V SETTIMANA ASSOCIAZIONI CULTURALI FIORENTINE
Venerdì 27 settembre ore 17,30
Il sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.
V SETTIMANA ASSOCIAZIONI CULTURALI FIORENTINE
Venerdì 27 settembre ore 17,30
Piazza indipendenza 9 Firenze
L’edificio, posto sul lato sud, si distingue dagli altri palazzi della piazza nel suo essere circondato da un ampio giardino, contravvenendo ai limiti imposti dal piano regolatore della zona, che prevedeva fronti allineati e compatti, privi di spazi a verde antistanti.
Tale peculiarità è spiegata nel repertorio di Bargellini e Guarnieri ( Le strade di Firenze- Bonechi,, Firenze), indicando in tale luogo un preesistente edificio dei Barbolani di Montauto sulle antiche proprietà dei quali insiste peraltro l’attuale piazza, che sarebbe stato rispettato o che comunque avrebbe visto favoriti i proprietari proprio in virtù degli espropri decretati dal Comune. Certo è che di antiche tracce l’edificio attuale nulla presenta almeno all’esterno: costruito comunque, da quanto risulta dalla letteratura consultata, per gli stessi Barbolani da Montauto, è stato successivamente di proprietà Gondi e quindi, dal 1865, Ruspoli. A questi ultimi si devono vari lavori di ampliamento e abbellimento. Durante il periodo di quest’ultima proprietà fu inoltre conservato nella residenza il dipinto di Francisco Goya La famiglia dell’infante don Luis, acquistato nel 1974 dalla Fondazione Magnani Rocca. Il carattere di questo e degli altri edifici della piazza corrisponde al gusto imperante al tempo dell’urbanizzazione della zona, già detta orto o podere di Barbano, dal nome appunto dei proprietari della maggior parte del terreno, i marchesi Barbolani da Montauto. L’originale progetto, redatto tra il 1838 e il 1842 dall’architetto Francesco Leoni (del quale si conservano numerose carte presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze), prevedeva la costruzione di 53 casamenti per famiglie povere. Approvato il progetto definitivo con numerose varianti, solo nel 1844 ne venne affidata la realizzazione all’ingegnere circondariale Flaminio Chiesi che concluse i lavori di urbanizzazione nel 1845: i lotti di terreno, ammessi al mercato libero, vennero acquistate da commercianti, artisti e imprenditori, vanificando l’originaria ipotesi di edilizia popolare
Per quanto riguarda il nostro edificio, questo si sviluppa (per ciò che riguarda il corpo principale, cioè la porzione a villino) su due piani per cinque assi, con un corpo aggiunto sulla sua destra. Su una delle tre grandi porte finestre di accesso è uno scudo con l’arme dei Ruspoli (d’azzurro, a due tralci di vite decussati e ridecussati, fruttiferi di un pezzo ciascuno e nodridi su un monte di sei cime, il tutto d’oro). Attualmente nell’edificio e nelle sue pertinenze hanno sede vari uffici e centri studi dell’Università di Firenze
REPERTORIO DELLE ARCHITETTURE CIVILI DI FIRENZE
Scheda a cura di Claudio Paolini
PALAZZO ANTINORI, Piazza degli Antinori 3, Firenze 3
19 Settembre 2019 / 10 Novembre 2019
LA MOSTRA A PALAZZO ANTINORI CONSENTE DI ACCEDERE PER LA PRIMA VOLTA AI SALONI STORICI DI UNA DELLE PIÙ RAFFINATE DIMORE DEL CENTRO STORICO FIORENTINO. RIASSAPORANDO LE ATMOSFERE DELL’OTTOCENTO, EVOCATE IN 60 DIPINTI.
Firenze come era, in otto sezioni e sessanta dipinti
Aperta per meno di un bimestre, La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini regala al visitatore il beneficio di un contatto diretto, persino intimo, con le sessanta opere selezionate dal duo curatoriale, provenienti dalla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti e da collezioni private. Complice anche il frazionamento dello spazio del Palazzo, evidentemente concepito con altre finalità, la vicinanza fisica con le opere favorisce una condizione di “immersione” in una dimensione temporale perduta, genuina e, per certi versi, desiderabile. La luce conquista lo sguardo, divenendo malinconica e nostalgica nelle vedute, nei panorami e negli scorci urbani di Giovanni e Telemaco Signorini. Padre e figlio sono infatti fianco a fianco nella loro città, insieme ad altri artisti coevi. Oltre alle ovvie analisi di carattere storico-critico, la mostra introduce un livello di lettura di natura architettonica-urbanistica.
