La Festa de l’Unità di Firenze ospiterà la mostra curata dall’Istituto Gramsci Toscano
dal 29 agosto al 13 settembre 2015
Cinquanta prime pagine storiche de l’Unità, 20 dedicate a fatti avvenuti a Firenze e altre 30 testimonianza di eventi che hanno cambiato la storia dell’Italia e del Mondo. Sono quelle che l’Istituto Gramsci Toscano ha deciso di mettere in mostra in occasione della Festa de l’Unità di Firenze andandole a recuperare dallo straordinario archivio di cui dispone e che raccoglie la collezione pressoché integrale di tutte le copie del quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel 1924.
“Lo scorso anno – spiega la presidente dell’Istituto Marta Rapallini – le Feste del PD sono tornate a chiamarsi de l’Unità proprio quando il giornale, purtroppo, ha cessato le sue pubblicazioni. E così, dopo aver messo in mostra nel 2014 i manifesti di tutte le Feste de l’Unità alle Cascine, quest’anno, col ritorno in edicola dopo 11 mesi di assenza, organizzare uno stand con alcune tra le prime pagine che hanno fatto la storia del quotidiano ma anche del giornalismo in Italia ci sembrava il modo giusto per ridare centralità proprio al giornale”
E così dalla Liberazione di Firenze al Social Forum, dall’omicidio di Aldo Moro a quello di Falcone, dalla morte di Stalin a quella di Berlinguer, dalla nascita del PD all’elezione di Napolitano, dall’intervista a Castro alla caduta del Muro di Berlino, nello stand dell’Istituto Gramsci Toscano (che sarà posizionato simbolicamente a fianco della Direzione della Festa) sarà possibile ripercorrere gli oltre 91 anni de l’Unità attraverso titoli e immagini che dimostrano anche quanto e come il modo di fare giornalismo sia mutato nel tempo.
“Non è stato facile fare una selezione, perché tante di più sarebbero state le prime pagine meritevoli di essere messe in mostra – prosegue Rapallini – ma siamo convinti di essere riusciti a raccontare non solo simbolicamente oltre 90 anni di storia della nostra città, del nostro Paese e degli eventi che hanno fatto la storia del mondo. Il nostro però non è un contributo solo rivolto al passato e fino al termine della Festa apriremo il nostro spazio al confronto, al dibattito e alla possibilità per tutti di lasciare la loro idea, la loro impressione o il loro suggerimento su cosa e come vorrebbero l’Unità del presente e del futuro”.
NOVANT’ANNI DI STORIA:
Perché amare l’Italia è diventato difficile
C’è stata la complicità, o comunque l’inerzia rivelatasi dissennata, di un ceto dirigente poco lungimirante
Belardelli Giovanni Corriere della Sera 20 agosto
Ma gli italiani amano l’Italia? Alla fine, di fronte alle immagini che regolarmente mostrano inondazioni, crolli, fiumi di fango e spesso, purtroppo, anche morti, è questo l’interrogativo che non può non affacciarsi. Dietro a queste catastrofi, dietro alle ferite inferte al territorio, infatti, compare quasi sempre l’azione umana, di noi che abitiamo questo Paese ma mostriamo con i nostri comportamenti di non amarlo: fino al punto di costruire. certo non tutti, ma molti sì, sulle zone golenali dei fiumi o perfino sul loro letto, di edificare ovunque, addirittura in prossimità di un vulcano ancora attivo come il Vesuvio. Indifferenti alle conseguenze per il territorio e soltanto preoccupati del nostro particolare vantaggio, in troppi abbiamo abusato di tutto l’abusabile e poi condonato tutto il condonabile. Nella complicità o nell’inerzia di un ceto politico locale e nazionale che, fatte le debite differenze tra chi ha varato condoni e chi no, non se l’è mai sentita di contrastare un uso dissennato del territorio diventato da decenni un costume di massa.
«Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder!/ Trema in petto e si confonde/ l’alma oppressa dal piacer». I versi scritti nel 1800 da Vincenzo Monti, che tornava in Lombardia dopo che Napoleone aveva sconfitto gli austriaci a Marengo, sono un esempio dell’amore per l’Italia che sarebbe poi stato comune alle generazioni del Risorgimento, ma anche forse dei suoi limiti; dei motivi, cioè, per i quali quel sentimento doveva faticare a diventare davvero di massa. Era un amore per l’Italia in cui il dato culturale, anzitutto il senso della grandezza passata (la Roma antica, le libertà comunali), e retorico faceva premio sull’attaccamento al territorio concreto. Si trattava comunque di un sentimento che doveva restare a lungo estraneo alle classi popolari: Emilio Sereni, un dirigente del Pci che fu anche studioso del mondo contadino, scrisse che, pur avendo girato molti Paesi, in nessuno aveva mai udito l’espressione che tante volte aveva sentito ripetere da ragazzo: «Porca Italia! Porca Italia! È il solo Paese che io conosca, l’Italia, dove esiste una bestemmia del genere». Sereni si riferiva a un secolo fa e dopo di allora il rapporto tra gli italiani e il loro Paese non è certo rimasto lo stesso. Si osserva di solito che la maggioranza dell’opinione pubblica aveva e ha poca familiarità con l’Italia-nazione ma amava e ama, invece, l’Italia intesa come la città o il borgo in cui ciascuno è nato o vive. In realtà la sterminata serie di abusi sul territorio compiuti negli ultimi decenni spesso ha avuto luogo proprio dove si è nati e cresciuti. «Volti le spalle e già è nato un palazzo bruttissimo che opprime una strada, rovina il paesaggio, ti distrai un momento e altri dieci piani abusivi si aggiungono al grattacielo, insomma ti pare di stare nella giungla, le case nascono come la vegetazione tropicale a caso e senza una idea, e presto Napoli ne sarà sommersa». Lo scriveva Raffaele La Capria in Ferito a morte , nel 1961, dunque nel pieno di quel «miracolo economico» che doveva permettere a milioni di italiani di uscire dal mondo della penuria per acquisire i consumi e le abitudini di vita propri di un Paese moderno. Il benessere che allora cominciò a diffondersi si fondava su molti fattori: la congiuntura internazionale favorevole, i bassi salari, l’impegno e la capacità di iniziativa di imprenditori e lavoratori. Ma si fondava, e si sarebbe fondato nei decenni seguenti, anche su fattori molto poco virtuosi: un’espansione della spesa pubblica finanziata con soldi che non avevamo (dunque a carico delle nuove generazioni) e un uso selvaggio del territorio. Poche cose come un abusivismo edilizio di massa rappresentarono per milioni di famiglie l’occasione di un rapido e facile, anche per la complicità del ceto politico, accrescimento del proprio patrimonio e della propria qualità della vita, magari nella forma della casa al mare. Per quanto meno evidente dell’enorme debito pubblico, si è trattato anche in questo caso di un «debito»: il debito verso un’Italia poco amata nelle sue coste, nei suoi fiumi, come territorio concreto insomma. I continui disastri «pseudonaturali» ai quali assistiamo ci dicono che anche con questo debito siamo ormai chiamati a fare i conti davvero.
Renato Serra ed il fascino della “guerra inutile”
Antonio Carioti Corriere della sera 24 agosto
Nel marzo del 1915 Renato Serra definiva la prima guerra mondiale nella quale l’Italia sarebbe presto entrata, una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile.
Non pensava affatto che la storia d’Europa potesse uscirne modificata essenzialmente: al termine dello scontro, scriveva non sarà cambiato lo spirito della nostra civiltà.
Né tantomeno lo studioso cesenate, nato nel 1884, riteneva che il conflitto potesse correggere il tratto dominante del carattere nazionale italiano, la vitalità del branco, attaccato alla sua terra, alle sue cupidigie, al suo lavoro e al suo dolore. Insomma, sarebbe rimasta intatta la quasi animalità sorda e irriducibile con cui i nostri connazionali perseguivano i loro interessi particolaristici.
Eppure, in una missiva indirizzata alla amico Giuseppe dopo aver proclamato che la guerra non cambia niente, il suo Esame di coscienza di letterato incluso con altri scritti e lettere nel volume Tra le nuvole e la luna fresca a cura di Luigi Bonanate ( Aragno) si conclude celebrando la passione di andare insieme, di marciare con altri uomini in divisa affratellati da un destino solo.
Più tardi, in una missiva indirizzata all’amico Giuseppe De Robertis poco dopo l’inizio dell’ostilità, il 9 giugno 1915, ora inclusa nella raccolta Lettere dal Fronte (Elliot) con un’introduzione di Massimo Onofri, Serra affermava che gli italiani, al termine della prova, avrebbero dovuto riprendere la loro storia fondandola su un principio che è la prima condizione della forza e della fortuna: il rispetto della verità.
