BUONA PASQUA
ALL’ITALIA E AGLI ITALIANI
COMITATO FIORENTINO PER IL RISORGIMENTO
Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.
BUONA PASQUA
ALL’ITALIA E AGLI ITALIANI
COMITATO FIORENTINO PER IL RISORGIMENTO
Corriere Fiorentino 9 Aprile 2020
Paolo Armaroli
Oggi il Corriere della Sera regala ai suoi lettori il Tricolore, la nostra bandiera nazionale. Se ne avvertiva il bisogno. Perché, perfino in questi tempi poco allegri, il simbolo della nostra unità nazionale si vede pochino alle finestre. Salvo che negli edifici pubblici, una rarità in quelli privati. Nel mio piccolo, ho una spiegazione paradossale. La nostra bandiera è repubblicana perché nella banda centrale non ha alcuno stemma. Così volle l’Assemblea costituente. E il presidente della commissione dei Settantacinque, Meuccio Ruini, tagliò corto: «La Commissione si pronuncia intanto pel tricolore puro e schietto, semplice e nudo, quale fu alle origini e lo evocò e lo baciò, cinquant’anni fa, il Carducci; e così deve essere la bandiera dell’Italia repubblicana». E allora vorrà dire che, non vedendo lo stemma sabaudo, i monarchici, tornati in maggioranza, si rifiutano di esporre una bandiera per l’appunto «semplice e nuda». Una bella rivincita rispetto al referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
Come si sa, il Tricolore sventola per la prima volta a Reggio Emilia, ai tempi della Repubblica cisalpina, il 7 gennaio 1797. Dove il verde sostituisce il blu francese. E nel corso della XIII legislatura repubblicana si stabilì con legge, approvata anche con il voto di chi scrive, che il 7 gennaio, a distanza esatta di due secoli, fosse la festa della Bandiera. Una festa, a dire il vero, onorata appena appena. Come quella donna incinta, ma appena appena. Basterà ricordare che qualche anno fa si pensò di portare per le vie di Reggio l’enorme bandiera cucita a Modena. Lunga, manco a dirlo, 1.797 metri. Alla presenza del Capo dello Stato. Orbene, si dovette tagliare un pezzo del Tricolore perché non si trovarono braccia sufficienti a sorreggere la Bandiera. Nonostante che Reggio Emilia non sia un borgo popolato da una manciata di anime.
Per fortuna, non sempre le cose sono andate così. Nel 1861, nell’anno dell’Unità d’Italia, Odoardo Borrani, un pisano morto per sua disgrazia a Firenze, dipinse un meraviglioso quadro, che potete vedere in questa pagina, dal titolo «26 aprile 1859».* Cioè il giorno prima della partenza da Firenze del granduca Leopoldo II di Lorena per non farvi più ritorno. Il quadro raffigura una donna che, alla luce di una finestra, cuce con intelletto d’amore il Tricolore. La nostra bandiera poi, dopo Reggio Emilia, ricompare a Torino nel 1848. Alla vigilia della prima guerra d’indipendenza. E la cosa ha davvero dello straordinario. Difatti l’articolo 77 dello Statuto albertino così stabiliva: «Lo Stato conserva la sua bandiera: la coccarda azzurra è la sola nazionale». Fatto sta che questa norma rimase sulla carta. Infatti in forza del successivo articolo 82, lo Statuto sarebbe entrato in vigore dal giorno della prima riunione delle due Camere. Cioè l’8 maggio. Ma nel frattempo maiora premunt.
Vale la pena riportare un passo del «Commento allo Statuto del Regno» di Racioppi e Brunelli, che rievocano la storica scena che si svolse a Torino la sera del 23 marzo 1848 davanti alla reggia. Con una popolazione in delirio per la notizia delle vittoriose «Cinque giornate di Milano». «A mezzanotte decisa la guerra, il Re stesso presentasi al verone per darne l’annunzio al suo popolo: non può essere udito da tutta la moltitudine: egli allora con un lampo felicissimo di genio comunica la desiata notizia sventolando sul suo capo la fascia tricolore che l’inviato lombardo cingeva ai suoi fianchi». E ancora: «Il simbolo rivoluzionario, il simbolo nazionale, il simbolo proscritto dallo Statuto venti giorni prima, diveniva, in pugno del Re di Piemonte, pegno, vincolo e promessa di una non mentita alleanza con le aspirazioni di tutta la penisola».
