Venerdì 17 novembre ore 15
La Colombaria via San Egidio 23 Firenze
CONVEGNO DI STUDI
Ernesto Rossi Giornalista
nel cinquantesimo della scomparsa
Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.
Venerdì 17 novembre ore 15
La Colombaria via San Egidio 23 Firenze
CONVEGNO DI STUDI
nel cinquantesimo della scomparsa
7 Novembre 2017 /28 Gennaio 2018
Palazzo Pitti – Tesoro dei Granduchi Firenze
Curatori: Valentina Conticelli, Riccardo Gennaioli, Maria Sframeli
Sito ufficiale: http://www.uffizi.it
Enciclopedica figura di erudito, divenuto cardinale all’età di cinquant’anni, Leopoldo de’ Medici spicca nel panorama del collezionismo europeo per la vastità dei suoi interessi e la varietà delle opere raccolte. Servendosi di abilissimi agenti, mercanti e segretari italiani e stranieri, radunò, nel corso della sua vita, esemplari eccellenti e raffinati nei più diversi ambiti: sculture antiche e moderne, monete, medaglie, cammei, dipinti, disegni e incisioni, avori, pietre dure e oggetti preziosi, ritratti di piccolo e grande formato, libri, strumenti scientifici e rarità naturali. Alla morte del cardinale, avvenuta nel 1675, la maggior parte delle sue opere entrarono nel nucleo delle collezioni granducali e molte di esse furono espressamente destinate dal nipote, il granduca Cosimo III, ad abbellire la Galleria degli Uffizi: l’ingresso sistematico delle opere di Leopoldo nelle raccolte del principale museo della casata toscana provocò uno dei più radicali rinnovamenti nella sua storia.
Nel 2017, in occasione del quarto centenario della nascita di Leopoldo, le Gallerie degli Uffizi, che conservano ancora la maggior parte della sua raccolta, desiderano mostrare taluni esempi significativi del suo gusto nei diversi campi in cui esercitò l’azione di conoscitore, per illustrare la natura poliedrica delle predilezioni collezionistiche del cardinale e mettere in luce il ricchissimo apporto da lui fornito ai tesori d’arte della famiglia.
Autore Paolo Grossi
Editore Laterza
Anno 2017
Pag. 216
Euro 24
Il diritto non piove dall’alto sulle teste dei cittadini. Al contrario, è qualcosa che si trova nelle radici di una civiltà, nel profondo della sua storia, nell’identità di una coscienza collettiva. Deve essere identificato negli strati profondi della società, laddove allignano i valori fondamentali.
La riflessione originale di un grande Maestro sul ruolo cruciale del diritto per la convivenza umana.
Paolo Grossi, giurista e storico del diritto, socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, è attualmente presidente della Corte costituzionale. È stato insignito di lauree honoris causa in molte università italiane ed estere. Tra le sue pubblicazioni più recenti, per Giuffrè: Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860/1950; Mitologie giuridiche della modernità; La cultura del civilista italiano. Un profilo storico; Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto; Nobiltà del diritto. Profili di giuristi.
Autore Paolo Paci
Editore Corbaccio
Anno 2017
Pag. 288
Prezzo Euro 19,60
«La guerra è tra di noi. Vicina, vicinissima, anzi sotto casa. È una guerra di un secolo fa. Dopo, ci sono state altre guerre, perfino più devastanti. Eppure nessuna si è impressa nella memoria (collettiva, familiare, individuale) quanto quella guerra. La prima guerra mondiale.»
Dove si trova Caporetto? Pochi lo sanno. Il villaggio nella valle dell’Isonzo, oggi conosciuto con il nome sloveno di Kobarid, è un buco nero della geografia e della storia d’Italia. Il Piave e il Monte Grappa invece tutti sanno dove sono: sotto casa. Impressi per sempre nella toponomastica dei nostri paesi e città. Memorie censurate, nomi trasfigurati dal mito della Vittoria. Ma Caporetto, Piave, Monte Grappa sono (anche) luoghi reali. Sono il punto di partenza e il traguardo di un viaggio durato un anno, dall’ottobre 1917 al novembre 1918. Un anno di invasione, di stragi, di fame, durante il quale l’Italia ha rischiato di perdere sé stessa. Per ritrovare infine, contro ogni previsione, una sua controversa identità.
