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Sogni, patria, spada. E Mameli a vent’anni scrisse il nostro inno

15/04/2024

Garibaldi, che lo ebbe tra i suoi più coraggiosi e affidabili ufficiali, ne ricordava «il volto d’angelo». Per Mazzini, «era impossibile vederlo e non amarlo». E un intero coro di testimoni meno illustri potrebbe confermare il fatto che Goffredo Mameli era una di quelle persone destinate a imprimersi come un sigillo indelebile nella memoria di chi le ha conosciute. Il rimpianto si trasformò rapidamente in leggenda, mentre si perpetuava la memoria di quel Canto degli italiani che, composto nel settembre del 1847 e subito dopo musicato da Michele Novaro, diventerà il nostro inno nazionale seguendo un iter burocratico e legislativo così tortuoso che potrà dirsi concluso solo dalla «Gazzetta Ufficiale» del 15 dicembre. Mameli, nato a Genova il 5 dicembre del 1827,  compose le sei strofe dell’inno a vent’anni esatti. Non sarebbe arrivato a compierne ventidue. Anche le sciagurate vicende della sua morte, il 6 luglio del 1849, sono ben documentate. Accorso a Roma per difendere la Repubblica dagli assedianti borbonici e francesi, Mameli aveva combattuto con Garibaldi a Palestrina e Velletri, e quando arrivarono le truppe del generale Oudinot e i combattimenti si concentrarono intorno al Gianicolo e a Trastevere, partecipò alla battaglia per il possesso di Villa Corsini, dove il 3 giugno fu ferito a una gamba, ricavandone un’infezione incurabile. Se è legittimo paragonare ogni vita, breve o lunga che sia, a una specie di miccia che una volta accesa arde inesorabilmente, quella di Mameli non fu solo cortissima, ma incredibilmente piena di eventi e di passioni.

Al centro degli eventi

Ci sono, in ogni epoca storica, uomini e donne che nascono con il particolare e inimitabile talento di stare al centro degli eventi, lì dove nascono e si propagano le cosiddette «notizie», come se i loro polmoni fossero in grado di respirare l’aria dei tempi più profondamente degli altri. Stendhal, che tra i giganti dell’Ottocento fu il più acuto e infaticabile interprete del nostro carattere nazionale, affermò che gli italiani non avevano bisogno di scrivere e leggere romanzi, perché la forza delle loro passioni era tale che ognuno poteva vivere il suo romanzo facendo a meno della mediazione dei libri. Sono generalizzazioni sempre discutibili, anche quando provengono da un genio, ma nella vita di Mameli il tratto avventuroso e romanzesco è evidente. Il già citato Mazzini, che fu il suo faro e maestro, lo paragonò addirittura a Byron, prototipo dell’eroe romantico, nel quale convivono la sensibilità del poeta e la forza d’animo del guerriero. Così Mazzini ricorda il giovane amico: «tenero di fiori e profumi», trasognato e incline all’abbandono, ma al solo sentire il nome di «patria» capace di trasformarsi completamente, tanto che in quei momenti lo si sarebbe detto «nato soltanto a trattar la spada». Ma per quanto ammirasse Byron e Leopardi, la breve e intensissima esistenza di Mameli fu nutrita da ideali democratici e repubblicani che lo distanziarono dalla fisionomia fondamentalmente aristocratica di quei grandi modelli.

No ai compromessi

Fedelissimo a Mazzini, che definiva «l’anima più potente e più pura che ora viva in Italia», il poeta del Canto degli italiani, a leggere le sue prose giornalistiche e polemiche, si rivela un vero uomo di parte, insofferente di compromessi e giochi diplomatici. Nel mosaico delle varie e spesso difficilmente conciliabili correnti di pensiero politico del Risorgimento Mameli si colloca, per così dire, all’estrema sinistra, convinto com’era che, una volta vinti i nemici austriaci e borbonici sul campo di battaglia, solo il suffragio universale e un’assemblea costituente avrebbero completato e perfezionato la nascita di una patria italiana.

Appassionato

Molto più che nelle poesie, sovraccariche di convenzioni letterarie e luoghi comuni sentimentali, è negli interventi politici apparsi sui giornali tra il 1848 e il 1849 che si delinea nitido il profilo intransigente e appassionato di Mameli. Sono articoli rapidi, privi di fronzoli retorici, incalzati dal susseguirsi degli eventi della prima guerra di indipendenza. C’è poco spazio, in questi scritti che immaginiamo facilmente composti in fretta e furia, per la riflessione astratta e la filosofia politica. Mentre le notizie esaltanti si alternano alle più cocenti delusioni, tra battagli ed armistizi, Mameli mostra un’indole pragmatica sorprendente in un ragazzo di vent’anni, consapevole che «frutto della tirannide era la divisione, e frutto della divisione era la tirannide». Più che soldati al servizio di una dinastia, gli insorti per la patria andavano considerati come dei «cittadini armati», capaci di imparare dagli errori del passato. Leggendo questi articoli, è impossibile non pensare che a Mameli furono risparmiate dalla morte così precoce tutte le disillusioni che il passare del tempo porta con sé. Della realtà in cui viveva, gli toccarono in sorte solo gli aspetti più esaltanti, le certezze più radiose, le energie morali e psicologiche della battaglia in corso. Molti come lui, scampati al fuoco nemico, conobbero anche il risvolto amaro della grande avventura, quel venire a patti forzati con il grigiore della vita quotidiana raccontato in maniera magistrale da grandi scrittori come Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Per Mameli, il futuro dell’italia rimase una specie di utopia luminosa, una pura riserva di futuro ancora intatta, disponibile ai sogni più ottimisti.

Polvere e sangue

Anche per questo motivo ritengo del tutto insensate le ricorrenti polemiche sul nostro inno nazionale e le proposte, anche autorevoli, di sostituirlo con testi e musiche di maggiore spessore estetico. Non si possono giudicare così in astratto, come se partecipassero a un premio letterario o a una gara musicale, né i versi di Mameli né la melodia di Novaro. E pura follia è la pretesa di correggere le parole di un inno nazionale accusandolo di sciovinismo o di militarismo. Semmai, il vero problema degli inni, di tutti gli inni, è che chi li scrive sta a casa sua, mentre tocca agli altri morire mentre li cantano. Ebbene, non è andata così con i versi di Goffredo Mameli: se scriveva al plurale «siam pronti alla morte», pronto alla morte lo era lui per primo, e questa coincidenza totale delle parole e dei fatti, se non è unica, è comunque molto rara negli annali della letteratura. Se cerchiamo un grande poeta, sicuramente bisogna guardare altrove; ma il nostro inno è così intriso della polvere e del sangue della storia che c’è solo da andarne fieri.

Emanuele Trevi  Corriere della Sera 15 aprile 2004

Goffredo Mameli, interpretato da Riccardo De Rinaldis Santorelli nella serie tv

Mameli – Il ragazzo che sognò l’Italia

Pubblicato in: Focus
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