GIOVANNI BELARDELLI
Spesso, negli anni passati, le tracce dei temi per la maturità sono sembrate scelte senza troppa cura, incoerenti, a volte abborracciate. Quest’anno, per fortuna, non è andata così. Soprattutto le lunghe tracce per la tipologia del «saggio breve» hanno proposto agli studenti brani per lo più interessanti, dietro la scelta dei quali deve esserci stata — è da presumere — un’attenzione non banale e non affrettata. Penso al brano sulla fragilità della Terra, resa visivamente presente a tutti dopo lo sbarco sulla Luna del 1969. O a quello di Theodor Adorno sulla decadenza del dono nel mondo contemporaneo. O, ancora, ai brani sulla realtà e l’utopia dell’intelligenza artificiale. E poi ai testi di Benjamin, Arendt, Gandhi e così via.
Eppure, dopo aver letto le tracce c’è qualcosa che non convince. Tutte singolarmente accettabili — da quella (certo non più che diligente) su Quasimodo a quella sulle periferie, evocate attraverso una citazione di Renzo Piano — quelle tracce comunicano un insieme di realtà, si riferiscono a un complesso di argomenti, di temi appunto (come si diceva una volta, quando i pedagogisti non egemonizzavano ancora il mondo della scuola e di chi la governa) che hanno poco o nulla di attinente con il Paese nel quale pure gli studenti vivono.
A parte Quasimodo, certo, ci parlano di un mondo contemporaneo privo di relazioni con qualcosa di specificamente italiano.
Neppure i temi storici, cui di solito si affida la presenza di argomenti meno lontani dalla realtà del Paese, svolgevano questa volta una funzione del genere.
Da una parte si proponeva «violenza e non violenza nel Novecento», che nulla suggeriva di mettere in rapporto con le vicende italiane come pure (dal fascismo al terrorismo degli anni 70) sarebbe stato possibile.
Dall’altra, il tema storico vero e proprio richiedeva un confronto, peraltro troppo complesso da svolgere, tra l’Europa del 1914 e quella di oggi.
L’unico rapporto con l’Italia di ieri poteva scaturire da un brano, bellissimo, di Grazia Deledda.
Vi si racconta di un’epoca in cui l’arrivo di un fratellino poteva ancora essere spiegato a una bambina come il«dono» che il suo papà aveva «comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”».
Ma non so quanti studenti siano stati in grado di cogliere in questo brano, inserito com’era nella traccia sul dono, la testimonianza di un’Italia ancora relativamente vicina come anni, eppure appartenente nella percezione di tutti a un’altra epoca storica.
Insomma, se proviamo a leggere le non poche pagine prodotte dal ministero come fossero esse stesse un tema, dovremmo concluderne che quel tema ci parla quasi per nulla di un Paese specifico,il nostro (eccezion fatta, ripeto, per il«minimo sindacale» rappresentato dall’analisi di una poesia di Quasimodo).
Si potrà pensare che, immersi da vent’anni almeno nel mondo globalizzato, questa è una scelta naturale, coerente, ottima magari. È possibile che sia così.
Restano due forti perplessità. La prima riguarda il fatto che, se la nostra scuola deve fare davvero questo (diluire la percezione di ciò che è specificamente italiano) avremmo forse dovuto discuterlo esplicitamente.
Ma si sa, della scuola sembriamo interessarci solo quando si tratta di precari, graduatorie, «concorsoni» e basta.
In secondo luogo, essendo ovvio naturalmente che la scuola deve mettere in grado i giovani di muoversi nel mondo globalizzato, è discutibile che possa farlo al meglio prescindendo, come sembrano fare le tracce ministeriali, dalla specifica realtà del Paese in cui quei giovani vivono.
Dovrebbe anzi essere la scuola, perché nessun altro può altrimenti farlo, a esplorare i legami, le relazioni spesso nascoste,tra la realtà in cui viviamo immersi e la cultura da cui proveniamo.
Da tempo, nelle famiglie italiane nessuno più racconta le vecchie storie di bimbi portati dalla cicogna o «comprati a mezzanotte », storie che ai ragazzi di oggi appariranno distanti anni luce.
Eppure quelle storie sono state ascoltate ancora dai loro padri o dai loro nonni; ci comunicano un passato, una tradizione, un tempo lontano da cui tutti — anche gli studenti di oggi, che ne siano consapevoli o meno — siamo abitati.