Paolo Paci ci conduce passo dopo passo nell’itinerario dalle Alpi Giulie ai contrafforti delle Prealpi venete, seguendo le tracce di un esercito in rotta e di un altro in trionfale avanzata. Tra ossari e diari di guerra, canzoni e trincee, film e musei spontanei, ritroviamo la verità geografica dei luoghi. Scoprendo, nel racconto degli abitanti (nipoti e pronipoti degli antichi soldati), come la memoria della Grande Guerra sia ancora straordinariamente viva.
Un po’ business, un po’ nostalgia. E, in fondo, frammento del nostro Dna.
Paolo Paci è nato a Milano nel 1959 e, come moltissimi altri italiani, ha avuto un nonno soldato. Ferito sul Piave. Per qualche decennio è stato giornalista di viaggio, oggi si dedica in esclusiva alle sue passioni: scrittura, giardinaggio, alpinismo. Tre attività, in vario modo, pericolose. Tra i suoi libri ricordiamo «365 giorni sulle Alpi» (Mondadori), «Evitare le buche più dure» (Feltrinelli), «Il deserto dei non credenti» (San Paolo). Il suo ultimo titolo è «Il respiro delle montagne» (Sperling & Kupfer).
AUTORE PAOLO MIELI
EDITORE RIZZOLI
ANNO 2017
PAG. 352
PREZZO EURO 20,00
Mai come oggi la politica italiana sembra in preda a una paralisi.
Da anni i partiti sono impegnati in una continua campagna elettorale, con l’unico scopo di minare la legittimità degli avversari e allo stesso tempo lasciare aperte le porte a tutte le alleanze possibili. Alleanze da stringere nel nome di un’eterna emergenza: economica, politica o sociale.
Questa incapacità di educarsi all’alternanza, di comprendere che “è normale stare lungo una stagione parlamentare ai banchi del governo e nella successiva su quelli dell’opposizione”, sembra ai più una degenerazione della buona politica, il frutto avvelenato degli ultimi decenni, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica.
Ma potrebbe non essere così. Forse esiste un male originario della politica italiana.
Paolo Mieli ripercorre la vita del nostro Paese attraverso una serie di storie – le convulse vicende politiche dei primi anni del Regno; la Grande Guerra; il fascismo; politici del dopoguerra come De Gasperi, La Malfa o Nenni; vicende oscure quali il golpe del generale De Lorenzo o il dirottamento dell’Achille Lauro; cronache giudiziarie come quelle del caso Montesi o dell’assassinio del giudice Caccia – che contribuiscono a disegnare un ritratto dell’Italia e della sua politica molto spesso diverso dalla storia ufficiale. E mostrano come l’incapacità di dar vita a meccanismi che creino un’alternanza tra gli schieramenti parlamentari costituisca la nostra anomalia di fondo.
Paolo Mieli giornalista e storico, negli anni Settanta allievo di Renzo De Felice e Rosario Romeo, è stato giornalista all’“Espresso”, poi a “Repubblica” e alla “Stampa”, di cui è stato anche direttore. Dal 1992 al 1997 e dal 2004 al 2009 ha diretto il “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri per Rizzoli, Le storie,la storia (1999), Storia e politica (2001), La goccia cinese (2002), I conti con la storia (2013) e L’arma della memoria (2015).
Mario Ricciardi Sole 24 Ore 28 ottobre
Nel maggio del 1920 una delegazione di “osservatori imparziali”, messa insieme dal Governo Britannico su richiesta dei sindacati, arriva a San Pietroburgo con l’incarico di studiare le condizioni economiche, politiche e sociali del paese a meno di tre anni dalla rivoluzione bolscevica.