Non sarebbe stato così, ma Serra ucciso poco dopo sul Podgora, il 20 luglio 1915, dal fuoco austro- ungarico, non avrebbe potuto constatarlo.
Certo, colpisce sempre il fascino sottile, ma possente, che la guerra esercita anche sulle anime più sensibili, aliene dalla retorica bellicista.
UTOPIA E AZIONE
per una storia dell’anarchismo in Italia
(1848-1984)
Autore Antonio Senta
prefazione Claudio Venza
Edizioni Elèuthera
Anno 2015
Pag. 256 ill.
Euro € 15,00
Dai moti del 1848 al neo-anarchismo post-’68, Senta delinea un’originale storia dell’anarchismo italiano che intreccia la grande Storia con le innumerevoli piccole storie di donne e uomini che hanno dato consistenza reale a quel cocktail unico di libertà e uguaglianza che è l’idea anarchica. Grazie a una narrazione serrata e avvincente, partecipiamo in diretta al fluire tumultuoso degli eventi che attraversano, influenzano e spesso modificano la storia d’Italia. Se non mancano i personaggi più noti, questa è soprattutto la storia corale dei tanti anonimi protagonisti che sono stati la carne viva del movimento italiano, la storia degli ideali politici e delle passioni umane che hanno messo in moto generazioni di militanti. Ne viene fuori la ricchezza di un’idea intrinsecamente plurale, sperimentale e antidogmatica che attraverso la storia si fa movimento concreto in una dimensione che lungi dall’essere solo politica è anche e soprattutto sociale ed etica.
La Storia altro non è che lo sforzo disperato degli esseri umani di dar corpo al più chiaroveggente dei propri sogni.
Albert Camus
Se gli anarchici non se ne curano, la storia la faranno i loro nemici. Gaetano Salvemini
Le strade dell’anarchia non s’incrociano con la politica
…. Proprio il suo intransigente rigore rende però il movimento libertario poco incisivo sul piano politico, là dove la dimensione del potere, stringi stringi, non può essere elusa…In circa in un secolo di lotte, non ha funzionato l’appello alla spontaneità sovversiva delle masse, sin da quando il tentativo di Carlo Pisacane, progenitore dell’anarchismo italiano, fallì sotto i colpi dei contadini che avrebbe voluto far risorgere.
Mentre l’idea di creare un partito anarchico, cioè una struttura di potere dotata di classe dirigente stabile, è in evidente contraddizione, nota Claudio Venza nella prefazione del libro, con gli ideali del movimento…
Antonio Carioti Corriere della Sera 19 agosto
Il castello Pasquini
Castiglioncello, comune di Rosignano Marittimo.
Il Castello Pasquini viene edificato a partire dal 1889 dal Barone Lazzaro Patrone, spregiudicato imprenditore arricchitosi col commercio del guano sudamericano, sulla proprietà di Diego Martelli, costretto a vendere le sue tenute di Castiglioncello e di Castelnuovo della Misericordia per le disastrate condizioni economiche.
La costruzione, affidata ad una famiglia di Castelnuovo della Misericordia, i Luparini, dapprima ingloba poi cancella definitivamente la vecchia fattoria di Diego Martelli resa celebre da numerosi dipinti dei Macchiaioli della cosiddetta “Scuola di Castiglioncello” (si vedano a titolo di esempio le opere di Giuseppe Abbati, Castiglioncello e Odoardo Borrani, Orto a Castiglioncello).
Il nuovo pretenzioso edificio – che ha come riferimento Palazzo Vecchio – è caratterizzato dallo stile eclettico in voga nella Toscana dell’epoca, con forti richiami neo-gotici. La dominanza, anche simbolica, sul paese ancora in costruzione è accentuata da imponenti muri di terrazzamento e di cinta coronati da bastioni.
Insieme alla villa di Martelli vengono distrutti tutti gli edifici agricoli annessi oltreché le recinzioni e costruzioni che la circondavano, mentre gli adiacenti terreni agricoli vengono riconvertiti a parco secondo i gusti romantici dell’epoca per abbellire e proteggere la privacy della nuova residenza. All’imbocco del viale, lungo il muro di cinta, viene costruita l’abitazione del casiere, ad andamento curvilineo che richiama, nei merli che ne coronano la sommità, lo stile gotico della costruzione principale; all’interno del parco, vicino al Castello, sorge la cappella seminterrata a pianta circolare decorata in stile coppedè.
