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brigantaggio

CHE SIGNIFICA L’ESPRESSIONE «GUERRA DEL BRIGANTAGGIO»

07/01/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Lettere a Sergio Romano                 Corriere della Sera 3 gennaio

Leggendo la sua risposta sulla guerra del brigantaggio, vedo che ancora una volta, secondo la vulgata dei vincitori, si continua a insistere su un certo modo di vedere e di intendere le «cose» del brigantaggio. Perché continuare a fare uso di sostantivi e aggettivi offensivi, ingiuriosi, penalizzanti, riduttivi per un fenomeno vasto sia per la zona interessata — l’ex-Regno delle Due Sicilie — sia per durata temporale? Perché usare il termine «accozzaglia»? Come definire chi, pur ritenendo di avere di fronte una «accozzaglia» di briganti imbastì il primo etnocidio di massa? Le dice qualcosa il nome Casalduni? O Pontelandolfo? O Campolattaro? O Isernia? O Venafro? Oppure Bronte (di cui parla, anche se in modo non del tutto veritiero Giovanni Verga nel racconto «Libertà», di cui nello scorso secolo qualcosa ebbe pure a dire Leonardo Sciascia)? Come definirebbe quei grandissimi e civilissimi uomini venuti a «civilizzarci», a «liberarci», ad «ammodernarci» e… capaci di fare quelle «cose»?

Giuseppe Vozza

 

Caro Vozza, L’espressione «guerra del brigantaggio », con cui vengono definiti gli eventi nelle province meridionali fra il 1860 e il 1865, è certamente parziale e imprecisa. Sembra ignorare che fra gli insorti vi furono anche alcuni ufficiali del regno borbonico e parecchi volontari, soprattutto stranieri, che si batterono per il principio della legittimità dinastica. Ma il brigantaggio, in quella vicenda, ebbe una parte considerevole. Il fenomeno era largamente diffuso in alcune province del regno borbonico, fu descritto nelle cronache dei viaggiatori sin dagli inizi del XVIII secolo, dette filo da torcere ai governi di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. Nel suo Viaggio elettorale, uno studioso e uomo politico meridionale, Francesco Da Sanctis, racconta che i benestanti di Avellino non si azzardavano a mettersi in viaggio senza avere prima reclutato un manipolo di bravi (spesso anch’essi briganti) che li avrebbe protetti durante il percorso. Uno studioso francese, Marc Monnier, autore di una indagine sulla resistenza anti-piemontese, scrisse nel 1862 che il brigantaggio era favorito dalla «configurazione di un paese coperto di montagne» e dalla negligenza di un governo «che di quelle montagne non si dava cura, né vi apriva gallerie, né vi tagliava strade; vi hanno distretti interi per i quali non è ancora passata una carrozza: vi hanno sentieri che i muli non si arrischiano di percorrere». Nel Regno dei Borbone i briganti erano diventati un potere con cui le pubbliche autorità non esitarono, in molti casi, a concludere patti di convivenza. Quando approfittarono del disfacimento dello Stato borbonico per proseguire la loro attività su più larga scala, i briganti combatterono con lo stesso stile di cui davano prova nelle loro attività criminali: stragi, saccheggi, case incendiate e teste mozzate. E quello stile finì per condizionare quello dei bersaglieri del generale Cialdini. Queste e altre notizie, caro Vozza, sono in una ristampa del libro di Monnier pubblicata a Napoli cento anni dopo, nel 1965, da Arturo Berisio Editore. Aggiungo che la guerra del brigantaggio non fu soltanto una operazione di polizia. Per il giovane Stato nato a Torino nel 1861, fu anche e soprattutto una guerra per l’esistenza. A Roma i Borbone di Napoli e la corte papale finanziavano la resistenza e cercavano di dimostrare alla opinione pubblica internazionale che il Regno dei Savoia avrebbe avuto una vita breve. Molti Stati, fra cui la Spagna e la Russia, ritardarono il riconoscimento sino al giorno in cui fu evidente che l’Italia unitaria aveva superato la sua prima crisi e conquistato il suo posto nel concerto delle nazioni europee.

