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Perché amare l’Italia è diventato difficile

01/09/2015 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertina 2C’è stata la complicità, o comunque l’inerzia rivelatasi dissennata, di un ceto dirigente poco lungimirante

Belardelli Giovanni   Corriere della Sera   20 agosto

Ma gli italiani amano l’Italia? Alla fine, di fronte alle immagini che regolarmente mostrano inondazioni, crolli, fiumi di fango e spesso, purtroppo, anche morti, è questo l’interrogativo che non può non affacciarsi. Dietro a queste catastrofi, dietro alle ferite inferte al territorio, infatti, compare quasi sempre l’azione umana, di noi che abitiamo questo Paese ma mostriamo con i nostri comportamenti di non amarlo: fino al punto di costruire. certo non tutti, ma molti sì, sulle zone golenali dei fiumi o perfino sul loro letto, di edificare ovunque, addirittura in prossimità di un vulcano ancora attivo come il Vesuvio. Indifferenti alle conseguenze per il territorio e soltanto preoccupati del nostro particolare vantaggio, in troppi abbiamo abusato di tutto l’abusabile e poi condonato tutto il condonabile. Nella complicità o nell’inerzia di un ceto politico locale e nazionale che, fatte le debite differenze tra chi ha varato condoni e chi no, non se l’è mai sentita di contrastare un uso dissennato del territorio diventato da decenni un costume di massa.

«Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder!/ Trema in petto e si confonde/ l’alma oppressa dal piacer». I versi scritti nel 1800 da Vincenzo Monti, che tornava in Lombardia dopo che Napoleone aveva sconfitto gli austriaci a Marengo, sono un esempio dell’amore per l’Italia che sarebbe poi stato comune alle generazioni del Risorgimento, ma anche forse dei suoi limiti; dei motivi, cioè, per i quali quel sentimento doveva faticare a diventare davvero di massa. Era un amore per l’Italia in cui il dato culturale, anzitutto il senso della grandezza passata (la Roma antica, le libertà comunali), e retorico faceva premio sull’attaccamento al territorio concreto. Si trattava comunque di un sentimento che doveva restare a lungo estraneo alle classi popolari: Emilio Sereni, un dirigente del Pci che fu anche studioso del mondo contadino, scrisse che, pur avendo girato molti Paesi, in nessuno aveva mai udito l’espressione che tante volte aveva sentito ripetere da ragazzo: «Porca Italia! Porca Italia! È il solo Paese che io conosca, l’Italia, dove esiste una bestemmia del genere». Sereni si riferiva a un secolo fa e dopo di allora il rapporto tra gli italiani e il loro Paese non è certo rimasto lo stesso. Si osserva di solito che la maggioranza dell’opinione pubblica aveva e ha poca familiarità con l’Italia-nazione ma amava e ama, invece, l’Italia intesa come la città o il borgo in cui ciascuno è nato o vive. In realtà la sterminata serie di abusi sul territorio compiuti negli ultimi decenni spesso ha avuto luogo proprio dove si è nati e cresciuti. «Volti le spalle e già è nato un palazzo bruttissimo che opprime una strada, rovina il paesaggio, ti distrai un momento e altri dieci piani abusivi si aggiungono al grattacielo, insomma ti pare di stare nella giungla, le case nascono come la vegetazione tropicale a caso e senza una idea, e presto Napoli ne sarà sommersa». Lo scriveva Raffaele La Capria in Ferito a morte , nel 1961, dunque nel pieno di quel «miracolo economico» che doveva permettere a milioni di italiani di uscire dal mondo della penuria per acquisire i consumi e le abitudini di vita propri di un Paese moderno. Il benessere che allora cominciò a diffondersi si fondava su molti fattori: la congiuntura internazionale favorevole, i bassi salari, l’impegno e la capacità di iniziativa di imprenditori e lavoratori. Ma si fondava, e si sarebbe fondato nei decenni seguenti, anche su fattori molto poco virtuosi: un’espansione della spesa pubblica finanziata con soldi che non avevamo (dunque a carico delle nuove generazioni) e un uso selvaggio del territorio. Poche cose come un abusivismo edilizio di massa rappresentarono per milioni di famiglie l’occasione di un rapido e facile, anche per la complicità del ceto politico, accrescimento del proprio patrimonio e della propria qualità della vita, magari nella forma della casa al mare. Per quanto meno evidente dell’enorme debito pubblico, si è trattato anche in questo caso di un «debito»: il debito verso un’Italia poco amata nelle sue coste, nei suoi fiumi, come territorio concreto insomma. I continui disastri «pseudonaturali» ai quali assistiamo ci dicono che anche con questo debito siamo ormai chiamati a fare i conti davvero.

 

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