Lo stile del Castello Pasquini impronta anche altri edifici costruiti a Castiglioncello, a cominciare dalla stazione ferroviaria, del primo decennio del secolo, per la cui costruzione il Barone Patrone offrì i propri terreni a condizione che ricalcasse nello stile il Castello stesso e non compromettesse dunque, secondo le idee del proprietario, la vista della sua residenza la cui svettante torre dominava il promontorio.
Intralciato dai concittadini nei suoi ambiziosi propositi che prevedevano fra l’altro la costruzione di un ippodromo e di numerose infrastrutture per l’emergente elitario turismo che andava riempiendo di lussuose ville stile Liberty le scogliere del promontorio, il Barone Patrone cedette pian piano tutte le sue proprietà dislocate fra Castiglioncello e Castelnuovo, fino a vendere il Castello ed il parco nel 1938.
A lui succedettero altri proprietari, finché nella seconda metà degli anni ’40 il Castello diventa proprietà della famiglia Pasquini, di cui ancora conserva il nome, che operò significative modifiche soprattutto nel parco – con la realizzazione di un campo da tennis, di un bocciodromo e di una pista da ballo – che venne in parte compromesso nel carattere “selvaggio”, tipicamente romantico, che aveva improntato il giardino Patrone.
Agli inizi degli anni ’80 il Castello, in abbandono, viene acquistato dell’Amministrazione Comunale che lo adibisce a centro culturale, prevalentemente destinato a spettacoli, mostre e convegni..
Attualmente è sede di Armunia.
Armunia Festival Costa degli Etruschi nasce nel giugno del 1996 come associazione tra alcuni comuni della Provincia di Livorno e della Provincia di Pisa.
La sede è il Castello Pasquini di Castiglioncello (Livorno). Lo scopo dell’associazione è stato inizialmente quello di organizzare e gestire spettacoli e eventi culturali sul territorio.
La storia di Castiglioncello e del Castello Pasquini, come luogo di ospitalità di artisti e di produzioni culturali, imponeva all’Associazione il rispetto di una tradizione colta e insieme popolare: rispettare i “luoghi”, le loro identità e al tempo stesso aprirsi al nuovo, alla contemporaneità.
Fondamentale per Armunia è il rapporto di collaborazione con scuole e associazioni finalizzato non tanto alla ricerca immediata di un potenziale pubblico, ma, prevalentemente, alla necessità di radicare l’uso del linguaggio teatrale nella prassi quotidiana, dare enfasi alle numerose iniziative prodotte dalla fantasia autoctona e confrontarle, mescolandole, con la poetica degli interlocutori.
Appello ai meridionali e altri scritti
Autore Guido Dorso
Curatore Raffaello Molise
Post fazione Francesco Saverio Festa
Editore Aras di Fano
Anno 2015
Pag. 154
Prezzo Euro 11,00
Il 2 dicembre 1924 “La Rivoluzione Liberale” pubblica in prima pagina l’Appello ai Meridionali, redatto da Guido Dorso, e sottoscritto da tredici illustri meridionalisti. Da allora in poi la rivista “dedicherà ogni numero una pagina alla Vita meridionale, coi più importanti collaboratori”. L’Appello rappresenta non solo un invito agli intellettuali del Mezzogiorno a dar vita a una nuova élite politica, che possa risollevare le sorti delle genti meridionali, rinnovando al contempo le basi dell’unità nazionale, ma anche un prezioso documento che anticipa nelle intenzioni e nei contenuti le linee generali de La Rivoluzione Meridionale.
…Dorso si preoccupava della “formazione ed educazione che conquisti il governo per allargare le basi dello stato”. Dorso e gli altri firmatari erano convinti che la rivoluzione meridionale dovesse partire dai cenacoli intellettuali dove si formano i condottieri della insurrezione contadina.
Più che li punto d’arrivo era chiaro nel disegno dorsiano lo strumento la formazione di una èlite capace di interpretare le esigenze del Sud contadino, di attrarre le masse dei poveri che lavoravano nelle campagne, di lottare per la loro liberazione e di portarli dentro ad uno Stato che fino allora li aveva esclusi.
