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Il giudizio morale sulla Storia ed i monumenti del passato

01/07/2020

La rimozione della statua di Cristoforo Colombo al Tower Grove Park di St. Louis, in Missouri 

 

Nei college americani ed anche in prestigiose università inglesi da qualche anno si era affermato un movimento culturale “politicamente corretto” di reinterpretazione moralistica della storia con l’obbiettivo di combattere le discriminazioni contro le minoranze, per il rispetto delle differenze  e la difesa del multiculturalismo con il bando di parole e termini potenzialmente offensivi.

Questa visione manichea della storia ha trovato nuova linfa nelle proteste anti-razziste nate negli Stati Uniti dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 per un brutale intervento di un poliziotto di Minneapolis, e si è trasformato in furia iconoclastica (l’abbattimento o rimozione di statue e lapidi, l’oltraggio ai monumenti e la censura alle opere d’arte), per cui minoranze radicali in modo violento intendono imporre la propria visione ideologica all’intera società: non il riconoscimento degli errori del passato (da spiegare e contestualizzare senza giustificarli), ma la loro cancellazione simbolica e materiale. Se nel passato in momenti rivoluzionari i vincitori militari, i capi politici o le masse infuriate hanno cercato di cancellare ogni traccia dei loro nemici pubblici oggi sconcerta che questa forma odierna di damnatio memoriae, indirizzata contro personalità del passato accusate d’aver praticato o avallato politiche discriminatorie su base razziale quando vigevano altri sistemi di valore e sensibilità, nasca nel cuore del mondo per definizione libero, pluralistico e tollerante.Da Churchill a Cristoforo Colombo, le icone della storia vengono travolte dall’onda delle proteste antirazziste in giro per il mondo, che in Italia non risparmiano personaggi come Montanelli  a Milano, Gabriele D’Annunzio a Trieste, l’obelisco “Mussolini dux” a Roma ed i padri della Patria Vittorio Emanuele II a Torino e Giuseppe Garibaldi a Napoli. La demonizzazione tra l’altro di questi personaggi della storia ha come principale obiettivo la rimozione di monumenti che sono  mere testimonianze silenti del passato, elementi ormai di arredo urbano, talora di dubbio gusto estetico, che riemergono dall’oblio solo in occasione di ricorrenze istituzionali senza un rapporto vivo con le nuove generazioni, non in grado quindi di coglierne appieno luci ed ombre del loro significato storico.

In Italia ci sono stati però episodi in cui monumenti storicamente imbarazzanti sono stati conservati con intelligenti interventi di ricontestualizzazione dell’opera salvaguardandone la memoria ed il significato di quando fu realizzata.

A Pietrasanta nel 1848 fu realizzata la statua di Leopoldo II, granduca di Toscana, l’anno in  cui il sovrano concesse lo Statuto liberale ai suoi sudditi ed anche per celebrare i 35 anni di governo illuminato in Versilia; infatti gli originali quattro bassorilievi con cui fu deciso di ornare il piedistallo del monumento II riflettevano l’operato riformista del Granduca  sul territorio di Pietrasanta e vennero così intitolati: “La fondazione della Scuola di Belle Arti”; “Il libero commercio”; “Il bonificamento dell’agro pietrasantese” e “Il discoprimento delle cave”. Con il successivo passaggio dal governo granducale al Regno d’Italia non tutti gli animi a Pietrasanta rimasero sereni: nell’agosto del 1859 il monumento fu deturpato da mano sconosciuta.  Fu deliberato allora di rimuovere la statua, tenuto conto dell’ormai definitivo cambiamento politico.  Nel 1863 il nuovo gonfaloniere Gaetano Bichi propose invece di revocare la deliberazione, sostenendo che, al di là di ogni considerazione politica, l’opera d’arte andava salvata, e argomentò che, dopo tutto, i monumenti erano destinati a servire da insegnamento ai popoli ed ai regnanti. Reputò pertanto la conservazione del monumento un atto di civiltà, ma suggerì di incidere sulla facciata posteriore del suo piedistallo, il decreto dell’Assemblea Toscana del 16 agosto 1859 con il quale i Lorena erano stati dichiarati decaduti dal trono di Toscana, con l’aggiunta della frase: «Esempio ai popoli ed ai regnanti». Si procedette così alla rimozione del bassorilievo posto sulla facciata posteriore della base del monumento raffigurante il discoprimento delle cave e alla sua sostituzione con la nuova targa che riportava il decreto dell’Assemblea Toscana sulla decadenza dei Lorena.L’ASSEMBLEA TOSCANA

Dichiara che la dinastia austrolorenese, la quale nel 27 aprile 1859 abbandonava la Toscana, senza ivi lasciar forma di governo, e riparava nel campo nemico si è resa assolutamente incompatibile con l’ordine e la felicità della Toscana….

A Bolzano l’ex Casa del Fascio, costruita dal 1939 al 1942, conserva sul suo frontone, posto sopra un arengario, un monumentale bassorilievo dello scultore altoatesino Hans Piffrader con al centro il duce a cavallo e nell’atto del saluto romano e con il racconto del «trionfo del fascismo», opera commissionata dal PNF stesso. Essa è costituita da 57 pannelli di larghezza variabile, alti 2,75 metri, posti su due file sovrapposte, per uno sviluppo lineare di 36 metri, una superficie di 198 metri quadrati e un peso totale di circa 95 tonnellate. Le dimensioni complessive del fregio ne fanno probabilmente il bassorilievo più imponente realizzato durante il fascismo e ancora esposto al pubblico. Nel 2017 il fregio di Piffrader è stato sottoposto, su iniziativa dell’Amministrazione provinciale altoatesina, a un intervento di storicizzazione e depotenziamento con la supervisione di una commissione storica, con l’apposizione di una scritta illuminata che reca una citazione della filosofa tedesca Hannah Arendt in tre lingue (italiano, tedesco, ladino) – «Nessuno ha il diritto di obbedire» – contrapposta al dogma fascista del Credere, obbedire, combattere tuttora presente sul bassorilievo.Sulla piazza stessa è stato installato un pannello informativo con testi esplicativi, resi in quattro lingue, che spiegano la storia dell’edificio, dell’opera di Piffrader, del contesto urbanistico nonché della citazione di Hannah Arendt.    Sergio Casprini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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