civile, e combattere la menzogna e la retorica delle parole utilizzate dal regime è stato il primo fronte aperto da uomini di orientamento differente ma di grande forza morale come Gobetti, Gramsci, i fratelli Rosselli, Montale, Carlo Levi, Calamandrei… Purtroppo oggi, seduti come siamo da anni su una libertà le cui fondamenta non conosciamo nemmeno bene, e che diamo per acquisita, immarcescibile e inamovibile, l’attenzione alla verità, il rifiuto della retorica non ci interessano. Se Dante e Manzoni considerarono il loro lavoro sulla lingua un lavoro di impegno civile, per dare a un popolo unità e coscienza di se stesso, adesso chi lavora con le parole, pubblicitari, sceneggiatori, giornalisti, venditori, onorevoli, burocrati e gente comune lo fa per mettere in vetrina se stesso o le proprie idee. C’è abuso e narcisismo: guardiamo, ad esempio, quanto viene usata oggi, in tutte le salse la parola fiero e, come tutti, un tempo più sensatamente riservati, si professino continuamente fieri di qualcosa o di qualcuno; FIERI DI ESSERE ULTRAS trovi scritto sui muri dello stadio, mamme e babbi si dichiarano fieri di figlie e figli (e viceversa), anche se ogni giorno gli uni e gli altri si mandano fieramente in quel posto, varie volte, generalmente per delle inezie. Quanto più serio il vecchio Enzo Biagi che alla domanda: Sei fiero di essere italiano? rispondeva sinceramente: “Non posso essere fiero di essere italiano: ci sono tante cose che non mi piacciono nei vizi sociali che abbiamo, però sono contento di essere italiano e non mi cambierei…”

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Fratellanza di José Maria Eça de Queirόs

15/11/2013 da Livio Ghelli

220PX-~1L’articolo Fratenidade di Eça de Queirόs  venne pubblicato in Portogallo nel maggio 1890 sul numero unico della rivista Anátema. Troviamo in queste attualissime righe di un grande scrittore dell’Ottocento, con 24 anni di anticipo sugli eventi, l’intuizione lucida delle cause che porteranno alla Prima Guerra Mondiale.

Eça de Queirόs appartiene a quella specie straordinaria di individui –da Cassandra a  Leopardi-  che vedono, al di là della cecità ottimista dei contemporanei, come le malattie ignorate dell’oggi preparino le tragedie del futuro. Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento le lotte per la libertà dei popoli erano in gran parte scadute nei nazionalismi, con “il potere, o piuttosto: l’influenza sopra il potere, che è passata dalle caste alle masse, dalle oligarchie alle democrazie”… che poi vere democrazie non sono, ma piuttosto forme di demagogia che si regge sugli umori di masse, informate male ed educate peggio, da una stampa frettolosa e superficiale.

È in questo contesto, secondo Eça, che nell’Europa delle magnifiche sorti e progressive prosperano i germi del nazionalismo, inteso come sviluppo esaltato della propria nazione a danno di altri popoli.

Se fosse stato vivo adesso, uno come lui avrebbe parlato della somministrazione incontenibile e incontrollabile di immagini, dati, spot con cui i media ci affogano senza farci mai veramente capire… O magari avrebbe investigato sul decadimento della nostra scuola, che rischia di precipitare le nuove generazioni in un’attitudine di non-approfondimento, di non-critica, di non-etica. E forse sarebbe stato in grado di aiutarci a comprendere perché, oggi, milioni di persone costantemente connessi col web, siano individualmente tanto incapaci di connettere come poche volte in passato, e riproducano  tragicamente atteggiamenti di individualismo isterico, qualunquismo e razzismo.

LIVIO GHELLI

[divider]

Non si è parlato mai in Europa con tanta sicurezza, come oggi, di “fratellanza, di concordia tra i popoli, di fusione di tutte le razze in una sola” e ancora poco fa a Parigi, in un congresso, un moralista, un saggio, prediceva, tra le acclamazioni, che molto presto dalla lingua purificata degli uomini sarebbe scomparso questo termine vetusto e barbaro, lo straniero.

Di fatto, però, mai si sono visti come nell’attuale tramonto dei vecchi regimi tanta sfiducia, tanto malanimo, odi così intensi anche se tanto generici. Non si incontrano oggi in Europa due popoli genuinamente fratelli –e nei diversi paesi più gli interessi sono collegati, più le anime rimangono separate. Il Tedesco detesta il Russo. L’Italiano ha in orrore l’Austriaco. Il Danese ha in spregio il Tedesco. E tutti aborriscono l’Inglese – che li disprezza tutti.

