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L’esercito italiano in tempo di guerra e in tempo di pace

01/06/2020 da Sergio Casprini

Il 2 giugno di quest’anno sarà diverso per l’emergenza coronavirus. Il divieto di assembramenti impedirà infatti la classica parata militare in via dei Fori Imperiali, ma la ricorrenza è stata ugualmente solennizzata, tra il 25 maggio e il 29 maggio, dal sorvolo delle Frecce Tricolori sopra i capoluoghi di Regione, a cui hanno assistito migliaia di persone.

Negli anni scorsi alla parata hanno sempre partecipato le Forze armate, le Forze di Polizia, il Corpo dei Vigili del fuoco, la Protezione Civile e la Croce Rossa Italiana, a cui si sono aggiunti, negli ultimi anni, i rappresentanti delle amministrazioni locali. Ma nonostante la sentita partecipazione di tanti cittadini che assistevano alla sfilata lungo tutto il percorso, non sono mai mancate le critiche, in particolare da parte di forze antimilitariste e pacifiste nel ricordo dei tragici conflitti mondiali del Novecento e in nome di una visione edenica della società e del mondo senza più eserciti e senza più guerre. Ma anche tra gli intellettuali e gli esponenti dei partiti democratici e di sinistra che non hanno mai chiesto la soppressione delle forze armate, c’è chi non ha condiviso pienamente la trasformazione dell’esercito italiano in un corpo professionale in sostituzione della leva militare obbligatoria, soppressa nel 2004.

In primis c’è il sospetto che un esercito professionale possa essere strumento delle classi dirigenti per avventure autoritarie, nazionalistiche e imperialistiche, nonostante che l’articolo 52 della Costituzione affermi invece che “L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”. Per correttezza va comunque ricordato, in una storia non oleografica delle nostre Forze armate, che ci sono stati anche gravi errori da parte dello Stato maggiore in alcuni eventi bellici e pure fatti tragici se non addirittura criminali come le cannonate sulla folla a Milano nel 1898 e l’uso di gas asfissianti in Etiopia e in Somalia nel 1936. Le opinioni contrarie alla professionalizzazione dell’esercito si devono inoltre alla convinzione che dagli anni del Risorgimento fino alla Resistenza il servizio militare è stato un momento di formazione civica e di partecipazione attiva al dovere istituzionale di difesa della Patria.

Il dibattito attuale sul rapporto tra democrazia, esercito professionale ed esercito di leva riecheggia quello che era sorto nell’Italia dell’Ottocento con il contrasto tra i monarchici, fautori della guerra regia, e i repubblicani, fautori della guerra di popolo. In altre parole si contrapponevano l’efficacia in battaglia dell’addestrato esercito sabaudo e quella dei cittadini e dei volontari in armi animati da grande entusiasmo e dedizione alla causa italiana, come per esempio a Curtatone e Montanara o nella difesa della Repubblica romana. Negli Scritti politici e militari Garibaldi definì l’esercito permanente un’ «istituzione perniciosa» per l’effetto disumanizzante delle caserme e del servizio di leva (che durava tre anni nell’Ordinamento Ricotti del 1873), perché la cieca ubbidienza imposta al soldato lo poteva trasformare in un potenziale nemico del popolo;  negli stessi anni a conferma invece della rigorosa preparazione professionale degli ufficiali dell’esercito e della marina  furono istituite prima nel 1859 l’Accademia militare di Modena, poi  nel 1881 l’Accademia navale di Livorno.

D’altra parte lo stesso Garibaldi, dalle indiscutibili doti militari, pari se non superiori a quelle dei migliori generali di Vittorio Emanuele II, dovette soccombere con i suoi a Roma nel 1848 e a Mentana nel 1867 di fronte all’esercito francese, meglio addestrato e armato. Resta comunque forte il significato e il valore del volontariato armato nel Risorgimento, perché, se pure sconfitto militarmente, ha contribuito con la passione e il sacrificio di tanti giovani, uomini e donne, a costruire una coscienza nazionale e a rafforzare gli ideali di democrazia e libertà, recepiti poi nei principi fondamentali della nostra Costituzione.

Firenze 1902 pannello del Monumento ai Caduti di Mentana di Oreste Calzolari

Che senso ha oggi avere ancora un esercito professionale, tra l’altro oneroso per le casse dello Stato, in un consesso internazionale completamente cambiato rispetto ai secoli scorsi, in cui le armi sono sostanzialmente quelle della diplomazia? Basterà ricordare che in Parlamento negli ultimi anni è stato deciso più volte di far ricorso all’esercito per affidargli missioni militari in delicate e drammatiche situazioni internazionali, in casi di emergenza umanitaria o di gravi lesioni dei diritti internazionali, tutelati dall’ONU; oppure nel nostro territorio in casi di calamità nazionali in appoggio alla Protezione Civile o di presidio nelle piazze e strade delle città italiane per contrastare eventuali azioni di terroristi jihadisti.

Gli italiani devono sentirsi quindi garantiti dalla presenza di un esercito di alta professionalità e di lealtà democratica, fedele alle istituzioni e al Presidente della Repubblica, che ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa e dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere (art. 87 della Costituzione). Ed è con questo spirito che le Forse armate sfilano ogni 2 giugno lungo i Fori Imperiali in nome del bene prezioso della pace e della libertà.

 

 

 

 

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