
In questa ricostruzione storica, rigorosa e appassionante, Gianni Oliva ripercorre quella che fu la prima, drammatica guerra civile italiana. E lo fa senza indulgere nella retorica neoborbonica né dar credito ai silenzi autoassolutori della storiografia ufficiale. Il risultato è un ritratto essenziale della nascita del nostro paese, fondamentale per comprendere le radici delle divisioni che lo attraversano ancora oggi.
Dopo l’Unità d’Italia, il Mezzogiorno precipita in una sanguinosa guerra civile. Da un lato, i ribelli si oppongono alle nuove istituzioni con violenza: teste mozzate esposte come trofei, stupri, soldati evirati. Dall’altro, lo Stato risponde con rastrellamenti, incendi di villaggi e fucilazioni sommarie. Ma etichettare tutti i ribelli come «briganti» e definire questa contrapposizione una «lotta al brigantaggio» è un errore, che produce una grave lacuna nella storiografia ufficiale. Per comprendere questo delicato momento della storia del nostro paese bisogna andare oltre le interpretazioni tradizionali e coglierne il carattere multiforme. Alla base c’è la questione della terra, che muove plebi impoverite, le quali vedono nel nuovo Stato non un’opportunità ma un ulteriore peso – a partire dalla coscrizione obbligatoria – e mettono in piedi rivolte che non hanno programma né direzione. Su questa instabilità sociale si innestano bande criminali, che talvolta si ammantano di valenze politiche ma che in realtà agiscono per il proprio tornaconto. Infine, agenti borbonici, papalini e reazionari locali non esitano a fomentare il caos per destabilizzare il neonato Stato italiano. La classe dirigente liberale, formatasi al Nord, ignora i problemi sociali del Mezzogiorno e, nell’ansia di legittimarsi agli occhi dell’Europa, risponde alle rivolte con la potenza del Regio esercito. Ne consegue un conflitto sproporzionato, in cui vengono mobilitati due terzi delle forze armate e si contano più vittime che nelle tre guerre di indipendenza messe insieme.
Gianni Oliva, storico e giornalista, è nato a Torino ed è docente di Storia delle istituzioni militari. È autore di numerosi saggi di carattere scientifico-divulgativo e del romanzo Il pendio dei noci, tutti pubblicati da Mondadori. È presidente del conservatorio Giuseppe Verdi di Torino.
******************************
La rivolta del Sud dopo l’unità «Fu guerra civile»
Gian Antonio Stella Corriere della Sera 21 ottobre 2025
«Dimodoché conchiuderò, per mettere d’accordo le varie sentenze, che è metà brigantaggio e metà guerra civile». Era il 4 dicembre 1861 e il deputato Giuseppe Ricciardi, figlio di Francesco già ministro della Giustizia del Regno di Napoli sotto Murat e poi del Regno delle Due Sicilie nel periodo costituzionale del 1820, tentò invano di spiegare che non si potevano liquidare le rivolte nel Sud come una faccenda di criminalità. Due giorni prima, nella stessa aula parlamentare, il milanese Giuseppe Ferrari, che aveva voluto scendere di persona a Pontelandolfo e Casalduni per capire come fosse andata una durissima rappresaglia sulla popolazione dopo l’uccisione di un gruppo di militari, aveva tuonato: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; voi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri…». Macché… Fatto sta che solo oggi, 164 anni dopo, arriva un libro, edito da Mondadori, che porta quella tesi ustionante nel titolo: La prima guerra civile. Rivolte e repressione nel Mezzogiorno dopo l’unità d’Italia, di Gianni Oliva.
Intorno al tema, certo, hanno già scritto in tanti. Eppure, sottolinea Oliva, «“Guerra civile” è definizione controversa nella memoria italiana: per il primo dopoguerra si è preferito a lungo parlare di «biennio rosso» 191920 e «squadrismo» 1921-22; per utilizzarlo in riferimento al 194345, si è dovuto attendere il 1991 e il fondamentale saggio di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza; per il brigantaggio essa è stata usata solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento». Perché? Perché «c’è una sorta di pregiudizio ideologico che si riflette nel lessico, per cui “guerra civile” equivarrebbe a una sorta di equiparazione dei protagonisti e legittimerebbe gli sconfitti riabilitandoli».
È così? «In realtà “guerra civile” significa lotta armata tra forze di uno stesso Paese, comunque organizzate e quantitativamente significative. È stato così nel 1919/22; è stato così nel 1943-45; e prima ancora è stato così nel Meridione dopo l’unità. Accettare il termine e ripercorrere le tappe di quanto avvenuto non significa ribaltare i giudizi storici, né indulgere alla storiografia neoborbonica (che partendo da una forte componente di rivalsa regionale, ha portato alla formulazione di tesi estreme): significa, più semplicemente, collocare i fatti nella loro prospettiva, cercare di comprendere perché e come nel Mezzogiorno, dopo l’unificazione, ci sono stati anni di tensione, che hanno impegnato quasi due terzi del Regio esercito e provocato un numero di vittime superiore alle tre guerre di indipendenza assommate insieme…

Scena di brigantaggio Barilli Cecrope 1863


POST-OCCIDENTE. Come il 7 ottobre riscrive la nostra storia