Sono questi antagonismi, irrazionali e violenti, quanto o più delle rivalità tra Stati, che forzano le nazioni a questa rigida attitudine armata nella quale esse diventano sterili e si snervano –ed oggi, a differenza che nei tempi antichi, l’impulso verso la guerra ha sostituito, nei sovrani e nei popoli, l’amore e l’attenzione per la pace.

Questo perché il potere, o meglio l’influenza sul potere, è passato dalle caste alle masse, dalle oligarchie alle democrazie. D’altra parte le oligarchie, divenute cosmopolite per l’educazione, per i viaggi, per le alleanze, per le abitudini e i gusti comuni, per il somigliarsi dei doveri della vita di corte, per la generale tolleranza che dà la cultura e per le speciali affinità di spirito create dalla cultura classica, non odiavano mai le altre nazioni perché le altre nazioni si riassumevano, per loro, nelle altre oligarchie, alle quali si sentivano affini nei modi di vivere, di pensare, di rappresentare, di governare. Le democrazie, al contrario, profondamente nazionali e per niente cosmopolite, conservando con tradizionale fedeltà i loro propri costumi e intolleranti dei costumi degli altri si conoscono appena (attraverso le scarne nozioni di un’istruzione frammentaria) nei loro aspetti più nazionalmente caratteristici e pertanto più irriconciliabilmente opposti: -e da queste differenze di cui hanno il presentimento o che constatano, viene loro per istinto un mutuo allontanamento e una sorta di antipatia etnografica. L’operaio inglese, cento anni fa, nemmeno conosceva l’esistenza del Russo. Oggi sa, imperfettamente, dalle frettolose letture di giornali e riviste popolari, che il Russo è un uomo che differisce da lui in modo assoluto nell’aspetto, nel vestito, nella lingua, nei modi, nelle credenze… Da qui una prima repulsione; e quando oltre a ciò viene a sapere vagamente, dalla stampa, che quest’uomo, tanto diverso da lui, si appresta a marciare sull’India “per impossessarsi dei domini della regina”, innesta nel suo antagonismo di razza la sua indignazione di patriota, e arriva ad odiare il Russo, così intensamente che non è più possibile in Londra, in un caffè-concerto o in un circo, dispiegare una bandiera russa senza che esplodano dai settori popolari fischi e clamori di collera.

Da ogni parte assistiamo così allo sviluppo esaltato dell’individuo nazionale. E, con l’avvento definitivo delle democrazie, ci sarà in Europa non la universale fratellanza che gli idealisti annunciano, ma con molta probabilità un vasto conflitto di popoli, che si detestano perché non si comprendono, e che, ponendo il loro potere al servizio del loro istinto, correranno gli uni contro gli altri –come un tempo, nelle antiche demagogie della Grecia, gli uomini di Megara si scagliavano sugli uomini della Laconia, e tutta l’Attica si ergeva in armi, a causa di un bue disputato sul mercato di File o di una lite fra ruffiani, nei grandi cortili di Aspasia.

José Maria Eça de Queirόs

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Combattenti di altre patrie per la libertà d’Italia. 1882-1918: tutti i popoli oppressi sono fratelli e combattono per la stessa causa!

21/10/2011 da Livio Ghelli

Proseguiamo con questo secondo articolo della serie Combattenti di altre patrie per la libertà d’Italia il  percorso a ritroso, iniziato nel mese di maggio, per riportare alla luce storie e  motivazioni di donne e uomini venuti da lontano, che parlavano altre lingue e che hanno saputo lottare e spesso morire per la libertà e la giustizia in Italia.  In un momento di grande confusione sotto il cielo come l’attuale  è particolarmente importante ricordare ciò che dobbiamo ai fratelli di Patrie lontane, che hanno creduto e si sono identificati nei nostri ideali. 

[Leggi di più…] infoCombattenti di altre patrie per la libertà d’Italia. 1882-1918: tutti i popoli oppressi sono fratelli e combattono per la stessa causa!

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COMBATTENTI DI ALTRE PATRIE PER LA LIBERTÀ D’ITALIA – Prima parte di una storia a ritroso

29/04/2011 da Livio Ghelli

Ancona, 1994. Era un pomeriggio di luglio, faceva un caldo terribile, mi trovavo ad Ancona, città che non conoscevo, e camminavo alla ricerca di un certo ufficio o agenzia. Chiesi informazioni. Mi dissero di andare avanti per mezzo chilometro, poi sulla destra avrei incontrato la divisione polacca, dovevo oltrepassarla, poi…

Immaginai che la Divisione Polacca fosse una sorta di targa commemorativa o un monumento.

Invece era un cimitero.

Incuriosito entrai. Mi parve molto grande. Non si vedeva nessuno. La maggior parte delle tombe, tutte uguali, avevano la Croce, ma ce n’erano con la Stella di David e qualcuna con la Mezzaluna. La data della morte era la stessa, luglio 1944, proprio cinquant’anni prima.