A riprova che ex facto oritur ius, l’11 aprile Carlo Alberto dal campo di Volta Mantovana emanava un decreto del seguente tenore: «Le nostre navi da guerra e le navi della nostra marina mercantile inalbereranno qual bandiera nazionale la bandiera tricolore italiana (verde, bianco e rosso) collo scudo di Savoia al centro. Lo scudo sarà sormontato da una corona per le navi da guerra». Un 23 marzo 1848 che, dopo tante tribolazioni, anticipa il 17 marzo 1861, giorno dell’Unità d’Italia. Il Tricolore in tutti questi anni ci ha accompagnato nella buona e nella cattiva sorte, in guerra e in pace. A proposito, c’è ancora l’uso d’issare la Bandiera sugli edifici appena costruiti? Ma sembrano lontani anni luce i tempi in cui le donne si facevano un punto d’onore, come nello splendido e toccante quadro di Borrani, di cucire il Tricolore e di esporlo nel salotto buono. E ai balconi nelle feste comandate.
Sì, lontano anni luce. Sarà per questo che il mio amico Dino Cofrancesco, un autorevole storico delle dottrine politiche dalle idee chiare, sostiene che noi italiani abbiamo tante eccellenze per compensare la fossa delle Marianne che ci fa sfigurare agli occhi del mondo. E già, perché ci sono gl’italiani, degni di questo nome, e gli apolidi, come li definiva Indro Montanelli. Senza radici, senza futuro, immersi in un presente in bianco e nero. Dei contemporanei, per dirla con Ugo Ojetti. E nulla più.
* Il quadro di Odoardo Borrani, uno degli esponenti dei Macchiaioli, rappresenta una donna intenta a cucire il tricolore italiano il 26 Aprile 1859 a Firenze, ossia il giorno prima dei moti di rivolta dei Fiorentini che portarono alla caduta della monarchia del granduca Leopoldo II di Toscana e alla richiesta dei Toscani di unirsi al regno di Sardegna l’anno successivo
Corriere della Sera 7 Aprile 2020
Alessio Ribaudo
Tributare un omaggio all’impegno quotidiano che l’Italia e gli italiani stanno profondendo nella lotta contro l’emergenza coronavirus.
Allo spirito resiliente che anima chi è da mesi in prima linea: medici, infermieri, operatori sanitari e di Protezione civile. Accendendo i fari anche sui cittadini che, seguendo le regole imposte e facendo ogni giorno la propria parte, contribuiscono alla riduzione dei contagi.
A tutte queste persone è dedicata «Il nostro Tricolore», un’opera unica in cartoncino plastificato, firmata da due grandi artisti contemporanei, Armando Milani e Ugo Nespolo che, dopodomani, sarà in edicola gratuitamente con il quotidiano.
«Il Corriere con questa opera vuole celebrare la forza, l’orgoglio, l’impegno e il talento con cui l’italia e gli italiani stanno affrontando i giorni del coronavirus — dice il direttore Luciano Fontana — e il nostro quotidiano da 144 anni racconta ogni giorno con serietà e passione l’italia e gli italiani. In questo delicato momento storico vogliamo ringraziare i nostri concittadini e trasmettere la nostra vicinanza a tutte le persone, dai medici ai commessi, dagli operai ai camionisti ai ricercatori, che in un periodo così difficile sono in prima linea e ci permettono di guardare all’oggi e al futuro con fiducia».
L’iniziativa, in collaborazione con Unicredit, vede da una parte la bandiera italiana interpretata da Ugo Nespolo e, sul lato opposto, una reinterpretazione della «Colomba» di Armando Milani.
«Quando ho concepito “Presto tutti insieme” ho pensato che il Tricolore potesse essere un simbolo di gente unita, di volti insieme, di popolo e di affetto — spiega Ugo Nespolo, fra i più apprezzati pittori contemporanei —. Gente che sta insieme e vuole stare vicino come in un grande concerto. Vuole essere anche un augurio a poterci abbracciare presto come prima. Niente retorica, please! Solo quello che l’articolo 12 della Costituzione recita: “verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”. Gli stessi colori di cui Orio Vergani per la vittoria di Bartali al Tour de France del 1948 e del suo berretto tricolore poteva dire: “bianco, rosso, verde che per tante tappe gli era parso una cosa triste, segno di sconfitta, bandiera da ripiegare, che un giorno rappresentò uno scatto d’orgoglio”».