Per far questo, Dorso intendeva come Gobetti “legarsi alla grande tradizione liberale europea”, ispirata al decentramento e all’autonomia, i quali, tuttavia, rimanevano sullo sfondo dell’Appello…
Sabino Cassese Sole 24 Ore 9 agosto
Dórso Guido. – Scrittore politico italiano ( Avellino1892 – ivi 1947); deciso antifascista, in La Rivoluzione meridionale (1925) auspicò il rovesciamento del vecchio stato accentrato, e ravvisò nelle gravi deficienze delle classi dirigenti meridionali la ragione dell’arretratezza del Mezzogiorno; donde l’auspicio dell’ascesa di una classe dirigente nuova. Alla caduta del fascismo entrò nel Partito d’Azione, e diresse a Napoli il giornale Azione (giugno-dicembre 1945). Fra i suoi scritti: Benito Mussolini alla conquista del potere (pubbl. post. nel 1949).
AL TEMPO DI FIRENZE CAPITALE
i Tipografi, i Libri, i Velocipedi
Sala dei Consoli Biblioteca Palagio di Parte Guelfa Firenze
3 agosto – 31 agosto
Come ogni anno in agosto la biblioteca propone una mostra dal titolo che puntualmente ritorna, I MAI VISTI, facendo uscire dagli scaffali del Fondo Storico Biblioteca dell’Università Popolare i libri più rari, le curiosità, quei documenti che bene testimoniano una stagione culturale o un periodo storico.
In questo 2015 si celebrano i 150 anni di Firenze Capitale e allora per festeggiarli, come ci si deve aspettare da una biblioteca, siamo andati a ricercare nel Fondo Storico tutti i libri stampati
a Firenze fra il 1865 e il 1871. Una selezione dei documenti ritrovati, per stato di conservazione,
importanza o semplicemente per l’argomento trattato, viene presentata al pubblico in una vetrina
nella Sala dei Consoli dal 3 al 31 agosto 2015.
È successo poi che in Ugo Pesci, Firenze capitale (1865-1870) dagli appunti di un ex-cronista,
Firenze, R. Bemporad & Figlio, 1904 ci siamo imbattuti a pag. 368 nel seguente pezzo di
cronaca: «I ciclisti che, all’alba del secolo XX, credono di essere i precursori d’una nuova civiltà,
si rassegnino a sentirsi dire che nil sub sole novi. Nel 1869 i velocipedi erano di moda in Firenze
capitale, e quantunque le prescrizioni municipali relegassero i velocipedisti nei viali delle Cascine
e li obbligassero a fare i loro esercizi nelle sole ore mattutine […]».
Da libro a libro ecco che in Sergio Camerani, Cronache di Firenze capitale, Firenze, Leo S. Olschki,
1971 troviamo un capitolo a pag. 168 dal titolo Il velocipede dove si narra appunto
sindaco Ubaldino Peruzzi e dei suoi colleghi che si trovarono di fronte ad un avvenimento che
minacciava di sconvolgere la vita in città. Si trattava di regolamentare il traffico dei velocipedi. Si
legge poi anche di una corsa lunga, impegnativa, da Firenze a Pistoia, di Km 33, con partenza
alle 9 del mattino del 2 febbraio 1870 dal Ponte alle Mosse, che vede trionfare un giovane
americano, Van Hest Rymer. Ma meglio e di più di questa competizione su strada si può leggere
in Paolo Ciampi, La prima corsa del mondo, campioni e velocipedi nella Firenze capitale,
presentazione di Riccardo Nencini, Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2012.
Dai velocipedi tornando ai libri del Fondo della biblioteca, a quelli stampati a Firenze fra il 1865
e il 1871, si può dire che tante sono le sorprese ma anche tanti i nomi noti. Fra gli editori si
evidenziano per numero di pubblicazioni Barbera e Le Monnier. Fra gli autori troviamo Edmondo
De Amicis con La vita militare, bozzetti, Pietro Fanfani con il Vocabolario della lingua italiana,
Sidney Sonnino con Il suffragio universale in Italia e Pasquale Villari con Saggi di storia, di critica
e di politica. Questi e altre chicche per bibliofili, scelte per festeggiare anche i 750 anni dalla
nascita di Dante Alighieri, i visitatori potranno ammirare nella mostra dedicata a chi è rimasto
d’agosto in città.