Firenze, da città a Capitale
Tra carrozze collettive trainate da cavalli, lungarni, botteghe, mercati, piazze ed echi Belle Époque, Firenze viene raccontata nei suoi luoghi iconici, gli stessi che oggi sono sottoposti a flussi turistici senza sosta, e nei suoi più struggenti scorci. Soprattutto, però, è immortalata dinanzi agli grandi “stravolgimenti” dell’Ottocento, nella fase che va dalla transizione della dinastia dei Lorena al Governo Provvisorio Toscano, fino dell’annessione al Piemonte sabaudo e, quindi, al nascente Regno d’Italia. Proiettata verso il (temporaneo) status di Capitale, si orientò verso l’“elegante classicismo architettonico” legato alla figura di Giuseppe Poggi. Un “ammodernamento forzato” sgradito, tra gli altri, anche a Telemaco Signorini, che fu così artefice della documentazione, scrupolosa quanto sentimentale, degli ultimi sussulti di un mondo destinato in scomparire.
Valentina Silvestrini Artribune 18 settembre 2019
LA FIRENZE DI GIOVANNI E TELEMACO SIGNORINI
Dal 19 Settembre 2019 al 10 Novembre 2019
FIRENZE
LUOGO: Palazzo Antinori
INDIRIZZO: piazza Antinori
ORARI: dal Martedì alla Domenica 10-18
CURATORI: Elisabetta Matteucci, Silvio Balloni
COSTO DEL BIGLIETTO: Euro 13 intero, Euro 10 ridotto
TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39 055 29375
Piazza dell’Unità/ Piazza Santa Maria Novella Firenze
Circolo Piero Gobetti
Fondazione Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini
Invitano la cittadinanza alla manifestazione
Ore 11,00 Deposizione della Corona del Comune all’Obelisco ai Caduti in Piazza dell’Unità
Ore 11,15 Fratellanza Militare Firenze Piazza Santa Maria Novella 18
Antonia Ida Fontana, presidente del Centro delle Associazioni Culturali Fiorentine, parlerà sul tema “La laicità” dello Stato
Ore 11,30 Saluti del presidente del Consiglio Comunale Luca Milani e del Presidente del Consiglio Regionale della Toscana Eugenio Giani.
Ore11,50 interventi dei rappresentanti delle associazioni partecipanti e di esponenti della società civile e militare
Ore 12,30 termine della manifestazione
Aderiscono alla manifestazione
Associazione Mazziniana di Firenze Associazione Nazionale Volontari e Reduci Garibaldini, Associazione Progetto Firenze, Circolo Fratelli Rosselli, Comitato Fiorentino per il Risorgimento, Firenze Radicale-per gli Stati Uniti d’Europa, Fratellanza Artigiana, Unione Atei Agnostici Razionalisti
La manifestazione ha il patrocinio del Comune di Firenze
Autore Sandro Gerbi
Editore Ulrico Hoepli
Anno 2019
Pag. 158
Prezzo € 16,90
Un libro controcorrente, in cui Sandro Gerbi non è andato alla ricerca delle proprie radici ebraiche, bensì si è concentrato sul processo inverso: ovvero sulla graduale secolarizzazione della sua famiglia nel corso del Novecento, attraverso l’abbandono della fede avita e della Comunità ebraica fi no alla ricorrente pratica dei matrimoni misti. Senza nostalgie, ma anche senza alcun rifiuto della propria ascendenza.
Il racconto inizia con il 1938, anno in cui il padre dell’autore, lo storico ed economista Antonello Gerbi, dovette lasciare l’Italia per il Perù a causa della legislazione razziale. Analoga la sorte dei suoi due fratelli (entrambi già affermati, l’uno come giornalista sportivo e l’altro come medico), che trovarono riparo negli Stati Uniti.
Con una scrittura vivace e ricca di aneddoti, l’autore ripercorre poi le vicende ‘ebraiche’ che lo hanno lambito nel corso del tempo: la nascita in Perù nel ’43 per via dell’esilio del padre, il rientro in Italia nel ’48, la sopravvivenza di uno specifico «lessico famigliare», un viaggio in Israele nel dicembre ’67, alcuni incontri decisivi (con l’esperto finanziario Renato Cantoni, il filosofo Lukács, i giornalisti Stille e Montanelli, l’agente letterario Linder). Fino al commovente primo ritorno a Lima nel 2010, 62 anni dopo esserne partito. Il volume è infine impreziosito da un inedito Album fotografico, che attinge a numerosi archivi privati.
Sandro Gerbi (Lima, 1943), storico e giornalista, autore fra l’altro del volume Mattioli e Cuccia (2011), ha pubblicato con Hoepli i seguenti volumi: Tempi di malafede (2a edizione 2012); Giovanni Enriques dalla Olivetti alla Zanichelli (2013), Indro Montanelli (con Raffaele Liucci, 2a edizione 2014), I Cosattini. Una famiglia antifascista di Udine (2016) e Raffaele Mattioli e il fi losofo domato (2a edizione 2017). Ha collaborato per oltre vent’anni alle pagine culturali della «Stampa», del «Sole 24 Ore» e del «Corriere della Sera».
