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Gli attentati di Parigi e il pericolo di non usare la parola guerra

29/11/2015 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

copertina 

Giovanni Belardelli          Corriere della Sera  24 novembre

 

 

Gli europei non si sentono in guerra. È così che qualche giorno fa Le Monde ha titolato un articolo sulle perplesse reazioni di vari Paesi dell’Unione europea alla richiesta di aiuto formulata dal presidente francese Hollande. Una sintesi brutale ma non infondata, quella del titolo, in cui va soprattutto notata un’espressione: il non sentirsi in guerra. A lungo, nei secoli passati, gli Stati europei si sono trovati in guerra: una condizione che, voluta o subita che fosse, era comunque resa evidente dal fatto che qualcuno li attaccava.

Ora non è più così e ciascuno decide se «si sente» o meno in guerra. La novità è rilevante e ha evidentemente a che fare con le caratteristiche particolari degli attacchi terroristici, ma anche e soprattutto con la difficoltà delle democrazie europee a pronunciare di nuovo una parola che dopo due conflitti mondiali sembrava diventata impronunciabile.

Per misurare quanto profonda sia la trasformazione che ha interessato la nostra cultura, basti pensare ai tanti giovani italiani (e non solo) che un secolo fa lasciarono le aule delle università o le professioni appena iniziate, arruolandosi volontari e lasciando spesso la vita in trincea. Dopo i milioni di morti di quella guerra e la ancor più terribile replica rappresentata dal secondo conflitto mondiale, oggi la loro scelta rischia di apparire a molti priva di senso.

La guerra è infatti diventata una esperienza improponibile, e forse anche incomprensibile, per la gran parte dei cittadini europei. Anche negli Stati Uniti, il Paese democratico che più ha conservato in questi decenni la capacità di pensare e fare la guerra, dopo l’esperienza del Vietnam tutto si è fatto più difficile. In particolare vi si è affermata quell’idea — o forse bisognerebbe dire illusione — di una guerra che, grazie a tutta una serie di dispositivi tecnologici (dai droni alle bombe «intelligenti»), possa essere casualty free, a zero vittime tra i soldati ma anche tra la popolazione civile. Per gli europei, soprattutto per quelli dell’Ovest, la guerra ha finito per rappresentare la negazione di quella civiltà democratica fondata sul benessere e sulla sacralità della vita umana della quale siamo — giustamente — orgogliosi. Fino al punto che le missioni militari che hanno coinvolto l’Europa (Italia compresa) in questi anni hanno dovuto essere chiamate, come si sa, con le più varie espressioni in cui la parola guerra era sostituita dal suo contrario (peace keeping, peace enforcing) oppure era di fatto annullata dall’aggettivo che vi si accompagnava (la «guerra umanitaria»). L’unico che sembra da tempo non avere problemi a usare il termine è, curiosamente, papa Francesco, per il quale i tanti conflitti del mondo contemporaneo, terrorismo compreso, costituiscono una «terza guerra mondiale a pezzi». Ma il Pontefice, naturalmente, può formulare questa diagnosi senza dover far seguire a essa alcuna decisione di tipo politico o tanto meno militare.

Il problema, e il rischio di minimizzazione, nascono quando una cultura segnata dal ripudio della guerra come la nostra si trova sotto l’attacco di un nemico che la guerra contro di noi l’ha apertamente dichiarata e la sta praticando, sia pure con le modalità peculiari del terrorismo. È vero, la nostra cultura democratica, alcune delle nostre più profonde convinzioni, ci spingerebbero a dire che no, non di guerra si tratta (il vicecancelliere tedesco Gabriel, ad esempio, ha sostenuto che «parlare di guerra sarebbe un primo successo dell’Isis»), perché la guerra ci eravamo convinti fosse uscita dalle esperienze possibili di un democratico europeo del XXI secolo.

In realtà il terrorismo islamista riprende una caratteristica dei totalitarismi del ’900 che, praticando anch’essi quella «guerra asimmetrica» con cui definiamo oggi le azioni armate dei movimenti terroristi, uccisero milioni di «nemici oggettivi», combattuti e soppressi per ciò che intrinsecamente erano e non per ciò che facevano. Seguendo, consapevolmente o meno, quell’esempio i militanti dell’Isis ci combattono anch’essi — come Hitler faceva con gli ebrei e Stalin con i contadini ucraini — per ciò che siamo, per le nostre idee — ai loro occhi blasfeme — di libertà, democrazia, uguaglianza uomo-donna.

Ma se è così, il fatto di chiamare le cose con il loro nome, riconoscendo che è per questo che il terrorismo islamista ci fa la guerra, non può che aiutarci a resistergli e a sconfiggerlo.

 

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