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Mario Missiroli (1886-1974)
Un Paese frenato dalla religione

02/04/2015

copertinaGennaro Sangiuliano      Il Sole 24 Ore Domenica 29 marzo

“«Bisogna rassegnarsi e trovare in noi stessi le regioni di conforto. Che vuoi? La nostra generazione è stata una generazione bruciata; e la colpa non è né nostra né degli uomini, ma delle cose», sono i primi passi di una lunga lettera privata che Mario Missiroli, all’epoca direttore del Messaggero, scrive all’amico Giuseppe Prezzolini che è esule volontario negli Stati Uniti, a New York.


Missiroli e Prezzolini sono due inguaribili pessimisti, dove il pessimismo assume i caratteri di un tratto distintivo del loro conservatorismo liberale, secondo la celebre definizione che dette Thomas Mann.
La lettera è del 1951, Missiroli è uno dei più affermati giornalisti italiani, dal settembre del 1946 è il direttore de «Il Messaggero», un anno dopo, nel 1952 assumerà la direzione del «Corriere della Sera» che guiderà fino al 1961. Prezzolini vive da oltre vent’anni in America e come dal titolo di una sua famosa rubrica sul «Borghese» guarda l’Italia dal cannocchiale. Li separa l’Oceano, «non è escluso che un giorno venga a prendere un caffè da te a New York», li unisce l’amore per la libertà e l’ironia irriverente. «Noi ci avviamo ad una graduale proletarizzazione dei ceti medi e ad un ulteriore impoverimento dei ceti poveri. Questo mi preoccupa moltissimo poiché questa è la strada che porta alla catastrofe», aggiunge Missiroli. E prosegue: «Ho fatto un viaggio di recente nel Nord d’Italia, nel Veneto, e ho notato che le persone di alta posizione sociale, quelle che hanno in mano la cosa pubblica, gli affari, la finanza, tutto, non comprano nemmeno il giornale e quando lo comprano non lo leggono».

L’Italiano è sempre colui che nasconde dietro la retorica dei buoni sentimenti una forte dose di cinismo e servilismo. La critica serrata che Missiroli muove alla natura dei suoi connazionali aveva trovato già una compiuta teorizzazione nel saggio La monarchia socialista, pubblicato alla vigilia della Prima guerra mondiale suscitando non poche polemiche.

La storia d’Italia, o meglio la storia di quei limiti che ci impediscono di essere compiutamente nazione, può essere ridotta ad un solo unico problema, quello religioso, la troppa influenza del cattolicesimo e l’assenza di quello spirito riformatore che il protestantesimo ha dato al Nord Europa. La tesi è chiara, diretta, e ad oltre cento anni di distanza contiene molti spunti di attualità, valutazioni che potrebbero essere applicate alle criticità dell’Italia di oggi. Il saggio è stato ripubblicato, poche settimane fa con un’articolata introduzione dello storico Francesco Perfetti e un’appendice che raccoglie alcuni commenti allo scritto, fra cui la recensione che fece Giovanni Gentile.
La grande rivoluzione civile e morale degli italiani, che meglio di tutti era stata auspicata e delineata da Giuseppe Mazzini, si era rivelata «impossibile presso un popolo che aveva perduto la sua ora tre secoli prima, durante la formazione dei grandi Stati e che si era smarrito in una decadenza letteraria quando gli altri si rinnovavano nella riforma religiosa». Come osserva Francesco Perfetti, «alla base del ragionamento di Missiroli c’era la convinzione che lo Stato moderno che trae la propria legittimazione da se stesso e non già da una fonte esterna come la religione, sia una creazione storica direttamente collegabile alla Riforma protestante».
Quel rinnovamento unitario che il Risorgimento voleva conseguire fallisce di fronte alle «insufficienze nazionali che respingono le soluzioni eroiche», in questo modo «il popolo non conquista, ma è conquistato: tutto è gratuito. Il fallimento ideale è totale».

È il tema della debolezza morale, corruzione e trasformismo allignano nella doppia morale in cui gli italiani sono maestri, una diffusa retorica ammanta l’assenza di uno spirito liberale e repubblicano.
Da giovane Missiroli aveva coltivato e nutrito profonda ammirazione per Alfredo Oriani, l’autore de La rivolta ideale e de La lotta politica in Italia, libri che segneranno le generazioni del primo Novecento capaci di porre in termini crudi e chiari il tema del “Risorgimento mancato”, o meglio del “Risorgimento tradito”. Poi era stato contiguo all’esperienza della rivista «La Voce», quella che Malaparte definirà la «serra calda del fascismo e dell’antifascismo», il programma fu chiaro nel motto di Giovanni Amendola «l’Italia come oggi è non ci piace», che esprime la delusione per il deficit delle classi dirigenti, carenti di quello spirito della nazione che Prezzolini aveva trovato nella giovane democrazia americana e Missiroli in quella antica britannica.

«Solo Giuseppe Mazzini ebbe sempre viva, pur fra tanti deliri poetici e tanti smarrimenti, la coscienza delle grandi ragioni ideali del nostro Risorgimento», ricorda Missiroli. L’Italia aveva mancato una Riforma protestante che in altre nazioni occidentali aveva conferito alla vita civile una carica di eticità. Affiora una sorta di «hegelismo», inteso come capacità di rintracciare nella storia una dialettica delle idee che spiega la realtà.

Il fallimento del Risorgimento era stato puntellato con il matrimonio fra la monarchia e il socialismo, mediato dall’azione di Giolitti. L’aspirazione a fare dell’Italia una nazione basata su una diffusa coscienza civile e un’identità comunitaria, secondo l’insegnamento di Mazzini, era stato abbandonato; la politica preferiva assumere una dimensione quasi esclusivamente economica. Più tardi sarà Piero Gobetti a fare sua questa interpretazione storica, ponendo al centro della sua speculazione l’assenza di un principio etico diffuso e condiviso.

La monarchia socialista viene ripubblicato una prima volta nei primi anni Settanta, Missiroli lo annuncia a Prezzolini in una lettera del 1971. Il libro non è un successo editoriale ma è accolto bene dagli spiriti meno conformisti del giornalismo italiano, Indro Montanelli, che lo recensisce sul «Corriere della Sera» e Alberto Giovannini che riscontra «una diagnosi amara e spietata di una realtà dolorosa e spesso umiliante».

«Sto in media dodici ore al giornale e sono le ore della maggiore serenità. Tutto sommato siamo dei certosini sbagliati», scrive ancora Missiroli all’amico Prezzolini. E la sera a cena con gli amici, dopo la lunga giornata si lascia andare ai suoi sfoghi sulla situazione italiana, ripetendo spesso: «Ci vorrebbe un giornale dove scriverle queste cose!».””

 

Pubblicato in: Rassegna stampa
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