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Lo scontro sul destino di Trieste

09/02/2022

Raoul Pupo racconta il dramma vissuto dalla città giuliana nel 1945 Le responsabilità del fascismo, il disegno annessionista della Jugoslavia

Antonio Carioti Corriere della Sera 9 febbraio 2022

Il Giorno del Ricordo, istituito per commemorare le vittime delle foibe e il dramma dell’esodo istrianodalmata, è una ricorrenza su cui grava l’ipoteca delle passioni di parte.

Anche la scelta del 10 febbraio si presta a qualche obiezione: non per la vicinanza al Giorno della Memoria riguardante la Shoah, a cui quest’altra celebrazione non ha mai fatto ombra, ma perché la data coincide con la firma del trattato di pace nel 1947. Se è vero che quell’atto segnò la perdita dei territori orientali dai quali gli italiani fuggirono in massa, è altresì innegabile che riportò il nostro Paese nell’ambito della comunità internazionale dopo la vergogna delle aggressioni fasciste.

Non è questo tuttavia il punto decisivo, ma il fatto che su quegli eventi terribilmente complessi abbondano le semplificazioni ideologiche. La destra postmissina, per non parlare di quella apertamente neofascista, coltiva una versione dei fatti avulsa dai precedenti e dal contesto storico, come se gli italiani al confine orientale fossero stati solo vittime e non anche, in precedenza, oppressori e aggressori. Ma c’è anche una sinistra che continua a giustificare l’azione violenta degli jugoslavi, considerata solo una rappresaglia per i torti subiti, e bolla il Giorno del Ricordo quale espressione di un aberrante «revisionismo di Stato» (così il critico d’arte Tomaso Montanari), del quale si sarebbero resi colpevoli perfino i presidenti Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.

In realtà proprio a Mattarella va dato atto di aver operato con accortezza per valorizzare ciò che ci unisce alle repubbliche ex jugoslave grazie al progetto europeista, al di là delle memorie divise, in particolare con il duplice omaggio reso alle vittime italiane delle foibe e a quelle slave della repressione fascista, insieme al presidente sloveno Borut Pahor, il 13 luglio 2020. Era il centenario di un evento tragico, l’incendio appiccato dai seguaci di Mussolini al Narodni Dom (Casa del popolo slava) nel 1920. E non poteva essere commemorato meglio.

L’insegnamento che ne discende è non rassegnarsi alla logica perversa che fa del Giorno del Ricordo l’occasione per riproporre antiche contrapposizioni o addirittura per imporre, come cerca di fare la destra più aggressiva, una versione canonica e indiscutibile degli eventi in chiave nazionalista e vittimista. Semmai bisogna fare il contrario: continuare la ricerca per indagare la tragedia nelle sue diverse sfaccettature, tenendo conto di tutti i punti di vista. Cogliere l’occasione offerta dal Giorno del Ricordo per diffondere sempre di più la conoscenza dei fatti.

Queste sono le ragioni che hanno indotto il «Corriere della Sera» a mandare in edicola, previo aggiornamento da parte dell’autore, uno dei frutti migliori prodotti dalla storiografia italiana sul problema dei conflitti al nostro confine orientale: Trieste ’45 di Raoul Pupo.

Un’analisi attenta e completa della crisi che la città giuliana si trovò a vivere dopo la sconfitta del nazifascismo, quando le truppe del leader comunista Josip Broz, detto Tito, presero il sopravvento e cercarono di imporre l’annessione alla Jugoslavia. La repressione fu molto dura e non colpì certo solo soggetti legati agli ex occupanti tedeschi. Furono gli stessi esponenti del Comitato di liberazione nazionale (Cln) triestino, dal quale si erano staccati i comunisti, che dovettero tornare in clandestinità. Ed ebbero circa 160 caduti per mano jugoslava.

Pupo rievoca con grande efficacia quei giorni drammatici, durante i quali la capacità d’influenza del governo italiano era ridotta ai minimi termini per via della condizione di Paese aggressore e sconfitto in cui ci aveva relegato la politica scellerata di Mussolini. Per fortuna la preoccupazione anglo-americana per l’espansione del movimento comunista internazionale in Londra e Washington a contrastare il disegno di Belgrado con la necessaria fermezza.

Alla fine Iosif Stalin, che preferiva evitare guai in quella fase delicata, intimò a Tito di rassegnarsi con un eloquente telegramma: «Entro 48 ore dovete ritirare le vostre truppe da Trieste, perché non ho intenzione di iniziare la terza guerra mondiale a causa della questione triestina». All’epoca — siamo nel giugno 1945 — gli jugoslavi erano ancora ligi alle direttive del Cremlino, ma in quella vicenda possiamo individuare i germi della successiva rottura tra Mosca e Belgrado. Il Partito comunista italiano, che sulla crisi giuliana era in estremo imbarazzo per via dell’appoggio sovietico alle rivendicazioni jugoslave, poté tirare un sospiro di sollievo.

Trieste era salva e nel 1954, dopo alterne vicende, sarebbe tornata all’Italia. Ma i giorni dell’occupazione jugoslava erano stati molto duri e la Venezia Giulia sarebbe passata quasi tutta sotto Belgrado, con il conseguente esodo degli istriano-dalmati dalle loro terre e lo spopolamento di interi centri abitati. Il punto fondamentale sottolineato da Pupo, tuttora eluso da coloro che contestano il Giorno del Ricordo, è «il ruolo fondante della violenza di massa nella costruzione e nel consolidamento del regime jugoslavo». Non siamo di fronte a una semplice ritorsione, ma all’attuazione di un progetto politico annessionista e totalitario.

Sorto da una guerra di liberazione asprissima e vittoriosa, il nuovo potere jugoslavo ne aveva introiettato la carica di brutalità e la riversò nell’abbattimento di ogni ostacolo che gli si opponesse. E la grande maggioranza della popolazione italiana in Venezia Giulia, per i suoi legami con un altro Paese (per giunta collocato nella sfera d’influenza occidentale), costituiva uno di questi ostacoli.

Chiarito tutto ciò, il libro di Pupo ci aiuta a comprendere la necessità «di muoversi senza chiusure mentali all’interno dei diversi contesti nei quali si sono di volta in volta inserite le vicende di un territorio fortemente plurale». Il Giorno del Ricordo ha senso se lo si celebra senza scadimenti nazionalisti, nello spirito di riconciliazione su cui è stato costruito il processo d’integrazione europea. Non è facile, perché certe ferite lasciano il segno. Ma ci si può riuscire, come dimostra il lavoro di Pupo.

 

26 ottobre 1954 l’Italia ritorna a Trieste.

 

Pubblicato in: Rassegna stampa
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