Armando Milani ha reinterpretato la sua «Colomba», creata nel 2003 per le Nazioni Unite. «Quella distruggeva la guerra per portare la pace mentre questa indossa una mascherina — dice Milani, vanto della grafica italiana nel mondo — e trasforma se stessa per dimostrare la nostra gratitudine a tutti i medici, agli infermieri, al personale degli ospedali, ai volontari, alle forze dell’ordine, a quanti si sacrificano ogni giorno per la vita di noi italiani. Per dire che gli vogliamo bene. E che dobbiamo volerci bene. Una Colomba che è anche un messaggio di buona Pasqua, simbolo di pace e di salvezza».
È un simbolo di gente unita, di volti insieme: vuole essere anche un augurio a poterci abbracciare presto come prima Ugo Nespolo
Questa colomba indossa una mascherina e trasforma se stessa per dimostrare la nostra gratitudine a medici, infermieri, volontari Armando Milani
Caro Direttore,
ho visto, con mia sorpresa, che l’epidemia di spagnola che ha colpito il mondo intero tra il 1918 e il 1919 ha fatto molti più morti della Grande Guerra. Devo confessare che non lo sapevo, da insegnante di storia consideravo la spagnola una specie di nota a margine della prima guerra mondiale: nei nostri paesi, anche piccolissimi, c’è sempre un monumento, un cippo, o una lapide con i nomi dei soldati caduti nella guerra 1915-18, però tutti i morti di spagnola, donne e bambini, giovani e vecchi, e gli stessi reduci, fanno parte di un lutto familiare e privato, e non vengono mai ricordati pubblicamente. Penso in questi giorni che certi fatti che hanno cambiato il mondo, come l’epidemia di spagnola, vengano volutamente dimenticati o fatti dimenticare. E comunque morire per una influenza è banale, cadere sul campo dell’onore è ben altra cosa!
E’ una storia tutta da scoprire, tragicamente emergente dall’oblio collettivo, cento anni dopo, mentre viviamo una nuova pandemia, anche se speriamo un po’ meno letale. I primi casi di spagnola furono osservati nelle trincee francesi e tedesche nella primavera del 1918, le informazioni in merito vennero secretate dai comandi militari, nuovi casi si manifestarono più tardi tra i soldati ammassati nelle trincee italiane ed austriache. Anche qui la censura militare non permise la diffusione delle notizie. Quando a Madrid e Barcellona, in autunno, arrivò questa nuova influenza così perniciosa e contagiosa, i giornali spagnoli dettero la notizia (la Spagna si era mantenuta neutrale durante la guerra), e la definizione influenza spagnola si affermò nel resto del mondo. L’epidemia si abbatté sull’intero pianeta, in quattro successive ondate, tra il 1918 e il 1920, da Parigi a Rio de Janeiro, da Genova a New York, a Mashhad, alle Filippine e all’Alaska, e si stima abbia ucciso tra i 25 e i 50 milioni di persone, colpendo prevalentemente giovani adulti. Ha contribuito all’aggravarsi delle condizioni postbelliche, ha dato una mano alla nascita delle dittature e regimi autoritari in Europa e in America Latina, creando così le premesse per la Seconda Guerra Mondiale. Ha avvicinato l’India all’indipendenza e l’Africa all’apartheid.
In Italia il primo allarme venne dato a Sossano (Vicenza) nel settembre 1918, quando il capitano medico che dirigeva il Servizio sanitario del II Gruppo Reparti d’Assalto invitò il sindaco a chiudere le scuole per una sospetta epidemia di tifo. In tutta Italia si stima che i morti per la spagnola siano stati oltre 600.000. Esistono, per quanto riguarda l’epidemia in Italia, pubblicazioni e studi di carattere medico. Esistono diari, lettere, romanzi, poesie, testimonianze e pellicole di enorme interesse che ci raccontano la Grande Guerra. Dell’eroismo quotidiano, della tenacia e della sofferenza di chi curò e assistette gli ammalati e i congiunti, nelle case o negli ospedali, non troviamo quasi tracce scritte.