Via Chiostra prima, 13, Fauglia (Pisa)
Il museo Giorgio Kienerk è collocato nelle storiche carceri giudiziarie del Comune di Fauglia, poste sul retro del Palazzo Municipale che si erge nel centro del paese. Negli anni Settanta dell’Ottocento, anni contrassegnati dai lavori di riassetto del vecchio Municipio, fu costruito il palazzo degli Uffizj Pubblici su progetto di Arturo Conti (1823-1900), architetto livornese, che possedeva una villa nei pressi del paese, al cui talento si deve la realizzazione di numerose strutture edilizie della zona. Il nuovo complesso municipale ospitava anche la Pretura, le carceri, la casa del guardiano e la caserma dei carabinieri.
Il museo è stato realizzato grazie alla figlia Vittoria (celebre insegnante di storia dell’arte al Liceo Classico Galileo Galilei di Pisa) che ha donato a Fauglia le opere d’arte presenti nella villa di famiglia di via Poggio alla Farnia. L’artista fiorentino Giorgio Kienerk infatti era solito trascorrere ogni estate con la famiglia presso la casa posta nella campagna di Fauglia. La raccolta copre tutto il percorso dell’artista ed è una testimonianza a tutto tondo dell’opera di Giorgio Kienerk considerando che molte dei suoi dipinti, disegni e scuture sono andati distrutti quando la casa fiorentina della famiglia è stata rasa al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Giorgio Kienerk (allievo di Signorini) è considerato uno dei maggiori esponenti del movimento dei così detti Post-Macchiaioli, artisti che pur accogliendo i dettami stilistici dei Macchiaoli furono influenzati dalle “avanguardie” artistiche di fine XIX secolo. Nel caso di Kienerk divisionismo (i cui maggiori esponenti furono Segantini, Pellizza da Volpedo e Nomellini) e simbolismo (testimoniato da De Chavannes e Moreau e perlopiù confluito nel neoimpressionismo) contribuirono a plasmare lo stile del pittore e scultore fiorentino.
L’esposizione al museo di Fauglia, copre, come accennato, tutto il percorso artistico e i molteplici interessi (pittura, scultura, grafica) di Kienerk. Sono così presenti le prime opere (“La Veduta di Fiesole e “La Nonna”) caratterizzate da un approccio naturalistico e le testimonianze dell’influenza divisionista e impressionista (“Alberi sul mare” e “La lettrice”), mentre le sculture “La Panchina” “Ritratto di modella” e lo splendido quadro “Il fauno nel bosco” rivelano i punti di contatto con il simbolismo.
Di notevole interesse per mostrare l’originale inventiva dell’autore sono le opere grafiche (“Italia ride” e “Sorriso”) che Kienerk ha realizzato nella sua attività di illustratore per riviste italiane e francesi. Nel museo sono inoltre presenti numerosi paesaggi eseguiti in varie epoche (1887-1942) e ritratti di parenti, amici e familiari tra i quali si distinguono per la radiosa freschezza quelli della figlia Vittoria. Aperto dal 2008, il Museo Giorgio Kienerk è immeritatamente poco conosciuto, nonostante si tratti della più importante pinacoteca dedicata a un singolo artista presente della Provincia di Pisa.
Museo Giorgio Kienerk
Palazzo Comunale (Via Chiostra I, numero 13 Fauglia)
tel. 050 657311 (centralino del Comune 9.00 – 13.00)
Accesso disabili
Ingresso: Dalla seconda metà di settembre a maggio il Museo Kienerk è aperto il venerdi 10.00-12.00 sabato e domenica 9.30-12.30 e 15.30-18.30 . Durante il periodo estivo (da Giugno a metà Settembre) l’orario è il seguente: martedì e giovedì dalle 10:00 alle 12:30 e sabato e domenica dalle 10:00 alle 12:30 e dalle 16:00 alle 19:00.
Chiusura: 1 e 6 gennaio, Pasqua, 1 maggio, 15 agosto, 1 novembre, 25 e 26 dicembre.
Biglietto: 4 euro; ridotto 2 euro per bambini sotto i 12 anni, visitatori con età superiore ai 65 anni, gruppi di almeno 15 persone e scolaresche.
Visite guidate: solo tramite prenotazione obbligatoria e per gruppi non superiori alle 15 persone (Tel. 050 657328)
L’Associazione Editori celebra i 150 anni. Un ruolo centrale nella nascita della nazione
Cristina Taglietti Corriere della Sera 8 Settembre 2019
Sono librai, tipografi, stampatori, editori. Ci sono nomi che ancora oggi significano molto per chi ama i libri, e che sono diventati marchi, aziende, istituzioni culturali, come Ermanno Loescher, Edoardo Sonzogno, Emilio Treves, Felice Le Monnier, Nicola Zanichelli, Giovan Pietro Vieusseux, insieme ad altri che sopravvivono soltanto nella memoria degli addetti ai lavori. È il primo elenco dei membri dell’associazione libraria italiana, fondata il 17 ottobre 1869, antenata dell’associazione italiana editori (Aie) che l’11 settembre festeggerà i suoi primi 150 anni di vita a Roma.
