
Florence Henri, Composizione – La gloria che fu della Grecia, 1933 c., fotomontaggio
È stato Eric Hobsbawm nel suo testo più noto – Il secolo breve – a sottolineare come gli anni 60 del Novecento abbiano segnato una «rivoluzione culturale». È in quel tempo, scrive Hobsbawm, che si compie la «rottura dei fili che nel passato avevano avvinto gli uomini al tessuto sociale». Il segno più evidente, prosegue lo storico britannico, è dato dal fatto che «ciò che i figli potevano imparare dai genitori divenne meno evidente di ciò che i genitori non sapevano e che invece i figli conoscevano. Il ruolo delle generazioni veniva rovesciato». In questo passaggio entra in discussione se ciò che ereditiamo dal passato possa costituire una ricchezza o un ingombro. È la questione che sta all’origine del libro di Frank Furedi, La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica (Fazi, pagg. 420, €?20). Testo bifronte – da un lato militante (o forse, ancora meglio, «partigiano»), dall’altro erudito.
Considero prima il lato «militante».
Scrive nelle prime pagine Furedi: «Oggi, in un tempo in cui anche la continuità collettiva dell’esperienza è messa in discussione, è evidente che ci troviamo di fronte a una revisione radicale del significato del passato. Il passato è chiamato di rado a servire come fonte di autorità. Al contrario è stato trasformato in una fonte della patologia contemporanea». Condizione, sostiene Furedi, cui non è estranea la perdita di orientamento sul futuro soprattutto propria delle giovani generazioni nel corso del processo della loro formazione complessiva. L’effetto è rendere il passato estraneo. «Ideologia dell’anno zero» denomina Furedi questa condizione. Ma la guerra al passato, prosegue, non è la guerra al passato di tutti. Se per riprendere possesso di una nuova possibilità futuro, si tratta di dare luogo, forma e contenuti a una radicale rottura col passato quel passato da cui prendere le distanze e da cui liberarsi è quello dell’Occidente. Questo è ciò che Furedi intravede e come interpreta la difficile relazione con il passato espresso da parti rilevanti di opinione pubblica. Guerra al passato che, sottolinea, significa esclusivamente «guerra all’Occidente».
Contro il passato c’è una guerra in corso, sostiene Furedi fatta di statue abbattute, parole bandite o interdette, libri e opere d’arte messi all’indice, programmi scolastici «decolonizzati». Una storia in cui una parte dell’umanità è chiamata a discolparsi, e una parte si propone come tribunale della storia. La prima deve arretrare e la seconda deve affermare la sua ragione. Un profilo che in parte definisce un paradigma consueto nella storia, in parte costituisce una novità insiste Furedi. Consuetudine: in tutte le esperienze che hanno al centro la riscrittura della storia il fine è sempre stato uno: ritrovare la propria storia a discapito di quella della cultura dominante, o del potere straniero. Novità: quel principio e soprattutto quel linguaggio hanno come fondamento un primato della propria sofferenza. La condizione vittimaria è la giustificazione del proprio diritto al riscatto. Per questo non può esaurirsi. Quel primato della sofferenza, se sanato, escluderebbe il soggetto dalla legittimità a rivendicare diritti. Detto diversamente: la sofferenza precedente si è trasformata in rendita di posizione. Perciò: per mantenere quel diritto al riscatto, quella condizione di ingiustizia deve affermare che non ci sarà mai riparazione. Il punto, dunque, non è il raggiungimento di una condizione di eguaglianza, ma la richiesta al nemico di sottomettersi.
Fin qui la componente militante della riflessione di Furedi che più volte insiste sulla necessità che l’Occidente torni orgogliosamente a rivendicare il passato e non solo a subire le pratiche punitive di un tribunale della storia. Ma contemporaneamente Furedi è consapevole che quel processo vive anche di una dinamica che non può solo limitarsi a rivendicare il proprio passato. Per superare questa condizione si tratta dunque di maturare un rapporto critico con la storia. Comunque, non fideistico. Qui sta il lato erudito della riflessione proposta da Furedi. Il tema è come costruiamo conoscenza e ricostruzione del passato. Operazione che, sottolinea, risponde a due criteri,
Il primo riguarda la nostra testa. Ovvero: avere uno sguardo laico sul passato. Dunque, non trasformarlo né in una galleria dell’orrore, né in un mito celebrativo.
Il secondo: avere la consapevolezza che qualsiasi rapporto (e dunque anche qualsiasi giudizio) si abbia del e sul passato, nasce e si forma rispetto alle domande che si pongono nel tempo presente o che il tempo presente, nelle sue incertezze, ci propone e che noi siamo disposti a raccogliere.
Insiste Furedi che non basta dichiararlo. E dunque le parole non bastano. Occorre avere una visione inquieta della storia, un metodo. Poi capacità di comparare, di raccogliere documenti, di costruire ipotesi. Infine, sapere che qualsiasi conclusione acquisiamo è sempre provvisoria. La ricerca storica è approssimazione per difetto alla verità. Se qualcuno ha bisogno di certezze anziché rivendicare storia, si sottometta ai dettami di un catechismo. L’«ideologia dell’anno zero» non ha bisogno di indagine storica, ma di catechismi. Per questo a una visione inquieta della storia sostituisce una condizione di anacronismo, che è il presupposto di un altro mandante che uccide la capacità di pensare futuro: il presentismo. Ovvero: la convinzione che esista solo il presente. Una macchina culturale su cui anni fa ci ha messo in guardia François Hartog nel suo Regimi di storicità (Sellerio). Chi chiede di cancellare il passato perché oppressivo perpetua l’immagine di quel passato che vorrebbe abolire e rinvia a una mentalità eguale a quella che erge a suo nemico irreducibile.
George Orwell nelle pagine di 1984 ci aveva già messo in guardia molto tempo fa quando ci aveva descritto il catechismo al potere: la rivoluzione che si presenta come verità da riscrivere tutti i giorni e percepisce il racconto della storia come minaccia.
David Bidussa Il sole 24 ore 14 settembre