Vorrei dedicare queste mie riflessioni a tutte le persone, soprattutto donne, che si fecero forza e seppero dare speranza ai familiari in una battaglia quotidiana che a molte è costata la vita.
Saluti risorgimentali. Livio Ghelli
Caro Direttore
Grazie per il bell’Editoriale che ha pubblicato sul Sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento Sì, di coronavirus si parla, ma lei ha saputo portare con garbo la nostra attenzione dal virus (imperante ormai nella nostra quotidianità) a una profonda osservazione: questa non è una guerra armata, non ci sono eserciti in conflitto, non c’è in palio la conquista, sia essa la ricchezza economica, il maggior potere di uno stato sull’altro, né tantomeno una visione ideologica che andasse a prevalere sull’altra. Ma se si tratta di difendere la Patria, come è successo nel secolo passato in due guerre drammatiche, sempre e ovunque gli italiani si sono mossi uniti: sia a difesa della propria vita, sia che la Patria fosse in pericolo, quindi i suoi confini nazionali e la sua libertà minacciata. Lei cita giustamente l’offesa di Caporetto e la successiva riabilitazione con l’annessione di Trento e Trieste, e poi ancora “le macerie e i lutti” della Seconda guerra mondiale e gli anni duri della ricostruzione, E mi piace anche il richiamo, in questo mese di aprile così pieno di sofferenza, a quel 25 aprile di Liberazione, una vittoria che quest’anno dovrebbe acquistare maggior forza e significato perché sarà vicina la vittoria di tutti noi, italiani e non solo, sul virus infestante.
Su un argomento da lei citato mi permetto un’integrazione: accanto al “Re soldato” sedeva in trono una donna, poco ricordata dalla storiografia corrente, a suo tempo invece molto amata dalle donne del popolo, anzi fu soprannominata Regina del popolo. Elena di Montenegro conosceva le lingue, aveva studiato medicina, si prodigava in opere pie, visitava scuole e asili, ebbe cinque figli, (uno fu anche re per breve periodo!) e poca fortuna in conclusione della sua vita. Aveva anche una splendida figura, se capiterà l’occasione le mando una sua fotografia con dedica, anno 1906.
L’ho trovata in una scuola di Firenze, nell’Archivio, insieme a una notevole quantità di altri reperti. La scuola allora si chiamava “Scuola d’Arti e Mestieri. Istituto Tecnico Femminile Principe Piero Ginori Conti Conti “.
La saluto con affetto e simpatia, Marisa Brambilla.
Via Benedetto Fortini , quartiere di Gavinana, Firenze
Citata nel 1181 col titolo di Santa Maria di Fabroro, fu poi detta Santa Maria alla Badiuzza quando venne affidata ai monaci Benedettini. La denominazione “al Paradiso” deriva da quella data dal convento di Santa Brigida al Paradiso, a sua volta nominato dalla villa degli Alberti, trasformata nel 1390 in cenobio per i seguaci di Santa Brigida di Svezia, ai quali fu affidata anche la cura della parrocchia. Dal 1593 il monastero fu solo femminile e sopravvisse fino al 1776. L’attuale chiesa parrocchiale è preceduta da un portico del 1706 ornato da una Madonna col Bambino, affresco staccato e danneggiato, attribuito a Pier Dandini . Restaurata nel 1976, all’interno si trova un Crocifisso ligneo attribuito a Bernardo della Cecca(fine Quattrocento).
Si tratta di edificio romanico a navata unica rigorosamente orientata ad est, con un’abside semicircolare che la conclude, da dove la luce solare dell’equinozio penetra attraverso una semplice monofora.