Negli ultimi tempi il fronte editoriale italiano è più frammentato che in passato: in seguito alle crescenti concentrazioni industriali si sono acuite le differenze tra le priorità di editori indipendenti e grandi gruppi e accanto all’AIE, presieduta da Ricardo Franco Levi, nel 2018 è nata un’altra associazione di categoria, l’ADEI (Associazione degli editori indipendenti) che ha espresso posizioni diverse, anche recentemente in occasione della nuova proposta di legge sul libro. Ma l’evento di mercoledì prossimo che riunirà i rappresentanti del mondo culturale italiano e delle istituzioni, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, racconterà una storia che riguarda tutti, quella del libro, strettamente legata a quella dell’italia.
Come ricostruiscono Alberto Cadioli e Giuliano Vigini nella loro Storia dell’editoria in Italia. Dall’unità a oggi (Editrice Bibliografica), nonostante le difficoltà dovute alla divisione in Stati diversi, spesso dipendenti da potenze straniere e con legislazioni differenti, già nella prima metà dell’ottocento si consolidarono realtà che possono essere definite editoriali nei centri più vivaci del Paese: Milano, Firenze, Torino. Da lì, per esempio, arriva il primo presidente dell’associazione, Giuseppe Pomba (1795-1876) che all’inizio dell’ottocento, in contrada del Po ereditò dal padre una piccola bottega che aveva stampato qualche operetta devozionale e d’occasione, e iniziò a pubblicare la collana «Biblioteca Popolare, ossia raccolta di opere classiche nonché latine e greche in italiano tradotte», volumetti che potrebbero essere considerati «tascabili prima dei tascabili». Al prezzo di 50 centesimi, le opere della tradizione italiana in uscita settimanale con copertina rossa — Dante, Petrarca, Tasso, Ariosto, Metastasio per citare alcuni nomi — raggiunsero tirature significative, da diecimila copie. Pomba poi, negli anni Trenta, pubblicherà numerosi romanzi, tra cui I promessi sposi di Alessandro Manzoni e Ettore Fieramosca di Massimo D’azeglio.
I cambiamenti del nome dell’associazione nel corso degli anni illustrano bene i mutamenti strutturali dell’impresa, il passaggio dalla tipografia, dalla stamperia all’editoria come attività imprenditoriale, portatrice di un progetto culturale che potesse fare da ponte tra le richieste pubblico e l’offerta dei letterati e degli scrittori. L’associazione libraria italiana è così diventata Associazione tipografica-libraria italiana (ATLI), Associazione editoriale libraria italiana (AELI) e infine Associazione italiana editori (Aie), costituita il 29 marzo 1946 in continuità con l’AELI (sciolta nel 1929 dal regime fascista, dopo la costituzione della Federazione nazionale fascista italiana editori) e con lo stesso presidente, Antonio Vallardi.
Le vicende di librai, stampatori vecchio stile e editori pionieri che guardano al futuro si intrecciano lungo tutto l’ottocento. Certo, a lungo è difficile stabilire confini netti tra le varie attività, ma quel crogiolo di lavoro con al centro il libro ha contribuito in modo sostanziale alla nascita della nazione, facendo pressioni per una circolazione diffusa e libera nelle varie parti del Regno, diffondendo un comune patrimonio culturale che potesse diventare identitario. Quella che è la più antica associazione di categoria italiana, nel 1888 avrà il suo organo di stampa, «Il giornale della libreria» (oggi un network di canali informativi), nel 1877 organizzerà a Milano il congresso per la proprietà letteraria e artistica di Milano, nel 1896 a Parigi parteciperà alla fondazione dell’international Publishers Association (IPA), nel 1910 sarà socia fondatrice di Confindustria, nel 1922 sosterrà la prima Fiera internazionale del libro di Firenze, organizzata da Enrico Bemporad, uno dei primi eventi di promozione della lettura e di un mercato indebolito dalla crisi post-bellica.
La festa per i primi 150 anni sarà anche l’occasione per guardare oltre, anche ai prossimi 150, alle sfide che il libro dovrà ancora affrontare, ai cambiamenti a cui va incontro, senza catastrofismi perché un mondo senza libri può esistere soltanto nella più riuscita delle distopie.
Dalla pace di Versailles a Hitler.
