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Un museo delle parole inutili

06/04/2014 da Livio Ghelli

imagesL’italiano è diventata una brutta lingua, piena di parole esagerate e di strilli, di frasi inutilmente lunghe, di termini stranieri che non servono. I giovani acchiappano subito le parole alla moda, senza chiedersi se servono, se rendono meglio una certa idea, e io un po’ li capisco, poveracci: il linguaggio di TV, video, internet è fatto soprattutto di immagini e suoni, ci abitua a rispondere senza avere tempo per  riflettere, e scuola e famiglie si sono ormai arrese alla superficialità generale… Però capisco meno gli adulti che un po’ più di sale in zucca dovrebbero averlo, e invece, presi anche loro dalla smania di strillare, adoprano parole ed espressioni alla moda senza un minimo di discernimento. Magari lo fanno per fare i giovani, oppure sono solo pigri e ignoranti e si credono di far bella figura senza spendere, gonfiando il loro linguaggio come tacchini: “Signor Presidente, posso fare una domanda interrogativa?” –sproloquiava qualche tempo fa Ermanno Russo, aspirante assessore della Campania. Oppure usano parole del cui significato non hanno la più pallida idea: “Grazie Presidente, breve e circonciso” esordisce alla Camera l’onorevole Tripiedi. “Conciso –non può fare a meno di correggerlo il presidente- quella è un’altra cosa…” (Sottofondo di risate dei parlamentari più istruiti), Tripiedi imperterrito ripete come uno scolaretto la parola giusta, conciso, che gli è stata suggerita e prosegue.  Cavolate a parte, i politici tendono a parlare tutti uguale, con lo stesso timbro di voce, le stesse pause, le stesse espressioni obbligate: “sediamoci attorno a un tavolo” (per dire: mettiamoci d’accordo), prediligono i termini sportivo-calcistici: “la squadra che abbiamo formato…”,  come tanti alberini di vivaio vogliono “radicarsi nel territorio”, promettono “un dibattito a più voci” (come se il dibattito uno lo potesse fare anche da solo). Ripulire la nostra lingua vuol dire ripulire noi stessi. Eliminare ridondanze, ripetizioni, esagerazioni. Sgonfiarci. Per fare l’Italia gli uomini del Risorgimento, Manzoni, Nievo, Settembrini, De Santis e mille altri  hanno lavorato ad una lingua comune, che fosse bella, pulita, espressiva, libera dalle falsità della retorica. Doveva diventare la lingua di tutti, un cantiere dove il lavoro non può finire mai, e dove le parole in costruzione acquistano vita e solidità dall’esperienza e dalla cultura del popolo. L’antifascismo ha fatto lo stesso: lottare contro la dittatura voleva dire ricostruire una coscienza civile, e combattere la menzogna e la retorica delle parole utilizzate dal regime è stato il primo fronte aperto da uomini di orientamento differente ma di grande forza morale come Gobetti, Gramsci, i fratelli Rosselli, Montale, Carlo Levi, Calamandrei… Purtroppo oggi, seduti come siamo da anni su una libertà le cui fondamenta non conosciamo nemmeno bene, e che diamo per acquisita, immarcescibile e inamovibile, l’attenzione alla verità, il rifiuto della retorica non ci interessano. Se Dante e Manzoni considerarono il loro lavoro sulla lingua un lavoro di impegno civile, per dare a un popolo unità e coscienza di se stesso, adesso chi lavora con le parole, pubblicitari, sceneggiatori, giornalisti, venditori, onorevoli, burocrati e gente comune lo fa per mettere in vetrina se stesso o le proprie idee. C’è abuso e narcisismo: guardiamo, ad esempio, quanto viene usata oggi, in tutte le salse la parola fiero e, come tutti, un tempo più sensatamente riservati, si professino continuamente fieri di qualcosa o di qualcuno; FIERI DI ESSERE ULTRAS trovi scritto sui muri dello stadio, mamme e babbi si dichiarano fieri di figlie e figli (e viceversa), anche se ogni giorno gli uni e gli altri si mandano fieramente in quel posto, varie volte, generalmente per delle inezie. Quanto più serio il vecchio Enzo Biagi che alla domanda: Sei fiero di essere italiano? rispondeva sinceramente: “Non posso essere fiero di essere italiano: ci sono tante cose che non mi piacciono nei vizi sociali che abbiamo, però sono contento di essere italiano e non mi cambierei…”

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