Andrea Stoppioni
Biblioteca del Palagio di Parte Guelfa
Museo civico Giovanni Fattori
Villa Mimbelli Via S. Jacopo in Acquaviva Livorno
Il Museo civico Giovanni Fattori è una struttura museale di Livorno; ha sede nella suggestiva cornice di Villa Mimbelli ed è stato inaugurato nel 1994 alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Il museo ospita una ricca raccolta di dipinti di Giovanni Fattori e di altri macchiaioli e postmacchiaioli; sono presenti anche opere di altre epoche, come una Crocifissione di Neri di Bicci (XV secolo)).
Le origini del museo risalgono al 1877, quando l’amministrazione comunale istituì una pinacoteca dove furono raccolti dipinti di artisti quali Giovanni Fattori, Enrico Pollastrini e Cesare Bartolena.[1] Successivamente furono acquisite opere di Raffaello Gambogi, Silvestro Lega, Guglielmo Micheli, Adolfo Tommasi, Enrico Banti ed altri.
Nel 1896 fu inaugurata la nuova e più ampia sede in piazza Guerrazzi. All’inizio degli anni trenta del XX secolo il museo fu intitolato a Giovanni Fattori.
Durante la guerra la raccolta fu trasferita fuori dalla città. Al termine del conflitto una parte della raccolta fu collocata al secondo piano della Villa Fabbricotti ed il resto fu dislocato nei vari uffici e magazzini comunali.
Nel 1994 il museo fu trasferito nella Villa Mimbelli.
Pian terreno
Il piano terreno di Villa Mimbelli ospita la biglietteria e alcuni locali adibiti alla presentazione di eventi culturali.
Primo piano
Mediante una scala monumentale, ornata con putti ispirati all’opera di Luca della Robbia, si accede al primo piano, dove si aprono le varie sale:
- Sala postmacchiaoli: opere di Oscar Ghiglia, Giovanni Bartolena e un dipinto attribuito ad Amedeo Modigliani (Stradina Toscana);
- Sala Guglielmo Micheli: opere di Gugliemo Micheli, allievo del Fattori e maestro di Modigliani;
- Sala Ulvi Liegi: opere del pittore livornese Ulvi Liegi, realizzate tra gli anni 20 e 30 del Novecento;
- Sala degli specchi: affrescata da Annibale Gatti con personaggi della letteratura italiana;
- Salottino giallo: affrescata dal medesimo Gatti;
- Sala nera: sala da fumo con decorazioni in ebano e avorio;
- Sala dipinto “Incipit nova aetas”: presenta un unico dipinto di Plinio Nomellini, intitolato Incipit nova aetas (408 cm x 310 cm), che rappresenta l’arrivo delle camicie nere a Firenze.
Secondo piano
Il secondo piano della villa ospita le opere di Giovanni Fattori e di altri artisti:
- Sale Fattori: sono tre sale dove si possono ammirare ad esempio l’Assalto a Madonna della Scoperta (1868), la Carica di Cavalleria a Montebello (1862), Mandrie Maremmane (1893), Campagna romana (1896), La signora Martelli a Castiglioncello (1867) e la Torre Rossa (1875);
- Sala Macchiaioli: opere di Silvestro Lega, Telemaco Signorini, Cristiano Banti, Serafino De Tivoli, Vincenzo Cabianca, Giovanni Boldini;
- Sale Tommasi: sono due sale in cui sono collocati i dipinti dei fratelli Tommasi (Angelo, adolfo e Ludovico);
- Sala dei ritratti: opere di Vittorio Corcos e Michele Gordigiani;
- Sala Postmacchiaioli e Divisionisti: dipinti di Eugenio Cecconi, Raffaello Gambogi, Vittore Grubicy De Dragon e Benvenuto Benvenuti.
- Sala Plinio Nomellini: opere di Plinio Nomellini, tra i massimi esponenti del divisionismo italiano e allievo dello stesso Fattori.
Ex granai
Negli adiacenti granai della villa si tengono invece esposizioni temporanee, tra le quali occorre segnalare una grande mostra allestita tra il 22 aprile ed il 6 luglio 2008, nel centenario della morte di Fattori, dal titolo Giovanni Fattori tra epopea e mito.
Contatti:
Tel: 0586 808001 – 824620
E-mail: museofattori@comune.livorno.it
Sito web Museo Fattori: http://pegaso.comune.livorno.it
Orario:
Apertura: dal Martedì alla Domenica 10:00-13:00; 16:00-19:00.
Chiusura: tutti i Lunedì, Capodanno, Pasqua, 1 Maggio, Ferragosto, Natale.