L’anno che cambiò la storia del Novecento
Autore Eckart Conze
Editore Rizzoli
Anno 2019
Pag. 567
Prezzo € 28,00
Il 28 giugno 1919 viene firmato a Versailles il Trattato che sancirà la fine della prima guerra mondiale ma che getterà le basi per lo scoppio di una seconda guerra che insanguinerà non solo l’Europa ma il mondo intero. Alla fine del conflitto, infatti, le nazioni vincitrici decisero di adottare un criterio punitivo nei confronti delle nazioni che avevano scatenato la guerra: gli Imperi dell’Europa Centrale, in particolar modo Austria e Germania. All’impero tedesco fu addossata per intero la responsabilità di avere fatto scoppiare il conflitto e insieme a essa il pesante fardello della riparazione dei danni provocati dal medesimo alle nazioni aggredite. Il popolo tedesco visse le imposizioni del Trattato di Versailles come una vera e propria umiliazione e su questo malcontento fece leva Hitler per condurre le folle ad appoggiare il proprio progetto visionario di rinascita del Reich.
Eckart Conze (Coburgo 1963) è uno storico tedesco. Conze ha studiato dal 1984 al 1989 storia, scienze politiche e diritto pubblico alle università di Erlangen, Bonn e Colonia e alla London School of Economics . Dal 2003 è professore ordinario di storia moderna e contemporanea presso l’ Università di Marburg . La ricerca di Conze si concentra sulla storia tedesca, europea e internazionale del XIX e XX secolo. Dirige anche il Centro internazionale di ricerca e documentazione sui crimini di guerra.
Una biografia di Antonella Orefice restituisce l’onore alla poetessa che partecipò alla rivoluzione del 1799 e fu impiccata a Napoli per volontà del re
Paolo Mieli Corriere della Sera 5 settembre 2019
La Napoli di fine Settecento era la più popolosa città di un’Italia che non era ancora Italia. Il censimento del 1742 aveva registrato poco più di 300 mila abitanti. Più 100 mila stranieri. Il 10 per cento dei locali erano i cosiddetti «lazzari» (dal vocabolo spagnolo laceria che sta ad un tempo per lebbra e miseria). Il conte di Tournay, Charles de Brosses, così li descrisse al ritorno da un viaggio nella capitale del regno borbonico: «La più nauseabonda gentaglia che sia mai strisciata sulla faccia della terra; banditi e fannulloni che passano la loro vita nelle strade e vivono della distribuzione dei conventi; tutte le mattine invadono le scale e l’intera piazza di Monte Oliveto e offrono uno spettacolo di tale laidezza da far vomitare». Goethe fu più comprensivo verso quei «vagabondi»: il «lazzarone», secondo lo scrittore tedesco, «tutto sommato non è per nulla più ozioso del suo simile di altre classi». Saranno, in ogni caso, quegli straccioni i protagonisti della controrivoluzione del 1799 che, incoraggiata dal sovrano, farà a brandelli il ceto della Repubblica. Repubblica che, sorretta dall’esercito francese, per qualche mese aveva dato a Napoli l’illusione di essere improvvisamente diventata un’avanguardia rivoluzionaria dell’Europa tutta. Un’esperienza destinata ad affascinare gli storici meridionali: dal pur critico e coevo Vincenzo Cuoco a Benedetto Croce.
Eleonora, era nata a Roma, nel gennaio 1752, da una famiglia portoghese. Il padre, don Clemente Henriquez de Fonseca Pimentel Chaves, aveva deciso di trasferirsi nella città di Papa Benedetto XIV per sposare una sua conterranea, Caterina Lopez de Leon. La Roma di quel Papa, al secolo Prospero Lambertini, aveva eccellenti rapporti con il Portogallo in rapida modernizzazione sotto la guida del marchese di Pombal, acerrimo nemico della Compagnia di Gesù. Dopo la morte di Benedetto (1758) e l’elezione di un Pontefice filogesuita, Clemente XIII, il padre di Eleonora aveva deciso di trasferirsi a Napoli, che con il Portogallo manteneva ottimi rapporti. Napoli fu scelta perché — come aveva fatto Lisbona nel 1759 — si accingeva ad espellere i suoi seimila gesuiti (1767). Fu così che Eleonora divenne «napoletana». In quella fine del XVIII secolo allorché, puntualizza la Orefice, Napoli raggiunse «il massimo del suo splendore»: il regno di Carlo di Borbone aveva donato alla capitale del Mezzogiorno un’immagine prestigiosa. Per via di «riforme sociali e sfavillanti progetti edilizi» l’antica Partenope fu sempre più apprezzata in Europa e tale apprezzamento continuò a crescere anche dopo l’ascesa al trono di Ferdinando IV, almeno finché il regno fu governato da Bernardo Tanucci (1776). Ma nel momento della cacciata di Tanucci — in qualche modo pretesa dalla moglie del re, Maria Carolina d’Austria — le relazioni tra la città e la sua élite intellettuale iniziarono ad incrinarsi. Élite che aveva avuto il personaggio simbolo nel giurista Gaetano Filangieri, ammirato non solo da Benjamin Franklin, ma anche da Goethe (per la «nobiltà temperata dall’espressione di uno squisito senso morale», scrisse l’autore del Viaggio in Italia). Ed entrò a far parte di questa avanguardia intellettuale la giovane Eleonora, già famosa prima del 1799 come scrittrice di opere elegiache.