Tra i delegati c’è anche il matematico e filosofo Bertrand Russell. Già noto per i suoi importanti studi sulla logica e i fondamenti della matematica, Russell era una figura di primo piano nella vita politica britannica, impegnato da anni in difesa di cause “radicali” – dal controllo delle nascite al voto per le donne, fino al pacifismo nel corso della Prima Guerra Mondiale – egli aveva aderito di recente al socialismo pluralista teorizzato da G.D.H. Cole. Le sue convinzioni politiche progressiste lo spinsero a usare la propria influenza negli ambienti del Governo – in fondo era pur sempre il fratello del Conte Russell, membro della House of Lords – per ottenere l’invito a unirsi alla delegazione. Ecco perché, dopo qualche giorno dall’arrivo in Russia, troviamo il filosofo a tu per tu con il capo dei Bolscevichi, uno degli uomini più temuti e odiati al mondo, Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin.
Di questo incontro, che avviene nello studio del leader politico, Russell ci ha lasciato un memorabile resoconto, pubblicato poche settimane dopo nel suo libro The Practice and Theory of Bolshevism. Apprendiamo che un interprete è presente, ma che rimane per lo più in silenzio perché l’inglese di Lenin è buono. Nella stanza, arredata in modo spartano, i due discutono di politica internazionale, dei risultati ottenuti dai Bolscevichi, in particolare per quel che riguarda l’elettrificazione dell’industria, dell’opposizione dei contadini – nei confronti dei quali Lenin non manifesta grande simpatia – e delle prospettive di una rivoluzione proletaria nel Regno Unito.
Anche quando emergono disaccordi, il tono rimane cordiale. Lenin ride spesso. Russell trova queste risate dapprima amichevoli e rincuoranti, tuttavia, mano a mano che la conversazione procede, esse assumono un tono sinistro. Russell è tra i primi, seguito da una lunga schiera di intellettuali progressisti europei e statunitensi, a riconsiderare la propria iniziale simpatia nei confronti della rivoluzione bolscevica, sottolineandone gli esiti totalitari. Si distingue tuttavia dalla grande maggioranza dei critici per la rapidità con cui giunge alle proprie conclusioni negative, e perché un ruolo non secondario nella formulazione del suo giudizio ha l’aver incontrato di persona Lenin.
Oggi, a distanza di cento anni dalla presa del Palazzo d’Inverno, è molto difficile non farsi condizionare dal peso di questa tradizione negativa, e da ciò che sappiamo del fallimento del regime sovietico. La pubblicazione di una nuova edizione critica di Stato e rivoluzione di Lenin ci offre comunque un’opportunità di grande interesse: provare per un momento a sospendere il giudizio, per ritornare alle origini. Lenin, infatti, scrive questo lavoro, uno dei più letti e discussi tra i suoi contributi, nell’estate del 1917, a poche settimane dagli eventi che condurranno alla presa del potere da parte dei Bolscevichi. La stesura dell’ultimo capitolo, si legge nel poscritto del 30 novembre, viene rimandata.
Fare l’esperienza della rivoluzione, afferma Lenin, è più piacevole e utile che scriverne (possiamo immaginare che dopo aver affidato al foglio questa battuta Lenin si sia lasciato andare a una risata come quelle descritte da Russell). Non c’è dubbio che il tema fondamentale del saggio, come ha scritto Lucio Colletti, è la rivoluzione come «atto distruttivo e violento». Questo, in realtà, è un punto d’arrivo della sua riflessione. Dapprima Lenin ritiene che il compito del proletariato in Russia sia portare a termine una rivoluzione democratica, nell’ambito di una rivoluzione socialista europea. C’è, in tale opinione, l’eco del dibattito sulle condizioni sociali arretrate in cui si trova la Russia dei primi del secolo scorso, che non soddisfano i requisiti descritti da Marx nelle sue riflessioni sul crollo del Capitalismo.
In questa fase, Lenin sembra avere ancora una concezione “gradualista” della rivoluzione, l’avversario è Bucharin. Ben presto, tuttavia, la situazione politica si evolve, e il capo dei Bolscevichi si convince che sono maturate le condizioni per osare di più. In questa mutata prospettiva, egli comincia a redigere le note che diventeranno, dopo un percorso editoriale ricostruito in questa edizione nel saggio introduttivo di Tamás Krausz, Stato e rivoluzione.
