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E Russell incontrò Lenin

03/11/2017 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Mario Ricciardi  Sole 24 Ore 28 ottobre

 

Nel maggio del 1920 una delegazione di “osservatori imparziali”, messa insieme dal Governo Britannico su richiesta dei sindacati, arriva a San Pietroburgo con l’incarico di studiare le condizioni economiche, politiche e sociali del paese a meno di tre anni dalla rivoluzione bolscevica.

Tra i delegati c’è anche il matematico e filosofo Bertrand Russell. Già noto per i suoi importanti studi sulla logica e i fondamenti della matematica, Russell era una figura di primo piano nella vita politica britannica, impegnato da anni in difesa di cause “radicali” – dal controllo delle nascite al voto per le donne, fino al pacifismo nel corso della Prima Guerra Mondiale – egli aveva aderito di recente al socialismo pluralista teorizzato da G.D.H. Cole. Le sue convinzioni politiche progressiste lo spinsero a usare la propria influenza negli ambienti del Governo – in fondo era pur sempre il fratello del Conte Russell, membro della House of Lords – per ottenere l’invito a unirsi alla delegazione. Ecco perché, dopo qualche giorno dall’arrivo in Russia, troviamo il filosofo a tu per tu con il capo dei Bolscevichi, uno degli uomini più temuti e odiati al mondo, Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin.

Di questo incontro, che avviene nello studio del leader politico, Russell ci ha lasciato un memorabile resoconto, pubblicato poche settimane dopo nel suo libro The Practice and Theory of Bolshevism. Apprendiamo che un interprete è presente, ma che rimane per lo più in silenzio perché l’inglese di Lenin è buono. Nella stanza, arredata in modo spartano, i due discutono di politica internazionale, dei risultati ottenuti dai Bolscevichi, in particolare per quel che riguarda l’elettrificazione dell’industria, dell’opposizione dei contadini – nei confronti dei quali Lenin non manifesta grande simpatia – e delle prospettive di una rivoluzione proletaria nel Regno Unito.

Anche quando emergono disaccordi, il tono rimane cordiale. Lenin ride spesso. Russell trova queste risate dapprima amichevoli e rincuoranti, tuttavia, mano a mano che la conversazione procede, esse assumono un tono sinistro. Russell è tra i primi, seguito da una lunga schiera di intellettuali progressisti europei e statunitensi, a riconsiderare la propria iniziale simpatia nei confronti della rivoluzione bolscevica, sottolineandone gli esiti totalitari. Si distingue tuttavia dalla grande maggioranza dei critici per la rapidità con cui giunge alle proprie conclusioni negative, e perché un ruolo non secondario nella formulazione del suo giudizio ha l’aver incontrato di persona Lenin.

Oggi, a distanza di cento anni dalla presa del Palazzo d’Inverno, è molto difficile non farsi condizionare dal peso di questa tradizione negativa, e da ciò che sappiamo del fallimento del regime sovietico. La pubblicazione di una nuova edizione critica di Stato e rivoluzione di Lenin ci offre comunque un’opportunità di grande interesse: provare per un momento a sospendere il giudizio, per ritornare alle origini. Lenin, infatti, scrive questo lavoro, uno dei più letti e discussi tra i suoi contributi, nell’estate del 1917, a poche settimane dagli eventi che condurranno alla presa del potere da parte dei Bolscevichi. La stesura dell’ultimo capitolo, si legge nel poscritto del 30 novembre, viene rimandata.

Fare l’esperienza della rivoluzione, afferma Lenin, è più piacevole e utile che scriverne (possiamo immaginare che dopo aver affidato al foglio questa battuta Lenin si sia lasciato andare a una risata come quelle descritte da Russell). Non c’è dubbio che il tema fondamentale del saggio, come ha scritto Lucio Colletti, è la rivoluzione come «atto distruttivo e violento». Questo, in realtà, è un punto d’arrivo della sua riflessione. Dapprima Lenin ritiene che il compito del proletariato in Russia sia portare a termine una rivoluzione democratica, nell’ambito di una rivoluzione socialista europea. C’è, in tale opinione, l’eco del dibattito sulle condizioni sociali arretrate in cui si trova la Russia dei primi del secolo scorso, che non soddisfano i requisiti descritti da Marx nelle sue riflessioni sul crollo del Capitalismo.

In questa fase, Lenin sembra avere ancora una concezione “gradualista” della rivoluzione, l’avversario è Bucharin. Ben presto, tuttavia, la situazione politica si evolve, e il capo dei Bolscevichi si convince che sono maturate le condizioni per osare di più. In questa mutata prospettiva, egli comincia a redigere le note che diventeranno, dopo un percorso editoriale ricostruito in questa edizione nel saggio introduttivo di Tamás Krausz, Stato e rivoluzione.

Richiamando gli scritti di Marx e Engels sulla Comune di Parigi del 1871, Lenin indica gli aspetti centrali del processo di distruzione violenta dello Stato che costituisce l’obiettivo della rivoluzione: l’introduzione del mandato imperativo, la revocabilità permanente dei funzionari, il superamento della rappresentanza parlamentare che deve essere sostituita da un organo esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Una forma radicale di democrazia diretta che attui il sogno dell’autogoverno dei produttori. Per realizzarla, Lenin deve mettere nell’angolo i compagni che vorrebbero seguire la strada parlamentare. Di qui la feroce polemica con Kautsky che lo impegna per buona parte del capitolo conclusivo.

Due anni dopo la visita di Russell a Lenin, un ragazzino di dodici anni, la cui famiglia si è da poco trasferita nel Regno Unito per sottrarsi alle violenze seguite alla rivoluzione bolscevica, scrive un breve racconto basato su un episodio di cui forse era stato testimone oculare quando ancora viveva a San Pietroburgo. Narra l’uccisione, da parte di un tal Kunnegiesser, esponente della piccola nobiltà locale, di Moise Solomonovich Uritsky, un funzionario della Cheka. Nel firmare le condanne a morte, leggiamo in questo breve componimento, Uritsky si rifaceva al motto che aveva assunto come guida nella sua azione politica: «il fine giustifica i mezzi».

L’assalto al cielo dei Bolscevichi aveva provocato la discesa agli inferi di una parte dei russi. Molti anni dopo, quel giovane rifugiato, il cui nome era Isaiah Berlin, lo ricordava ancora con un brivido d’orrore.

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