
XX SETTEMBRE
Oggi qui ricordiamo la Breccia di Porta Pia che unì Roma all’Italia e significativamente a 80 anni dalla fine della II guerra Mondiale per la prima volta si ricordano gli IMI, quei 600000 soldati e ufficiali italiani che rimasero nei campi di prigionia tedeschi fino alla fine della guerra e non aderirono alla RSI. È un atto simbolico forte aver collegato la ricorrenza di oggi con una scelta di uomini coraggiosi che al rientro in patria hanno dato il loro contributo alla rinascita del paese.
“Ché schiava di Roma/Iddio la creò” recita la prima strofa del Canto degli Italiani composto da Goffredo Mameli con musica di Michele Novaro nel 1847 e dalla Repubblica Romana nel 1849 fu un’aspirazione costante dei programmi di unificazione italiana. Era un sogno che univa trasversalmente programmi politici di diversa impostazione: avviato dai democratici con la Repubblica Romana e proseguito poi con le sfortunate spedizioni garibaldine del 1862 (Aspromonte) e del 1867 (Mentana) si realizzò per l’intervento dell’esercito italiano dopo la fine del II impero francese, nonostante che subito dopo l’unità già Cavour nel 1861, prima di morire, avesse affermato solennemente che Roma era l’obiettivo del programma di unificazione nazionale. Subito dopo, una volta diventato primo ministro, il cattolico liberale Bettino Ricasoli avviò tentativi diplomatici per convincere il papa Pio IX e la curia romana a risolvere il nodo di Roma in modo pacifico, ma senza successo. La breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870 segnò la fine del potere temporale dei papi con l’apertura dell’ultimo ghetto in Europa e l’inizio di un percorso lungo e difficoltoso per la storia d’Italia. Come 100 anni dopo sottolineò Paolo VI, quell’evento fu una benedizione per la Chiesa perché la liberò dagli impicci della gestione di affari che la distraevano dalla sua missione spirituale.
Al tempo di Pio IX la maggior parte del mondo cattolico riteneva che il potere temporale fosse necessario per dare autonomia al papato proprio per la sua missione spirituale. Invece lo stato italiano non impedì alla Chiesa di portare avanti la sua missione spirituale: lo Statuto albertino, per quanto restrittivo nel dare rappresentanza alla totalità dei “regnicoli”, con il rinforzo della legge delle Guarentigie del 1871, garantiva che la religione cattolica era religione di Stato. Nel 1848 con le Regie lettere patenti era stata garantita la libertà di culto alle minoranze di ebrei e valdesi e con l’unità le leggi dello Stato non impedirono alle organizzazioni religiose cattoliche e non di svolgere attività caritativa e assistenziale a favore dei più bisognosi e alle gerarchie di svolgere la propria attività. Per citare un esempio a noi vicino, la Venerabile Arciconfraternita della Misericordia continuò la sua opera e in tutta Italia, nonostante le requisizioni dei beni della Chiesa per le necessità del nuovo Stato, le istituzioni ecclesiastiche continuarono la loro opera senza impedimenti. Però per la Chiesa del Sillabo e del dogma dell’infallibilità papale la fine dello Stato della Chiesa era un attacco a un diritto divino, dovuto alle influenze del liberalismo e di tutte quelle conquiste che per noi oggi sono inalienabili. Per i cattolici non era conveniente (non expedit) partecipare alla vita politica di quello Stato che aveva soppresso il potere del papa-re, dando origine alla cosiddetta “questione romana” che si sarebbe conclusa soltanto l’11 febbraio 1929 con la stipula dei Patti Lateranensi e del concordato, rinnovato nel 1984. Questa frattura era destinata a pesare nella vita dello stato, creando non pochi problemi di coscienza a quei cattolici che come Alessandro Manzoni, Gino Capponi, Bettino Ricasoli – i cattolici liberali – avevano dato il loro contributo al processo di unificazione e continuavano, anche dopo Porta Pia, a partecipare alla costruzione dello stato unitario. Con il non expedit per loro si chiudeva definitivamente la speranza di una riforma endocattolica che, sottraendo la Chiesa agli interessi mondani (le cinque piaghe denunciate dall’abate Rosmini), le ridesse lo spirito evangelico delle origini.
Roma capitale d’Italia significava la costruzione, già avviata a Torino e a Firenze, di uno stato laico, moderno in cui fossero garantiti la libertà d’espressione, il libero pensiero, il progresso scientifico e umano. Per un paese come l’Italia, ancora arretrato, si trattò di obiettivi non facili da raggiungere, eppure, nonostante le ombre che offuscarono il cammino, gli Italiani dimostrarono di voler essere un popolo. Infatti fin dai primi anni dopo l’unità il Paese fu funestato da lutti: oltre alla III guerra d’indipendenza, epidemie di colera, alluvioni e disastri videro subito una gara di solidarietà nel raccogliere fondi ed aiuti vari per le popolazioni più sfortunate. E questo dopo che per secoli stati e staterelli nella penisola avevano fatto politica autonomamente, senza alcun coinvolgimento dei propri abitanti. La stampa degli anni ’60 del XIX secolo si faceva portavoce di iniziative spontanee di comitati, anche femminili, che si impegnavano per aiutare chi soffriva. Ancora nel 1908-1909 con il terremoto calabro-siculo e poi nel 1915 con il terremoto della Marsica si vide una grande solidarietà nel Paese con la presenza sul campo di istituzioni e volontari della Croce Rossa, delle Misericordie e delle Pubbliche Assistenze. I volontari che da ogni parte d’Italia anche recentemente sono andati a portare aiuto laddove c’era bisogno – la Romagna, la piana fra Firenze e Pistoia – sotto le insegne della Protezione civile, e le raccolte di fondi organizzate da più parti ci ricollegano idealmente a quei nostri predecessori, sono il filo rosso che riunisce la comunità nazionale al suo passato e al suo futuro.
La fine del potere temporale dei papi non ha risparmiato al Paese il rischio del temporalismo, che si manifesta in forme e modi che in altri paesi dell’Occidente sono sconosciuti. Studi recenti hanno messo in evidenza come la circolare Buffarini Guidi contro la pratica del culto pentecostale del 1935 sia rimasta in vigore ancora nell’Italia repubblicana. Sta proprio a noi che celebriamo qui oggi il 20 settembre combatterlo con il dialogo che riaffermi le tutele dello stato laico, che garantiscono tutti, credenti cattolici e di altre fedi e non credenti. Così sarà possibile continuare ad affrontare le sfide che lo spostamento di tanti uomini e donne da terre lontane ci pongono, ricordando sempre che i valori della dignità di uomini e donne, bambini e bambine, vecchi e giovani, della libertà di espressione, di ricerca e di insegnamento sono un vantaggio per tutti. Solo così l’incontro con diverse culture potrà non trasformarsi in scontro di civiltà difendendo sempre le conquiste che la breccia di Porta Pia – libertà, uguaglianza, fratellanza, giustizia sociale – portava idealmente con sé, senza mai dimenticare il sacrificio di chi in ogni tempo si è impegnato per affermarli.
Intervento di Alessandra Campagnano del Comitato Fiorentino per il Risorgimento alla annuale Commemorazione della Breccia di Porta Pia del 1870, promossa dal Comune di Firenze , Comitato Fiorentino per il Risorgimento, Circolo Gobetti, Fondazione Rossi Salvemini sabato 20 settembre 2025 in piazza dell’Unità a Firenze



Società e cultura in Toscana dal Congresso di Vienna alla prima Guerra d’Indipendenza (1815/1848) 