L’austera semplicità dell’edificio conduce immediatamente chi entra a volgersi verso l’abside, il cui ampio catino è concluso da una volta semisferica, con un’immagine analoga a quella di un grembo materno. La solitaria monofora, nella quale i vetri sono sostituiti da dieci lastre quadrate di alabastro traslucido, irradia la navata di una luce soffusa che non abbaglia e muove l’anima a riconoscere l’unica fonte della vita. In essa simbolicamente l’Uno ed il Dieci riassumono i numeri del cosmo. Nel colmo della volta un foro circolare è allineato con la monofora e con l’asse della navata. Accanto, in epoca successiva, è stato ricavato un secondo foro irregolare per far passare le corde delle campane. Si, perché la torre campanaria è stata costruita proprio sulla volta dell’abside. Si racconta che al di sotto dell’abside si trovi un cunicolo. Tutta l’area è ricca di acque sotterranee che scorrono nel sottosuolo facendone risuonare la terra di una vibrazione inudibile ed in parte emergono in un’antica fonte. La costruzione del campanile sulla volta dell’abside rappresenta una tipologia singolare, strutturalmente ardita della quale non conosco altri esempi. Il simbolo che racchiude è possente. La conca dell’abside è il ricettacolo dal quale si innalza il pilastro cosmico che unisce la terra al cielo, che collega il mondo ctonio a quello delle stelle. È l’immagine del ventre di Maria – e di ogni anima – che racchiude il Cristo, disceso all’inferi ed asceso al cielo.
Ma forse siamo in presenza di qualcosa di ancor più potente del semplice simbolo ed è questo che giustificava il coraggio di una soluzione così improbabile. E’ quel primo e perfetto foro centrale nella volta, circolare ed allineato con l’asse della chiesa, che ce lo dice: attraverso di esso le energie cosmiche e quelle telluriche si incontrano come due opposte correnti incanalate da un’architettura sapiente; lì vibrano all’unisono di una frequenza sacra, che trasmuta la materia in spirito e lo spirito in materia, che ferma il tempo e lascia irrompere l’eterno, placando la tempesta dell’esistenza in una quiete celeste.
Architetto Renzo Manetti ( Architettura, Esoterismo, Simbolismo, Spiritualità)
Caro Direttore,
come sempre, mensilmente con il tuo editoriale, ci richiami alla riflessione e mai come in questo momento ce n’è bisogno. Il Corona virus ci costringe ad un curioso esperimento. Ci sono dentro tanti ingredienti, la paura di qualcosa di incombente (per la mia generazione “la cosa da un altro mondo” di cinematografica memoria), la riscoperta del tempo, la convivenza con i familiari stessi che su questa scala temporale nessuno ha conosciuto prima, l’esaltazione delle comunicazioni tecnologiche. Hanno lanciato un generalizzato corso di autoaggiornamento nell’Università e nella scuola che, in tempi normali, molti colleghi avrebbero rifiutato sdegnosamente di fare e, per i giovani, l’abitudine a stare con se stessi invece di cercare le sicurezze esistenziali nel gruppo, qualche volta traboccando nel bullismo. Non sarebbero cose cattive se non ci fosse l’innominabile CV di cui non sappiamo ancora la potenza.
È una guerra? Per me sì. Ho vissuto questa vita ormai lunga con un pensiero che direi quasi quotidiano, l’idea che come tutte le altre generazioni anche la nostra avrebbe conosciuto la guerra. Parlo naturalmente della guerra vissuta personalmente, quella che uccide perché l’ordine che viene dall’altro uomo è uccidere a più non posso e che ti distrugge la casa, ti costringe a cercare un riparo, a cercare un cibo che non c’è. Non era lontana. Alla nostra generazione la raccontavano i babbi e le mamme, attraverso i loro ricordi, le memorie dello sfollamento, della paura quotidiana e della difficile sopravvivenza. Ci raccontavano della tessera per il pane, della borsa nera, e mio padre, che era sarto, del lavoro di riparazione dei vestiti in cambio di un pane, e così via, e la bomba nel Duomo di San Miniato che aveva ammazzato tanti conoscenti. Vista in questa chiave la vicenda che noi viviamo parrebbe quasi una rappresentazione teatrale, quasi un replay perché ci ricordassimo la nostra fragilità umana e sociale. Ma ci sono i morti, e anche in questo c’è differenza. Noi non vediamo i cadaveri che sono tanti, quanti possono esserci in una guerra, e la nostra emozione non è come quella che provavano loro vedendo il sangue. E, tuttavia, è una guerra e ci dà delle regole e ci rende il senso della coesione. Mi è piaciuto l’orgoglio delle bandiere esposte, il canto dell’inno che, nei primi giorni ci ridava certezza anche per il senso che veniva da certi commenti europei che suonavano la versione contemporanea del “pizza e mandolino” di un tempo.