Richiamando gli scritti di Marx e Engels sulla Comune di Parigi del 1871, Lenin indica gli aspetti centrali del processo di distruzione violenta dello Stato che costituisce l’obiettivo della rivoluzione: l’introduzione del mandato imperativo, la revocabilità permanente dei funzionari, il superamento della rappresentanza parlamentare che deve essere sostituita da un organo esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Una forma radicale di democrazia diretta che attui il sogno dell’autogoverno dei produttori. Per realizzarla, Lenin deve mettere nell’angolo i compagni che vorrebbero seguire la strada parlamentare. Di qui la feroce polemica con Kautsky che lo impegna per buona parte del capitolo conclusivo.
Due anni dopo la visita di Russell a Lenin, un ragazzino di dodici anni, la cui famiglia si è da poco trasferita nel Regno Unito per sottrarsi alle violenze seguite alla rivoluzione bolscevica, scrive un breve racconto basato su un episodio di cui forse era stato testimone oculare quando ancora viveva a San Pietroburgo. Narra l’uccisione, da parte di un tal Kunnegiesser, esponente della piccola nobiltà locale, di Moise Solomonovich Uritsky, un funzionario della Cheka. Nel firmare le condanne a morte, leggiamo in questo breve componimento, Uritsky si rifaceva al motto che aveva assunto come guida nella sua azione politica: «il fine giustifica i mezzi».
L’assalto al cielo dei Bolscevichi aveva provocato la discesa agli inferi di una parte dei russi. Molti anni dopo, quel giovane rifugiato, il cui nome era Isaiah Berlin, lo ricordava ancora con un brivido d’orrore.
La culla del Manierismo fiorentino
Il Chiostrino dei Voti è un cortile porticato antistante la Basilica della Santissima Annunziata di Firenze. Il prezioso ambiente è storicamente uno dei centri nevralgici della vita pubblica e religiosa cittadina. Oltre le colonne del portico, dodici lunette dipinte accolgono i fedeli, che un tempo vi depositavano gli ex voto per la Vergine. Vi si trova infatti un importante ciclo di affreschi nelle lunette, dipinto da importanti maestri a cavallo fra Quattro e Cinquecento: in particolare vi lavorarono negli anni dieci del XVI secolo tutti i più grandi “nuovi maestri” che avrebbero poi dato origine al Manierimo: Andrea del Sarto, Pontormo, Rosso Fiorentino.
L’architettura del Chiostrino fu iniziata nel 1447 su disegno di Michelozzo. A partire dal 1460 ne fu avviata la decorazione ad affresco delle lunette, grazie alla sovvenzione delle offerte dei fedeli. La decorazione procedette estremamente lenta, dovendo aspettare sedici anni tra la prima lunetta, lì Adorazione dei pastori del Baldovinetti e la seconda, la Vocazione di San Filippo di Cosimo Rosselli. Solo dal 1509 i lavori presero una decisa impennata, con l’attività di Andrea del Sarto che completò nel giro di due anni le Storie di san Filippo Benizi. Si ripresero poi le Storie di Maria, sempre a opera del Sarto, con il Viaggio dei Magi (1511), a cui seguì una nuova pausa. La volontà di Leone X di concedere al santuario dell’Annunziata il prestigioso titolo di Giubileo perpetuo fece sì che nel 1513 si riprendessero con fervore le decorazioni, chiamando un gruppo di artisti più nutrito. Si aggiunse così il Francia Bigio, che nel 1513 eseguì lo Sposalizio della Vergine, opera mutilata dallo stesso artista nel volto di Maria, offeso dai frati che erano andati a sbirciarne il lavoro prima che fosse completo. Il Sarto completò la Nascita della Vergine nel 1514 e l’8 settembre di quell’anno avvennero i solenni festeggiamenti per la concessione del privilegio giubilare. L’anno successivo Andrea del Sarto affidò la decorazione delle due lunette rimanenti a due suoi promettenti allievi, il Pontormo, che dipinse nel 1516 la Visitazione, e Rosso Fiorentino, che ridipinse l’Assunzione di Maria su indicazioni del maestro nel 1517, dopo che una sua prima versione, realizzata nel 1513/1514, era stata rifiutata dai committenti.