La storia di quella rivoluzione è al centro di un libro, Eleonora Pimentel Fonseca di Antonella Orefice, in uscita da Salerno. Eleonora fu già prima del ’99 una ribelle. La fonte principale di documenti sulla sua vita è nelle carte della crisi coniugale «scoperte» quarant’anni fa dall’avvocato Franco Schiattarella. La Pimentel ebbe un matrimonio infelice (1778), con Pasquale Tria de Solis, tenente dell’esercito borbonico quasi vent’anni più anziano di lei. L’unione fu turbata dalla morte (per vaiolo, poco dopo la nascita) di un figlio, Francesco, e dagli ostentati tradimenti del marito. Finché nel 1785, sette anni dopo le nozze, Eleonora decise di separarsi. Scelta che, sottolinea l’autrice, all’epoca fu considerata «un’ignominia». In particolare per una poetessa di corte. La quale però riuscì a ottenere da un giudice al passo con i tempi, Andrea Tontulo, il riconoscimento delle sue ragioni. Sicché da quel momento Eleonora poté dedicarsi ad una «nuova vita»: protetta dalla corte, che le aveva affidato un incarico di bibliotecaria, si occupò della comunità di San Leucio, poi della piccola Filadelfia, fondata in Calabria da un vescovo giansenista liberale di Potenza, Giovanni Andrea Serrao. All’indomani della Rivoluzione francese, Eleonora fu conquistata dai «giacobini napoletani», giovani colti e idealisti appartenenti a famiglie «benestanti se non ricche» che non condividevano la supponenza antifrancese di sovrani e aristocratici. Ma, precisa la Orefice, «è importante sottolineare che l’etichetta di “giacobini” fu loro attaccata in modo improprio senza tener conto delle reali caratteristiche di questi cospiratori che avevano ben poco in comune con gli adepti al club dai quali erano nati a Parigi il governo di Robespierre e il Terrore». Ormai però il gioco era fatto. La regina Maria Carolina (sorella della moglie di Luigi XVI decapitata in Francia con il marito) si mise alla testa di un’offensiva contro i «giacobini» napoletani e quando, dopo alcuni complotti che videro anche Eleonora in veste di «sospettata», fu scoperta nel 1794 una vera congiura, la repressione con partecipazione festante dei «lazzari», fu violentissima: recisione delle mani, lingue estirpate, teste tagliate, corpi dei supposti cospiratori bruciati in piazza.
Nel 1794 si concluse la fase più sanguinosa della Rivoluzione in Francia. Venne poi l’epoca del Direttorio, Napoleone iniziò la campagna d’Italia e Ferdinando IV — pur sospettoso — cercò di inserirsi nel gioco politico. Ma Maria Carolina tenne duro nella sua ispirazione violentemente antifrancese. Finché gli eventi precipitarono: a fine dicembre 1798 la corte fuggì a Palermo sul vascello Vanguard messo a disposizione dall’ammiraglio Nelson. E venne il tempo della Rivoluzione napoletana — «facilitata» dai 28 mila soldati del generale Championnet — che iniziò con l’assalto alle carceri e la liberazione dei detenuti. La fortezza di Gaeta si arrese ai francesi senza combattere. Gli uomini che il re aveva lasciato a sovrintendere la resa si diedero alla fuga e, scrive la Orefice, la plebe napoletana reagì con ira: «Con aria spavalda e minacciosa i peggiori criminali percorrevano strade e vicoli intenzionati a difendere valori religiosi, politici e morali» contro i francesi che si comportavano come un esercito di occupazione. Fu la situazione parossistica che si trovò ad affrontare Eleonora la quale, quarantasettenne, ottenne dal governo provvisorio la direzione del «Monitore Napoletano», giornale nato sul modello di quelli che avevano accompagnato l’intera campagna napoleonica.
A differenza però di altri fogli, quello della Pimentel fu critico anche nei confronti dei «liberatori» francesi. Nel senso che i «giacobini» partenopei furono percepiti più come collaborazionisti che rivoluzionari. Non però Eleonora. Il numero del 26 marzo del «Monitore» denunciò il generale Antonio Gabriele Venanzio Rey per le «manovre economiche estorsive» nei confronti della popolazione. Il numero precedente aveva rivelato una frode del generale Guillaume Duhesme. Rey cercò di censurare il giornale e di fare arrestare il tipografo, Gennaro Giaccio. La Pimentel tenne duro, smascherò le ruberie del generale francese e ne ottenne la rimozione. Un secolo e mezzo dopo (nel 1947) Benedetto Croce diede risalto a quell’articolo del «Monitore» che diceva molto dell’integrità morale della Pimentel. Il giornale ebbe vita breve. Come, del resto, la Rivoluzione napoletana. L’ultimo numero del «Monitore» fu il trentacinquesimo, pubblicato l’8 giugno 1799.