Oggi è tempo di sentirci europei e di rispettarci tuti come cittadini europei. Lo stato ha fatto la sua parte e speriamo che nessuno se ne appropri perché i protagonisti siamo, come sempre noi, il popolo che sa comprendere molto di più di quanto gli venga riconosciuto. Ora con i fratelli europei stiamo conquistando il diritto ad essere davvero Europa, ad essere quel modello di equilibrio tra prosperità e sicurezza sociale che, negli anni Settanta eravamo in grado di rappresentare come salto di qualità rispetto al collettivismo sconfitto e al capitalismo selvaggio. Era un modello non teorico ma pratico e personaggi lungimiranti come Willy Brandt e Dehors ne avevano dato lo schema.
Questa è una guerra e, dalle guerre, si deve uscire ricostruendo e lo si dovrebbe fare, ora che i sovranismi e i particolarismi, sono sciolti come neve al sole, pensando davvero in termini europei, non monetaristi e liberisti, ma liberali, democratici e sociali.
Cari saluti e un abbraccio a tutti. Fabio Bertini
Nella ricostruzione il nostro popolo ha sempre saputo esprimere il meglio di sé Sergio Mattarella, Messaggio televisivo alla Nazione del 27 marzo 2020
Di fronte al pericolo della pandemia del Coronavirus l’establishment politico, scientifico e culturale in Italia e nel mondo sta utilizzando un linguaggio bellico come se fossimo in guerra contro un nemico subdolo ancora più minaccioso degli eserciti, degli aerei e delle navi da combattimento.
Perfino autorevoli economisti come Draghi, nell’indicare possibili soluzioni per risolvere l’emergenza economica che seguirà quella sanitaria, ha fatto riferimento alle guerre, secondo lui il precedente più significativo della crisi in atto, che si finanziavano attingendo al debito pubblico, come fece l’Italia durante e dopo il primo conflitto mondiale. E restando sul piano della metafora bellica, i medici e gli infermieri oggi negli ospedali sono come gli ufficiali e i soldati al fronte; e i cittadini trincerati nelle loro case come il cosiddetto “fronte interno”.
Con una differenza però: la guerra di questi giorni contro il virus non è uno scontro armato tra nazioni, nemiche in nome interessi economici o di visioni ideologiche, ma un fronte comune per contrastare questa tragica pandemia, che vede cointeressate le istituzioni politiche, economiche e scientifiche, nazionali e sovranazionali, a oriente come a occidente, sia pure con divisioni tra i governi sulle scelte di politica economica e sanitaria.
Gli italiani per primi in Europa hanno saputo affrontare questa drammatica situazione e le necessarie restrizioni alle loro libertà di movimento e di socializzazione, dimostrando di aver recuperato in questa circostanza un forte senso civico e anche una forte coesione sociale e nazionale, tra l’altro con manifestazioni sui balconi e alle finestre (canti, musica, bandiere tricolori e inni patriottici). Lo stesso patriottismo si manifestò in un altro momento critico della nostra Storia, l’ultimo anno di guerra, dalla disfatta di Caporetto alla battaglia di Vittorio Veneto, che sancì la vittoria italiana nella Grande Guerra. Infatti paradossalmente la sconfitta di Caporetto rianimò il sentimento di Patria, minacciata dagli invasori austriaci e tedeschi: nelle trincee, in una babele di dialetti, un popolo giovane (i “ragazzi del ’99”) diventò una Nazione. In tutta Italia, dal capo del governo al semplice cittadino, i partiti e la società civile, uomini e donne sostennero con tutti mezzi i fanti contadini nella riconquista dei confini della Patria e nel compimento dell’Unità italiana con l’annessione di Trento e Trieste. Nei drammatici mesi di ottobre e novembre del 1917 si ricompose pertanto quella divisione tra interventisti e neutralisti, tra Paese legale e opinione pubblica, che nei mesi precedenti all’entrata in guerra dell’Italia avevano lacerato la coscienza degli italiani. E in quegli anni difficili e drammatici il “re soldato” Vittorio Emanuele III raccolse attorno a sé questa ritrovata unità nazionale.