Nel corso dei secoli il Chiostro dei Voti ha subito diversi restauri. L’ultimo è terminato alla fine dell’ottobre del 2017; l’opera è stata lunga e laboriosa, ma ne è valsa la pena. Il Chiostrino dei Voti, culla della Maniera cinquecentesca di Firenze, torna a sfoggiare gli affreschi di Pontormo, Andrea del Sarto e Rosso Fiorentino nella loro forma più smagliante.
I lavori, che hanno coinvolto l’intero apparato decorativo del Chiostrino, sono stati eseguiti sotto la direzione del Comune di Firenze con l’Alta Sorveglianza della Soprintendenza e finanziati da Friends of Florence.
“Il restauro del Chiostrino dei Voti ha rappresentato un momento molto significativo per la nostra Fondazione – ha dichiarato la presidente di Friends of Florence Simonetta Brandolini d’Adda – perché ha consentito di salvaguardare un intero luogo del Complesso della Santissima Annunziata riconosciuto come fondamentale per la città e per la storia dell’arte mondiale. Nei suoi affreschi si conserva l’origine di quella maniera moderna che ha ispirato per secoli artisti e devoti. Ha insegnato a storici dell’arte e devoti non soltanto lo stile, ma anche concetti profondissimi con le sue iconografie dipinte.
Autore Marco Mondini
Editore Il Mulino
Anno 2017
Pag. 388
Prezzo Euro 26,00
«Quale disastro più grande del mio? In dieci giorni io, l’idolo dell’Italia e dell’Europa, si può dire, sono giunto al fondo della miseria»
Luigi Cadorna, novembre 1917
Luigi Cadorna diresse con poteri pressoché assoluti le operazioni militari italiane nella Grande Guerra. L’enorme consenso personale e la debolezza dei governi di Roma lo misero al riparo da ogni critica: nonostante l’insuccesso dei suoi piani, le enormi perdite di vite umane, il rischio di una sconfitta sul fronte trentino nel 1916, il generale rimase al suo posto fino alla disfatta di Caporetto, nell’autunno 1917. Quanto era stato incensato prima, tanto venne demonizzato poi. Il libro rilegge la carriera e l’operato di Cadorna collocandone la figura nel contesto della cultura militare europea e della storia italiana dell’epoca. Luigi Cadorna appare così come il rappresentante, non eccezionale, di una generazione di professionisti delle armi ossessionata dal passato inglorioso, dalle umilianti sconfitte e dai difetti di un paese che ritenevano debole e indisciplinato.
Marco Mondini insegna Storia militare nell’Università di Padova ed è ricercatore all’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Con il Mulino ha pubblicato «La guerra italiana» (2014) e «Andare per i luoghi della Grande Guerra» (2015); ha inoltre curato «La guerra come apocalisse» (2017).
Strozzina-Palazzo Strozzi Firenze
20 Ottobre 2017 / Gennaio 2018
Dal 20 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018 gli spazi della Strozzina a Palazzo Strozzi a Firenze ospitano Utopie Radicali. Oltre l’architettura: Firenze 1966-1976, una mostra, curata da Pino Brugellis, Gianni Pettena, Alberto Salvadoricon la collaborazione di Elisabetta Trincherini per le ricerche e il coordinamento dei materiali d’archivio, che celebra la straordinaria stagione creativa fiorentina del movimento radicale tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
In un caleidoscopico dialogo tra oggetti di design, video, installazioni, performance e narrazioni, la mostra riunisce per la prima volta in un’unica mostra le opere visionarie di gruppi e personalità come Archizoom, Superstudio, Lapo Binazzi e Ufo, Gianni Pettena, Remo Buti, 9999 e Zziggurat, capaci di rendere Firenze il centro di una rivoluzione creativa che ha segnato lo sviluppo delle arti a livello internazionale.