Le truppe del cardinale Fabrizio Ruffo che, su autorizzazione di re Ferdinando, da febbraio erano risalite dalla Sicilia reclutando un grandissimo numero di contadini e popolani — fu per dimensioni l’unica esperienza autenticamente popolare in quella fase della storia d’Italia — giunsero a Napoli. Al grido di «Viva Sant’Antonio» (in polemica con San Gennaro, accusato di aver «fatto il miracolo» al cospetto di Championnet, regalando popolarità al generale francese) e «Viva Santafede» entrarono in città. Fu il finimondo: i preti rimasti a Napoli o nei dintorni che non avevano preso parte alla spedizione di Ruffo, per dare testimonianza di adesione alla causa borbonica, «incitavano al massacro e benedicevano ogni scelleratezza». I seguaci della Rivoluzione, individuati spesso in modo approssimativo, venivano uccisi, fatti a pezzi: parti del loro corpo furono arrostite e mangiate; le teste decapitate erano prese a calci in un macabro gioco di strada. Il cardinale Ruffo (che questo libro in qualche modo rivaluta rispetto alla demolizione che di lui ha fatto la storiografia risorgimentale) accettò il 19 giugno una resa molto vantaggiosa per i rivoluzionari ai quali (quasi tutti) sarebbe stato consentito di espatriare o riprendere la propria vita nel regno. Il trattato, secondo cui «i prigionieri di entrambi gli schieramenti» dovevano «essere subito rimessi in libertà», fu firmato anche dal rappresentante inglese. Ma Nelson, in nome del re Ferdinando, respinse i patti pur sottoscritti da un emissario britannico. Il cardinale Ruffo si ribellò all’ammiraglio che, dopo un’estenuante trattativa, accettò di fare imbarcare alcuni rivoluzionari, tra i quali avrebbe dovuto essere Eleonora. A quel punto però re Ferdinando pretese che uomini e donne che avevano avuto un ruolo da protagonisti nel ’99 napoletano fossero fatti prigionieri e in gran parte impiccati.
Si ebbero alcune sorprese: i lazzari — aizzati in parte da Lady Hamilton, amante di Nelson — si scagliarono contro i sanfedisti accusandoli di parteggiare per i repubblicani. Il cardinale Ruffo, che si era battuto per comportamenti leali a favore di coloro che si erano arresi, a questo punto si dimise da ogni incarico. Quando poi tornò a Napoli (per un mese soltanto, ospite della nave Foudroyant di Nelson ancorata in porto, prima di tornarsene a Palermo dove sarebbe rimasto due anni), Ferdinando IV, «per evitare che si creasse una frattura con i sostenitori del cardinale», respinse le dimissioni e lo nominò luogotenente generale del regno, carica corrispondente a quella di un viceré. Poi però diede inizio alle esecuzioni, a partire da quella dell’ammiraglio Francesco Caracciolo che lo aveva sì accompagnato a Palermo nel dicembre 1798, ma nel marzo successivo lo aveva «tradito» per unirsi ai rivoluzionari. E battersi, valorosamente, contro la flotta borbonica nei mari di Procida, Sorrento e Castellammare.
Dal re fu poi dato l’ordine di annullare qualsiasi provvedimento preso in virtù degli «infami principi democratici» nonché di «togliere dagli archivi e dai processi tutte le carte» che potessero in un futuro provare l’esistenza di quella «sedicente Repubblica». E soprattutto il massacro ad essa seguito. Tale provvedimento «mirava», sostiene l’autrice, «a distruggere la memoria storica di quegli eventi di cui nessuno avrebbe dovuto più proferire parola o cercare di emulare, pena la morte». La repressione durò cinque anni. Fu una delle più spietate operazioni di cancellazione della memoria. Ne fu vittima anche la Pimentel, riacciuffata, processata, giustiziata e poi «riraccontata». Si diffuse la diceria che la direttrice del «Monitore napoletano» fosse stata condotta al patibolo priva di mutande, cosa che «avrebbe consentito, a maggiore soddisfazione della plebe, di poter osservare la fuoruscita dell’utero in seguito all’impiccagione». Secondo Enzo Striano — ne Il resto di niente(Mondadori) — qualcuno le avrebbe offerto in extremis una spilla per congiungere i lembi della veste. Ma la Orefice dimostra che si tratta di leggende, anche in quest’ultima versione più pietosa.
All’inizio del 1806 nuovo giro di boa: giunse a Napoli il generale napoleonico Massena, che mise di nuovo in fuga Ferdinando alla volta di Palermo.