A cento anni di distanza il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che come recita l’art.87 della Costituzione italiana rappresenta l’unità nazionale, non si è sottratto al compito di rivolgersi alla nazione con puntuali interventi televisivi, rassicurando i cittadini sull’esito positivo di questa diversa, ma piu infida guerra contro il Coronavirus, ma anche riconoscendo le loro virtù civiche e il senso del dovere rispetto alla crisi sanitaria ed economica del loro Paese, oltre a richiamare i nostri alleati europei a un maggiore senso di responsabilità nei confronti dell’Italia. Ha infine ricordato che il popolo italiano ha dato il meglio di sé nei periodi di crisi postbellica, come negli anni della ricostruzione dopo le macerie e i lutti della Seconda guerra mondiale. Furono anni difficili, di enormi sacrifici e anche di tensioni e contrapposizioni sociali e politiche; ed è però vero che le nostre madri e i nostri padri ricostruirono un Paese distrutto e umiliato e ne fecero in due decenni una grande potenza industriale. Furono anche gli anni della ritrovata libertà politica e di riscoperta della democrazia dopo gli anni del Fascismo. E la Costituzione repubblicana fu scritta con il concorso di tutte le forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza.
Il prossimo 25 aprile, festa della Liberazione dal nazifascismo, una data fortemente simbolica nella storia del nostro Paese e purtroppo non ancora pienamente condivisa dal popolo italiano per le contrapposizioni politiche e ideologiche del dopoguerra, potrebbe invece rafforzare i valori comunitari e l’unità nazionale, per poter vincere con meno lutti e meno disastri sociali la guerra con il Coronavirus, che sta minacciando la nostra esistenza sia di individui che di popolo, la nostra convivenza civile e il futuro dei nostri figli.
Pio IX ed il sogno rivoluzionario della repubblica romana
A David I. Kertzer riesce l’impresa di far rivivere attraverso un racconto affascinante quei due anni cruciali che avrebbero compromesso per sempre la legittimità ideale del potere temporale della Chiesa. Pasquale Chessa, Il Messaggero
Autore David I. Kertzer
Editore Garzanti
Anno 2019
Pag. 557
Prezzo € 25,00
Novembre 1848. Pochi giorni dopo l’assassinio del suo primo ministro avvenuto nel cuore di Roma, papa Pio IX si ritrova prigioniero nel suo stesso palazzo: l’onda rivoluzionaria che sta sconvolgendo l’Europa sembra poter mettere fine al potere temporale se non addirittura all’istituzione stessa del papato. Così, travestito da semplice parroco, il pontefice scappa da una porta secondaria e parte per l’esilio. Eppure, solamente due anni prima, la sua elezione aveva generato profondo ottimismo in tutta Italia: dopo il pontificato repressivo di Gregorio XVI il popolo guardava al nuovo, giovane e benevolo papa come all’uomo che avrebbe traghettato lo Stato Pontificio verso la modernità, forse persino favorendo la nascita di un’Italia unita. Dal conflitto tra il desiderio di compiacere i sudditi e la paura, alimentata dai cardinali più conservatori, che ascoltarne le suppliche avrebbe provocato il crollo della Chiesa, scaturì invece una spirale di intrighi politici, tradimenti, colpi di scena, che si sarebbe conclusa nel 1870 con l’annessione di Roma al neonato stato italiano. David Kertzer possiede il raro talento di riportare in vita gli eccezionali protagonisti di queste vicende – Napoleone III, Garibaldi, Tocqueville, Metternich – e, unendo una narrazione avvincente e cinematografica all’accuratezza dell’analisi storica, getta nuova luce sul declino del potere religioso in Occidente e sulla nascita della moderna Europa.
David i. Kertzer è nato nel 1948 a New York. Specialista in storia italiana, è professore di antropologia e storia presso la Brown University. Con Rizzoli ha pubblicato Prigioniero del Papa Re (1996), I papi contro gli ebrei. Il ruolo del Vaticano nell’ascesa dell’antisemitismo moderno (2002) e La sfida di Amalia (2010).