Questa generazione di artisti, inizialmente studenti legati principalmente alla facoltà di Architettura di Firenze, è la prima in Italia a portare avanti in maniera originale la profonda revisione della disciplina architettonica, alla ricerca di un inedito connubio tra l’utopia architettonica e la ricerca basata sulle tecnologie più avanzate, già in atto a livello internazionale con gruppi e autori come Hollein e Pichler a Vienna, Cedric Price e gli Archigram a Londra, i Metabolisti in Giappone, Yona Friedman in Francia, Buckminster Fuller negli Stati Uniti, Frei Otto in Germania, il movimento situazionista di Costant e Debord in Francia e Olanda.
Definito inizialmente come “Superarchitettura”, “controdesign”, “architettura concettuale” o “utopia”, il movimento architettonico radicale a Firenze si contraddistingue per l’originale e proficuo scambio tra la ricerca architettonica e le arti visive, andando appunto oltre l’architettura. Caratteristica del ruolo “radicale” dei ricercatori fiorentini è quella di innovare profondamente strategie progettuali e piattaforme concettuali, manifestandosi anche attraverso performance urbane e cortocircuiti operativi, con teorizzazioni globali e contributi concettuali che si trascrivono sia nelle architetture per gli interni che negli spazi urbani.
La mostra si pone l’obiettivo di far conoscere allo spettatore gli anni in cui il movimento si è formato e ha operato, ed esplicita sia il contesto internazionale, sull’onda del quale le ricerche radicali sono fiorite, sia la grande eredità che queste hanno lasciato alle generazioni successive, per celebri architetti come Bernard Tschumi, Zaha Hadid, Rem Koolhaas o Frank Gehry. Non a caso la maggior parte delle opere e dei materiali dei protagonisti radicali sono raccolti ed esposti in musei come MoMA di New York, il Centre Pompidou di Parigi, il Canadian Center for Architecture di Montreal, il FRAC Centre di Orleans, il MAXXI di Roma.
La mostra Utopie Radicali, sarà aperta dal 21 settembre 2017 fino al 21 gennaio 2018, tutti i giorni compresi i festivi, con orario 10.00-20.00 e tutti i giovedì fino alle 23.00.
La biglietteria chiuderà un’ora prima dell’orario di chiusura
COSTO DEL BIGLIETTO: Intero € 5,00; ridotto € 4,00; € 3,00 Scuole.
TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39 055 2645155
SITO UFFICIALE: http://www.palazzostrozzi.org/
Giovanni Belardelli Corriere della Sera 12 Ottobre
Nel marzo 1919 Alphonse Aulard, professore di storia della rivoluzione francese alla Sorbona, formulava un paragone tra il 1789 e il 1917 destinato a una straordinaria fortuna: «Anche la rivoluzione francese è stata compiuta da una minoranza dittatoriale», anch’essa ha dovuto combattere contro i suoi nemici e utilizzare delle procedure che alimentarono l’accusa ai francesi d’essere «dei banditi». Dunque, concludeva, «quando mi dicono che c’è una minoranza che terrorizza la Russia, capisco solo una cosa, che in Russia c’è la rivoluzione».
Ecco, formulata da uno studioso che pure si dichiarava politicamente lontano dai bolscevichi, una delle ragioni, forse la principale, che avrebbero determinato l’enorme fascinazione della Rivoluzione d’Ottobre in tutto l’Occidente, ben oltre i confini di chi militava a sinistra. Secondo questa visione, con la presa del potere da parte di Lenin la rivoluzione, che era iniziata nel 1789 ma presto si era interrotta per l’egoismo della borghesia vincitrice, finalmente riprendeva il suo cammino. E lo riprendeva agitando quella promessa di eguaglianza sociale che i rivoluzionari francesi, si sosteneva, avevano presto dimenticato.
Che si trattasse solo di un’illusione, che in Unione Sovietica nessuna eguaglianza sociale si stesse davvero realizzando (se non nella forma di una generale penuria, da cui erano esclusi però i vertici del regime), questo non ha avuto mai molta importanza per chi ha creduto nel mito dell’Ottobre rosso. Neanche le notizie sulle violenze compiute dai bolscevichi contro i loro oppositori o sulla vera e propria guerra combattuta da Stalin per cancellare i contadini come classe, assassinandoli o deportandoli nel Gulag, furono in grado di distruggere completamente quell’immagine iniziale, di una rivoluzione che issava lo stendardo dell’eguaglianza tra gli uomini.
