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Solo un demiurgo ci può salvare

06/10/2012 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

L’«idea forza» di Filippo Burzio                        Arturo Colombo    Corriere della sera  1 ottobre

Chi ha letto il dialogo Timeo, ricorda che Platone usa il termine «demiurgo», per definire una sorta di divinità, di creatore e artefice del mondo; ma ormai questa parola è pochissimo usata.

Anche se a recuperarla e rimetterla in circolazione è stato, negli anni 30-40 del secolo scorso, un singolare umanista e scienziato, Filippo Burzio, un piemontese vissuto dal 1891 al 1948 (direttore de «La Stampa» negli ultimi tre anni), cui adesso Paolo Bagnoli dedica un lungo e impegnativo profilo biografico dal titolo Una vita demiurgica (Utet, pp. XIV-296, 18).

Infatti, Il demiurgo e la crisi occidentale, apparso nel 1933, non è solo l’opera maggiore di Burzio; è anche «il punto di arrivo di un’idea lungamente incubata», sostiene nel suo libro Paolo Bagnoli, spiegando che «il demiurgo si propone di essere la risposta all’insieme della crisi alla stregua di un’idea-forza che è, al contempo, anche un ideale pratico: due fattori che, da una parte, interpretano la crisi in atto e, dall’altra, ne prospettano le vie risolutorie».

Per Burzio la crisi dell’Occidente è tanto più grave, perché costituisce il risultato di un duplice fallimento, nel campo della filosofia e in quello della scienza, che ha finito per ostruire, o addirittura cancellare – a danno dei singoli e della collettività – qualunque prospettiva di felicità. Invece, ogni essere umano – insiste Burzio – ha bisogno, per essere felice, «di gusto della vita e di fede nell’azione»: con la conseguenza, anzi la certezza per Burzio, che il mondo in cui viviamo acquisterebbe un notevole valore migliorativo, se si riuscisse a rendere operante l’esigenza del demiurgo – esatta «antitesi rispetto all’individuo collettivizzato dal comunismo sovietico e all’individuo massificato dal consumismo americano», come precisa Valerio Zanone nella presentazione.

Nonostante l’indubbia originalità, però, questa tesi burziana non ha avuto finora una grande fortuna. Semmai, molto più nota e, soprattutto, più aderente alla situazione politico-sociale, è un’altra opera, che Filippo Burzio pubblicò all’indomani del crollo del fascismo, che lo aveva visto avversario rigoroso («granitico» lo definisce Paolo Bagnoli) fin da quando, nel 1925, era stato tra i firmatari del manifesto promosso da Croce in risposta a quello degli intellettuali fascisti, preparato da Gentile. Essenza ed attualità del liberalismo si intitola questo saggio, apparso nel 1945, che riflette bene la f orma mentis di Burzio, un liberale di ascendenza cavouriano-giolittiana, e che nel contempo insiste a sottolineare il ruolo fondamentale svolto dalle élite, ossia dalle minoranze attive che costituiscono la vera classe politica, soprattutto all’indomani di una disastrosa esperienza autoritaria. Soltanto un regolare, periodico avvicendarsi delle élite al potere costituisce a suo giudizio, come logica conseguenza, un’autentica garanzia per qualunque democrazia liberale.

Converrà non dimenticarlo mai, nemmeno ai giorni nostri.

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