SCONTO LIVORNO CARD:
- Ingresso gratuito
Il Mart e la storia trascurata
Una mostra sulla Grande Guerra ne ignora il contesto e la rende incomprensibile
Giovanni Belardelli Corriere della Sera 12 agosto
Saltiamo i preamboli. La mostra allestita al Mart di Rovereto per il centenario della Grande guerra (La guerra che verrà non è la prima 1914-2014, fino al prossimo 20 settembre) rappresenta un esempio difficilmente eguagliabile di disprezzo per la storia. Non vedo come si possa definire altrimenti, infatti, un allestimento che esplicitamente punta a una radicale decontestualizzazione dell’avvenimento che sostiene di voler ricordare. Una decontestualizzazione ottenuta attraverso due precise scelte espositive.
La prima ha a che fare con l’assenza di ogni scheda o supporto illustrativo che spieghi al visitatore cosa esattamente ha di fronte. Così i tanti materiali, pur interessanti, che sono esposti rischiano di scivolare via nell’indifferenza di chi guarda. Ad esempio, ci sono delle cartoline scritte dai soldati al fronte; ma nulla che ricordi quale gigantesca occasione di scrittura collettiva la guerra abbia rappresentato per il Paese. Tanto che solo allora, ha osservato Tullio De Mauro, nacque finalmente un italiano popolare unitario. Ci sono documenti e testimonianze sui giovani ufficiali caduti, prodotti dalle famiglie come estrema forma di ricordo. Ma nulla troviamo qui che indichi come una documentazione del genere stia a testimoniare dei sentimenti patriottici di gran parte della gioventù borghese dell’epoca, disposta per essi a sacrificare la propria vita. Senza riferimenti del genere, anche le tante opere futuriste esposte – come Guerra-festa di Depero – finiscono con l’apparire semplicemente insensate.
Di esempi analoghi se ne potrebbero fornire a dozzine. Ma il punto è sempre lo stesso: non v’è nulla che spieghi ciò che la guerra rappresentò allora per i contemporanei. E non vi è perché la mostra vuole soprattutto illustrare ciò che – secondo i suoi ideatori – deve rappresentare invece per noi: un avvenimento privo di qualunque significato che non sia il suo orrore, e dal quale perciò possiamo solo (anzi dobbiamo) prendere le distanze, come invita a fare la direttrice del Mart nella presentazione al catalogo.
Questa decontestualizzazione è poi moltiplicata attraverso l’altra scelta espositiva di cui dicevo: quella di inserire tra i materiali riferiti alla Grande guerra molte opere di artisti contemporanei (contemporanei a noi): si tratta di quadri, foto, video, installazioni varie riguardanti i conflitti degli ultimi decenni (dal Vietnam all’Afganistan, dalle guerre mediorientali al Kosovo) o di denuncia della guerra in generale.
La conoscenza degli avvenimenti del passato – si tratti della Grande guerra come di qualunque altra cosa, dal suffragio universale all’introduzione dell’acqua corrente nelle case – esiste solo in relazione al contesto storico specifico. Qui invece, nell’esposizione del Mart, la Prima guerra mondiale è radicalmente separata dal proprio tempo; ciò che interessa è infatti altro. È che il visitatore fruisca dei documenti esposti in un modo immediato (cioè non mediato da informazioni riferite a quel momento storico preciso), in una forma prevalentemente emotiva e inevitabilmente ideologica. Scopo precipuo della mostra, leggiamo nel catalogo, è infatti quello di denunciare l’«orrore di ogni guerra», a favore di un «messaggio di pace e fratellanza». Ottimi propositi naturalmente, ma in un altro ambito; non in quello di una mostra che dovrebbe ricordare uno dei più grandi e tragici avvenimenti del secolo scorso, ma finisce invece per renderlo incomprensibile. Una volta presentato quel conflitto come una tappa del grande fenomeno negativo della guerra, «di ogni guerra», diventa infatti difficile riconoscere pienamente le sue specificità, ciò che ne ha fatto un avvenimento in grado di cambiare radicalmente il corso della storia europea e mondiale. Specificità rispetto ai conflitti precedenti, caratterizzati da quelle battaglie decisive che invece i generali del 1914-18 attesero invano per anni. Ma anche specificità rispetto alle guerre del futuro e in particolare a quelle di fine 900. Da questo punto di vista il continuo riferimento alla guerra del Vietnam presente nella mostra risulta particolarmente fuorviante: per i caratteri peculiari di un conflitto che opponeva il più potente esercito del mondo alle formazioni vietcong, ma anche per la forte opposizione alla guerra dell’opinione pubblica americana.