Ancora nel 1996 a Norberto Bobbio accadde di scrivere che in Urss «il più grandioso tentativo di realizzare in terra la millenaria utopia di una società di eguali si era rovesciato in una spietata forma di dispotismo». Una frase in cui la netta condanna degli esiti politici dell’Ottobre rosso non nascondeva qualche ammirazione per i suoi presupposti ideologici.
Del resto, vari anni prima, Alcide De Gasperi aveva mostrato di ammirare il messaggio universalistico del comunismo sovietico, il cui «formidabile tentativo di accorciare le distanze fra le classi sociali» a suo giudizio era eminentemente cristiano. Perfino lui, dunque, che nell’Italia del dopoguerra si stava opponendo con successo alla sinistra comunista, finiva col seguire quel doppio standard con cui tanta parte delle élites intellettuali e politiche europee hanno valutato per molto tempo le dittature del Novecento: mentre regimi come quello fascista e nazista sono stati condannati anzitutto sulla base dei risultati, cioè delle azioni effettivamente compiute, il regime nato dalla rivoluzione del 1917 è stato giudicato con qualche indulgenza sulla base delle sue premesse (e promesse) ideologiche.
Alla fine degli anni Venti ad alimentare ancor più il mito dell’Urss era intervenuto il primo piano quinquennale varato da Stalin: il processo di collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione forzata che vi si accompagnava parvero a molti non solo un modo per modernizzare un Paese arretrato, ma anche un’alternativa all’irrazionalità dell’economia capitalistica, squassata dalla Grande Crisi innescata dal crollo di Wall Street dell’ottobre 1929. «Il comunismo presentato come un mezzo per migliorare la situazione economica è un insulto alla nostra intelligenza», scrisse un economista di sinistra come John Maynard Keynes nel 1934. Ma molti intellettuali occidentali non la pensavano affatto come lui.
Di fronte ai grandi processi di Mosca cominciarono però ad aumentare i dubbi sul regime nato dalla rivoluzione d’Ottobre. Nel 1937 lo scrittore francese André Gide, che pure in precedenza aveva manifestato le sue simpatie per l’Urss di Stalin, scrisse di ritenere che «in nessun Paese, fosse pure nella Germania di Hitler, lo spirito è meno libero, altrettanto asservito, intimidito (leggi: terrorizzato), schiavo». In quello stesso anno la filosofa Simone Weil definiva i due regimi «quasi identici». Un paragone che nell’agosto 1939 il patto di non aggressione tra Urss e Germania venne a confermare, lasciando nello sconcerto i militanti comunisti, ma anche i tanti che in Occidente ancora simpatizzavano per il regime sovietico.
Sembrò la fine della grande illusione che si era impadronita per anni di milioni di europei. Ci pensò Adolf Hitler, involontariamente, a dare nuova linfa al mito del comunismo. L’attacco all’Unione Sovietica nel giugno 1941 e il ruolo decisivo avuto da questo Paese nella guerra contro la Germania fecero presto dimenticare il patto di due anni prima. L’ex alleato di Hitler, Stalin, diventava uno dei grandi liberatori d’Europa.
Così la grande illusione che si era affermata nel 1917 riacquistava credito e riprendeva slancio. Per molti sarebbe terminata nel 1956, con la rivelazione da parte di Nikita Krusciov dei crimini di Stalin e con l’immagine dei carri armati russi aggressori a Budapest
Per altri avrebbe avuto fine con l’invasione della Cecoslovacchia nell’estate del 1968. Per altri ancora sarebbe durata più a lungo (nel 1977 un sondaggio indicava che la metà dei militanti del Pci riteneva i diritti individuali meglio garantiti in Urss che in Italia), terminando solo nel fatidico 1989 con la caduta del Muro di Berlino.