Sergio Romano

 

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GUERRA DEL BRIGANTAGGIO I SUOI «FOREIGN FIGHTERS»

29/12/2015 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

LETTERE A SERGIO ROMANO       Corriere della Sera 24 dicembre

 Nella copertina del libro di Alfio Caruso appena comparso in libreria Con l’Italia mai! (ed. Longanesi), vengono menzionati gli uomini che nel decennio dal 1860 al 1870 impugnarono le armi per difendere Pio IX. Non erano né mercenari né ladroni, ma principi, conti, marches, duchi, baroni e provenivano da Francia, Austria, Germania e Spagna. Li univa un forte sentimento cattolico e l’avversione nei confronti della nuova Italia che, a loro dire, era in mano alla massoneria. Ma questa versione non stride con il detto: «Principi, conti, marchesi, duchi, baroni, tutti massoni»?  Alessandro Prandi

Caro Prandi, non sempre i detti popolari rispecchiano la realtà. Vi furono certamente casi in cui la nobiltà laica e ghibellina fu attratta dalla massoneria, ma il piccolo drappello di conti, visconti e marchesi che arrivarono in Italia, dopo la spedizione di Garibaldi in Sicilia e l’occupazione piemontese del Sud, erano guelfi, devotamente cattolici, fieri paladini del connubio «trono e altare». La guerra del brigantaggio, come fu definita nell’Italia unitaria, ebbe caratteristiche che anticipano, con alcune ovvie differenze, la guerra civile spagnola. In Spagna, nel 1936, i volontari che combatterono nelle Brigate internazionali volevano fermare la «marea fascista» che stava dilagando in Europa. Nell’Italia meridionale, i nobili francesi e spagnoli erano «legittimisti», decisi a riscattare in Abruzzo e in Calabria le sconfitte subite da alcune dinastie europee dopo la rivoluzione francese. Altri, come Alfio Caruso ricorda nel suo libro, erano invece soldati di ventura, spesso appartenenti alle minoranze cattoliche di Stati protestanti. Altri ancora erano «papalini» italiani, convinti che l’unità della penisola potesse realizzarsi soltanto sotto la tiara del pontefice. Non sapevano, quando partirono, che non avrebbero combattuto soltanto con le formazioni disperse dell’esercito napoletano, ma anche con una accozzaglia di briganti e malfattori, spesso appena usciti dalle carceri del regno borbonico dopo il collasso delle sue istituzioni. La sorte peggiore fu quella di un ufficiale spagnolo, veterano delle forze carliste durante il conflitto dinastico che aveva diviso la Spagna venti anni prima. Credeva di trovare un popolo in armi e trovò soltanto briganti crudeli, affamati di bottino. Sperò di trasformare le bande del brigante Crocco (uno dei più crudeli) in un esercito di liberazione nazionale e fu tradito, privato delle armi, abbandonato nella mani dei piemontesi. Prima di essere fucilato, disse a un tenente italiano che se fosse riuscito a raggiungere Roma, dove l’ultimo re di Napoli viveva in esilio, gli avrebbe detto che i suoi difensori erano «miserabili e scellerati». Non tutti i «foreign fighters» furono passati per le armi. Un francese, il visconte di Noë, sbarcò a Messina con due amici (un conte e un secondo visconte) nel gennaio 1861, ma il piccolo gruppo fu catturato dall’esercito piemontese, tradotto di fronte a un tribunale militare garibaldino, custodito in fortezza a Palermo per qualche giorno e trasportato nel carcere militare di Torino per scontare la pena. Ma un provvidenziale intervento del console di Francia ottenne che i tre amici venissero espulsi. Noë raccontò la sua avventura in un piccolo libro (Trente jours à Messine)

Sergio Romano

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