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Perché la scuola di massa tradisce la scuola di cultura

26/08/2013 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertinaEra il retaggio umanistico a creare uguaglianza  

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA    18/08/2013   Corriere della sera

Non credo che ci siano molte probabilità che il libro di Adolfo Scotto di Luzio, La scuola che vorrei (Bruno Mondadori, pp. XX-122, € 15), venga letto dal ministro Carrozza. Peccato, perché le sarebbe senz’altro di grande utilità. In verità mi accontenterei che le sue pagine fossero lette e meditate dai membri delle due Commissioni parlamentari intitolate all’istruzione. Ma anche in questo caso non mi faccio illusioni: lo spero giusto perché, come si dice, la speranza è l’ultima a morire.
Quello di Scotto di Luzio — uno dei rari studiosi che guardano alle cose della scuola non con occhiali di specialista ma con acuta sensibilità d’intellettuale (secondo un costume che in Italia ha avuto il suo fulcro nella grande tradizione della pedagogia idealistica: ahimè da tempo sbriciolatasi) — è un libro nuovo e importante. Anzi unico, direi, per il punto di vista che fa proprio e che lo anima. Un punto di vista che può essere riassunto in poche righe: la contrapposizione tra scuola democratica e scuola di élite — una contrapposizione sulla quale per decenni si è fondato il dibattito politico italiano — non ha senso. Parlando di scuola, infatti, secondo l’autore, la vera distinzione non passa tra democrazia e antidemocrazia, ma tra scuola di massa e scuola di cultura. Non averlo capito è ciò che ha prodotto «il grande equivoco della scuola democratica», consistito nel «pensare che distruggendo le basi della cultura tradizionale si sarebbe permesso a molti di raggiungere i vertici dell’istruzione».

La scuola democratica per tutti, in altre parole, ha creduto che per esistere essa dovesse troncare ogni relazione, e anzi porsi in rapporto polemico, con la scuola per le élite dell’età liberale. Un errore — frutto innanzi tutto di una clamorosa miopia storiografica — che ha comportato un prezzo altissimo: cioè quello di gettare a mare la tradizione dello Stato nazionale e della sua cultura nella quale affondava per l’appunto le radici la scuola per le élite di matrice ottocentesca. Si è pensato stoltamente che per le masse quella tradizione e la sua cultura rappresentassero un ferrovecchio, un pericoloso trabocchetto classista sulla strada del loro progresso. Si è completamente oscurato il fatto importantissimo che invece quella tradizione aveva soprattutto rappresentato uno scudo potente contro il mondo: un formidabile dispositivo di difesa contro gli imperativi brutali della politica, dell’economia, del mercato del lavoro.

 Priva di un tale scudo la scuola democratica, la nostra scuola, si è trovata indifesa: alla mercé della burocrazia ministeriale, delle famiglie, delle mode, delle ragioni del «privatismo» — inteso vuoi come l’illusione di una possibile configurazione e gestione di tipo aziendal-privatistica dei singoli istituti scolastici, vuoi inteso come l’ambizione a fornire curricula ritagliati sul singolo studente e sulle sue specifiche attitudini ed attese.
Specialmente da condividere a me pare un’osservazione centrale che fa Scotto di Luzio. Vale a dire che tutt’altro che far attingere più facilmente il traguardo dell’eguaglianza, il rifiuto del retaggio umanistico proprio dell’antica ed elitaria scuola di cultura, ha voluto dire, paradossalmente, l’impossibilità per la scuola democratica proprio di essere tale, di essere democratica. Era precisamente quel retaggio e i suoi prodotti letterari, storici, artistici, filosofici, infatti, era il loro studio e il loro assorbimento, ciò che assolveva alla funzione di integrazione nazionale, di costruzione di una koiné, di un senso del «noi», a sua volta premessa indispensabile di ogni civica égalité o fraternité. Obbligata a fare a meno di questo «noi», frutto e insieme possibilità di una storia comune, ecco allora la nostra scuola democratica cercare un surrogato facendo ricorso a un diverso «noi», a un «noi» inteso come «metodologia della cooperazione educativa». Divenendo cioè, in qualche modo, il contenuto di sé medesima: la sua identità non consiste più nell’essere il luogo dove s’insegnano delle cose quanto nell’essere il luogo dove si applicano le tecniche dell’insegnamento, la sede di «un’impalcatura teorico-organizzativa» sempre sul punto di cadere nell’autoreferenzialità; al più con il frigido orpello della «cultura della Costituzione».
Eliminata la prospettiva del vincolo connesso alla dimensione del passato culturale, si è aperto il campo per quelli che l’autore chiama i «nuovi insegnanti» e i «nuovi studenti». I primi sono quelli che avendo preso atto che il baricentro della scuola si è ormai spostato dal terreno della norma (il programma eguale per tutti) alla definizione dei criteri di base con cui valutare, «tornano a concepire la propria funzione non come trasmissione del sapere ma come gestione su base pedagogica di una moltitudine». Mentre i «nuovi studenti», dal canto loro, sono indotti sempre più a concepire l’istruzione come uno specifico, individuale, «percorso», aperto a molteplici esperienze di vita, di cui essi sono i titolari: «Una trasformazione intrisa di occasioni di libertà e di euforia, ma che attribuisce al singolo anche tutta la responsabilità della propria riuscita». Una trasformazione dietro la quale Scotto intravede «una vera e propria dismissione pubblica dell’istruzione».
È tutto questo «passatismo», rimpianto sterile del tempo passato? Assolutamente no. È piuttosto la premessa — insieme a molte altre preziose e acute considerazioni che si trovano in queste pagine — per un’analisi realistica e profonda, com’è appunto quella di Scotto, della crisi di tutto il nostro sistema educativo. Una crisi che è una delle cause non minori del declino dell’Italia, e della quale, però, non riesce a dirci nulla, la dolciastra narrazione sulla «scuola democratica», ancora usa a riempire tante chiacchiere ufficiali. La realtà è ben altra: è la diserzione della scuola pubblica da parte delle élite, è la frattura tra cultura accademica e scuola, la burocratizzazione soffocante del lavoro scolastico, la virtuale espulsione del canone culturale nazionale, la rimozione del retaggio umanistico e con esso di un principio educativo fondato sulla conoscenza realistica dell’essere umano; e per concludere è la fortissima penalizzazione delle classi meno abbienti, alla cui formazione e progresso sociale la scuola, ormai, serve poco o nulla. Non è giunta l’ora di chiederci tutti, in una grande discussione politico-pubblica, come e perché è accaduto questo disastro? E dunque come porvi rimedio?

 

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