In questo modo, nonostante tutta la retorica sulla memoria alla quale anche i promotori della mostra fanno ricorso, la realtà storica della prima guerra mondiale e delle sue conseguenze (tra le quali, sia detto per inciso, il Trentino – sede del Mart – divenuto italiano) finisce per svanire, tra un ritratto della first lady Patricia Nixon e un filmato di Werner Herzog sulla prima guerra del Golfo.
Museo di Palazzo Pretorio
Il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena nel 1788 espresse l’intento di creare una scuola del gusto per i futuri artisti, che sfociò nella creazione nel1858 di una prima collezione ospitata inizialmente nel vicino Palazzo Comunale.
Aperto nel 1912 nelle stanze di Palazzo Pretorio, il Museo raccoglie molte opere d’arte che spaziano dal Medioevo all’Ottocento. Fra queste vanno ricordati alcuni polittici (fra cui quello del Duomo, di Bernardo Daddi) con le Storie della Cintola, di Giovanni da Milano e Lorenzo Monaco, diverse opere di Filippo e Filippino Lippi.
Di quest’ultimo è conservato anche il famosoaffresco del Tabernacolo del Canto al Mercatale, che si trovava addossato alla casa natale del pittore: gravemente danneggiato durante un bombardamento nel 1944, fu recuperato e incredibilmente restaurato da Leonetto Tintori. Sono presenti inoltre una maiolica policroma dello scultore fiorentino Benedetto Buglioni ed opere di Andrea della Robbia e Benedetto da Maiano.
Nel museo figurano inoltre opere di Luca Signorelli, della bottega di Botticelli e di molti artisti toscani del XVI secolo. Appartenenti al barocco sono presenti opere di scuola romana, napoletana (come uno splendido Noli me tangere di Battistello Caracciolo), varie nature morte del Settecento, e un interessante Annunciazione di GianDomenico Ferretti.
Da non dimenticare infine i modelli originali in alabastro e gesso del vaianese Lorenzo Bartolini, tra cui quella della celebre Fiducia in dio del 1835, conservata al Museo Poldi Pezzoli di Milano.
A causa del restauro, iniziato nel marzo 1998 e terminato solo nel 2013, parte delle opere sono esposte nei locali del Museo di Pittura Murale, sito nei locali attigui alla chiesa di San Domenico.
Con l’inaugurazione della grande mostra Da Donatello a Lippi. Officina Pratese il museo riapre al pubblico nel settembre 2013.
Orari e tariffe
Aperto tutti i giorni (eccetto il martedì non festivo) con orario continuato dalle 10.30 alle 18.30. Chiuso per la festività di Natale.
La biglietteria chiude alle 18
Informazioni e prenotazioni
tel. 0574 19349961
dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle ore 18:00;
sabato dalle ore 9.00 alle ore 14:00
museo.palazzopretorio@comune.prato.it
tour@coopculture.it (per i gruppi)
edu@coopculture.it (per le scuole)
Biglietti di ingresso
Intero / Full price
€ 8
• singoli 19-65 anni / 19-65 years old
• gruppi prenotati nel week-end salvo riduzioni di legge / booked groups at the week-end
Ridotto / Concessions
€ 6
• residenti nel comune di Prato / citizens living within the district of Prato
• over 65 / over 65 years old
• Soci Unicoop Firenze / Florence Unicoop members
• Possessori tessera 2015 Touring Club / Touring Club members
• Possessori tessera 2015 Fai / Fai members
• insegnanti in attività / teachers
• forze dell’ordine / soldiers
• gruppi prenotati dal lunedì al venerdì / booked groups from Monday to Friday
Ridotto / Concessions
€ 4
• ragazzi dai 7 ai 18 / 7-18 years old
• studenti fino a 26 anni / under 26 years old students
• scuole fuori Prato / schools outside Prato
Gratuito / Free entrance
• bambini da 0 a 6 anni / 0 – 6 years old
• giornalisti accreditati / journalists
• soci ICOM e ICCROM / ICOM and ICCROM card
• guide e accompagnatori turistici Regione Toscana / tour guides and escorts of Reg. Toscana
• disabili e invalidi + 1 accompagnatore / visitors with disability + 1 escort
• 1 accompagnatore ogni 10 alunni (per scuole) / 1 teacher every 10 students (schools)