Seppi poi che il 18 luglio 1944 la città di Ancona era stata liberata, dopo sanguinosi combattimenti contro i Tedeschi, dalle truppe polacche del generale Anders.

Nei dintorni di Firenze, dove sono nato, avevo conosciuto altri cimiteri di soldati alleati: il vasto Cimitero di Guerra Americano dove riposano 4.400 caduti, che si trova dopo Tavarnuzze sulla strada per San Casciano, e il Cimitero di Guerra Inglese, all’Anchetta, sulla strada per Pontassieve: percepíti col tempo più che altro come punti di riferimento lungo una strada, buoni per dare un’indicazione a chi te la chiede, per esempio: “Scusi, sa dov’è la trattoria Tal dei Tali?” “Come no, lei va avanti, passa il cimitero militare, prosegue per un trecento metri e poi la trova, sul lato sinistro della strada. Si mangia bene e si spende il giusto!”

Dimenticare è nell’ordine delle cose, ma non è un bene: nei settant’anni trascorsi dalla Seconda Guerra Mondiale le ceneri di nuovi morti, caduti a milioni in Africa, Asia, America Latina, Europa lottando per libertà e giustizia o, semplicemente, credendo nel diritto di tutti di vivere insieme in pace e armonia, si sono aggiunte alle ceneri dei morti di allora, rimuovendone in parte la memoria.

Proprio per questo è importante ricordare che, tra i quasi centomila caduti di altre patrie, che erano venuti in Italia per combattere il Nazifascismo[1], vi furono molti volontari che ritenevano di non poter restare fuori, pur avendone l’opportunità, ed altri che accettarono missioni particolarmente pericolose, paracadutati oltre le linee tedesche, con funzioni di collegamento con i partigiani italiani o combattendo in formazioni partigiane[2].

Vicino a Pistoia, dove ho abitato per diversi anni, c’è il Cimitero Brasiliano, con un monumento dedicato ai caduti della FEB – Força Expedicionária Brasileira, 23.334 soldati mandati in Italia, ne morirono circa 2.500, quasi 500 uccisi in azione, gli altri successivamente, per le ferite riportate.

Ho avuto occasione di vedere una collezione di figurine per ragazzi –tipo le nostre figurine Panini- pubblicata in Brasile subito dopo la guerra, per raccontare ai più giovani, con immagini e piccole didascalie, la storia della Força Expedicionária Brasileira: la historia da FEB na Itália è raffigurata un po’ stile fumetto, dall’inaugurazione del Corpo di Spedizione, il cui distintivo era un serpente dall’aria ironica che fuma la pipa (O cobra fumando o cachimbo)[3], alla traversata dell’Oceano, all’arrivo dei soldati a Napoli, con la loro missione di lutar contra os Alemães na Itália, ai combattimenti, alle perdite, alle vittorie, infine l’immagine del Cimitero Brasiliano in Italia, col profilo verde di una collina sullo sfondo, e questa dedica:

Na localidade de Pistoia, na Itália, descançam alcuns herois da Força Expedicionária Brasileira que lutaram e morreram para que a Liberdade –maior bem do homem- podesse continuare entre os povos de boa vontade[4].

Trovo che questa semplice dedica, stampata sul retro della figurina, dica tutto.


[1] Solo nella battaglia di Cassino morirono oltre 14.000 soldati alleati (1.052 Polacchi, 4.345 Francesi, 6.320 del Commonwealth, circa 3.000 Americani). I Tedeschi caduti a Cassino furono circa 15.000. Se consideriamo anche i dispersi e i feriti –almeno tre feriti per ogni caduto- il numero complessivo delle perdite per Cassino, da ambo le parti, supera le 120 mila unità.

[2] Un episodio tra i numerosi qui in provincia di Firenze: il 19 giugno 1944 nella Battaglia di Pian d’Albero, nel territorio di Figline Valdarno, muore il tenente di aviazione russo Kirikonzia Supien mentre, alla testa di un gruppo di ex prigionieri sovietici unitisi ai partigiani, cerca di portar soccorso ai partigiani della 22ª Brigata Senigaglia Garibaldi, circondati dai nazisti.

[3] O cobra fumou [il cobra ha fumato] si disse al momento dell’entrata in guerra del Brasile, ricordando ironicamente le parole del presidente Vargas di qualche tempo prima: il Brasile non ci sarà in questa guerra… Sarà più facile trovare un serpente che fuma la pipa!

[4] Nella località di Pistoia, in Italia, riposano alcuni eroi del Corpo di Spedizione Brasiliano che lottarono e morirono perché la Libertà –maggior bene dell’uomo- potesse continuare a vivere tra i popoli di buona volontà.

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