Su Napoli regnarono prima Giuseppe Bonaparte, poi Gioacchino Murat. Ferdinando tornò sul trono nel 1815 come re delle Due Sicilie. Ma stavolta si impegnò nella «politica dell’amalgama», cioè a tenere al loro posto sia i funzionari dell’apparato statale che gli ufficiali dell’esercito promossi dai francesi. La damnatio memoriae sopravvisse solo nei confronti dei rivoluzionari del 1799. In particolare per Eleonora. Accusata, volta a volta, di esser stata «la borbonica, la poetessa, la traditrice, la femminista, la rivoluzionaria, l’esaltata, l’infanticida, la sublime e finanche l’ermafrodita», tutte definizioni «arbitrarie, forzate e spesso offensive», avallate purtroppo «dalle incolmabili lacune documentarie». Lacune che però Antonella Orefice è riuscita in grandissima parte a colmare. Restituendo alla Pimentel ciò che era doveroso restituirle.
Casa Scaccabarozzi, comunemente nota ai torinesi come Fetta di polenta, è un edificio storico di Torino situato nel quartiere Vanchiglia, all’angolo tra corso San Maurizio e via Giulia di Bartolo; in passato fu nota anche come «Casa luna» e «la spada».
Progettata da Alessandro Antonelli, architetto piemontese dell’ ottocento, noto per le sue architetture funzionali di stile eclettico, tra cui la Mole Antonelliana, il nome ufficiale deriva dal cognome della moglie dell’architetto, Francesca Scaccabarozzi, nobildonna originaria di Cremona. La coppia visse nell’edificio soltanto per pochi anni, per trasferirsi poi nell’edificio adiacente, sempre di progettazione antonelliana, di via Vanchiglia 9, angolo corso San Maurizio.
Intorno al 1840 fu edificato, per volere dei marchesi di Barolo, il sobborgo un tempo noto come il quartiere del moschino, coincidente con l’attuale quartiere Vanchiglia, per via dei numerosi insetti dovuti alle vicinanze del fiume Po. Le costruzioni furono realizzate dalla Società Costruttori di Vanchiglia, alla quale si aggregò l’architetto Antonelli. Come compenso per i lavori gli fu ceduto anche il piccolo terreno sull’angolo sinistro di Via dei Macelli, coincidente con l’attuale Giulia di Barolo, tuttavia di esigua area. Fallite le trattative per acquistare il terreno confinante, forse per scommessa o forse per sfida, decise quindi di costruire un edificio da reddito con un appartamento per ciascun piano, malgrado l’esiguo spazio a disposizione e recuperando in altezza ciò che non poteva sfruttare in larghezza. L’edificio venne costruito in più fasi: nel 1840 vennero realizzati i primi quattro piani e, in un secondo tempo, ne vennero aggiunti altri due; nel 1881, come ulteriore dimostrazione di destrezza tecnica, venne aggiunto l’attuale ultimo piano.Vinta la sfida, Antonelli donò l’edificio a sua moglie.
Ormai divenuto il simbolo del quartiere, l’edificio, che per l’epoca si opponeva alle regole classiche in fatto di costruzioni, si guadagnò presto il soprannome di “Fetta di polenta” in virtù dell’inconsueta planimetria trapezoidale, con uno dei prospetti laterali di appena cinquantaquattro centimetri, e per il prevalente colore giallo.
Per fugare i dubbi sulla sua stabilità e per sfidare chi sosteneva che l’edificio sarebbe crollato, Antonelli vi si trasferì per qualche anno ad abitarci con la moglie. A ulteriore smentita di questa comune diceria contribuì anche la capacità di resistere indenne all’esplosione della regia polveriera di Borgo Dora avvenuta il 24 aprile1852, che lesionò gravemente molti edifici della zona. Inoltre, successivamente, resistette anche al sisma del 23 febbraio 1887, che danneggiò parte del quartiere; infine fu risparmiato dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale che colpirono duramente gli isolati circostanti.
Tra il 1979 e il 1982 l’edificio fu oggetto di un primo importante restauro e di una particolare decorazione dei suoi interni ad opera dell’architetto e scenografo Renzo Mongiardino, che operò su tutti i nove piani dell’edificio, trasformandolo in un’unica unità abitativa. Annoverato tra gli edifici tutelati dalla Soprintendenza per i Beni architettonici del Piemonte, dal marzo 2008 al maggio 2013 ha cambiato destinazione d’uso, diventando il contenitore dei progetti della galleria Franco Noero, ritornando quindi allo stato di abitazione privata nell’estate del 2013, pur mantenendo al suo interno installazioni di arte contemporanea visitabili privatamente
Negli anni del Risorgimento l’edificio divenne noto anche per aver ospitato al pian terreno il Caffè del Progresso, storico ritrovo di carbonari e rivoluzionari torinesi Nel 1874 in occasione del centenario della morte di Niccolò Tommaseo, il Comune di Torino pose una lapide in memoria del suo soggiorno nell’edificio nel 1859.