Risorgimento Firenze
«M» di Antonio Scurati, il romanzo che ritocca la storia
Incongruenze, sviste e anacronismi per il Mussolini dello scrittore. Considerazioni in margine al libro (Bompiani) da settimane in vetta alle classifiche
Ernesto Galli Della Loggia Corriere della Sera 13 ottobre
Voglio sperare che ancora oggi se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia ), e definisse Benedetto Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato correrebbe seri rischi di essere bocciato.
«M. Il figlio del secolo» di Antonio Scurati è pubblicato da Bompiani (pp. 841, euro 24). È il primo volume di una trilogia su Mussolini capo del fascismo, che arriverà fino all’uccisione del dittatore nell’aprile 1945. Questo libro copre gli anni dal 1919 al 1925
Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali. Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, «porta sulla coscienza sei milioni di morti» (un antesignano pugliese di Hitler insomma), avesse poi definito Antonio Gramsci «un politologo», avesse scritto che alla Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a «Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede» (!!) , e a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura.
O forse no, chissà. Infatti tutti gli svarioni citati (ce ne sarebbero altri minori, ma non mi sembra il caso di pignoleggiare) fanno bella mostra di sé nell’acclamatissimo libro di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani editore, da settimane in testa alle classifiche delle vendite (rispettivamente alle pagine: 199, 537 e 784, 12, 837, 835, 498 e 571, 601, 610).
Che dire? Solo un paio di osservazioni. La prima è la constatazione, ancora una volta, della devastante mancanza di editing nella maggior parte dell’editoria italiana. In pratica, se tanto mi dà tanto, si deve credere che basti avere un minimo di nome per poter andare con un testo in mano da Bompiani (ma lo stesso accadrebbe, sono sicuro, con molte altre case editrici) e vedersi pubblicata qualsiasi castroneria, perché non c’è neppure uno che dia un’occhiata preliminare. Anche questo mi pare un sintomo, piccolo ma significativo, della decadenza italiana. Del modo raffazzonato con cui da noi si è ormai soliti fare troppe cose.
La seconda osservazione riguarda la critica, cioè i numerosi recensori del libro. Come è mai possibile, mi domando, che nessuno (sono pronto a ricredermi se sbaglio, ma non credo) abbia notato neppure di sfuggita degli svarioni così marchiani?
Le risposte possibili sono due. O bisogna pensare che alle recensioni plebiscitariamente favorevoli, spesso entusiastiche, in realtà non abbia corrisposto l’effettiva e completa lettura del testo, ovvero che chi ne ha parlato non abbia notato gli svarioni di cui sopra apparendogli questi insignificanti o perché condivideva con il suo autore il medesimo livello di conoscenza della storia patria. In entrambi i casi un esempio non proprio esaltante, anche qui, di quale Paese sia l’Italia attuale.
Infine c’è il problema Scurati. Laureato in filosofia e docente universitario, dal quale uno non si aspetterebbe certo la disinvoltura, chiamiamola così, mostrata in queste pagine. Tanto più che lo stesso ci ha tenuto a dichiarare in un’ intervista: «Mi sono assegnato un criterio rigidissimo, nessun personaggio, accadimento, discorso o frasi narrati nel libro sono liberamente inventati». Per poi aggiungere: «L’antifascismo non regge più ai tempi nuovi (…) va ripensato su nuove basi. Raccontare il fascismo, per la prima volta in un romanzo attraverso i fascisti e senza pregiudiziali ideologiche, è il mio contributo alla rifondazione dell’antifascismo».
Già, caro Scurati: ma c’è modo e modo di «ripensare» e di «rifondare». Se il nuovo antifascismo è questo qui, allora davvero si è tentati di dire — e se lo dice uno come me può crederci — «Ridateci quello di prima!». Che almeno sul piano delle date e delle citazioni aveva le carte in regola.
La Fondazione Primo Conti a Fiesole
La Fondazione Primo Conti si trova in via Giovanni Duprè, 18, Fiesole FI
La Fondazione Primo Conti ha sede nella quattrocentesca Villa “Le Coste” che per molti anni fu l’abitazione del Maestro. Acquistata nel 1945, la villa è divenuta sede della Fondazione quando quest’ultima venne istituita, grazie alla donazione della famiglia Conti, come Centro di Documentazione e Ricerche sulle Avanguardie Storiche, nel 1980. Il Centro ha rappresentato la realizzazione del sogno a lungo coltivato da Primo Conti “di conservare il ricordo e la testimonianza dei più importanti movimenti novatori del Novecento“.
La Fondazione si divide in due sezioni:
Il Museo
Il Museo della Fondazione Primo Conti raccoglie sessantatre dipinti e centosessantatre disegni dell’artista fiorentino. Le opere coprono un arco cronologico che si estende dal 1911, l’anno dell’esordio artistico con l’Autoritratto di sorprendente bellezza e “maturità” espressiva, al 1985. Il Museo consente di studiare, attraverso l’opera di Primo Conti, lo sviluppo delle vicende artistiche in Italia e in Europa, nel Novecento. Di questo secolo così ricco di svolte epocali, il Maestro ha colto la linfa vitale. Nelle sale del Museo, il percorso si snoda dagli studi giovanili sulla figura umana, ai precoci interessi per l’arte “fauve”, preludio alla brillante stagione futurista. Conti seppe recepire gli umori più vivi e fecondi del Futurismo dando vita ad una pittura fresca, antiaccademica e ricca di poesia. In seguito, sempre su posizioni di fervida e costruttiva dialettica il pittore accompagnò l’arte moderna nel recupero della forma e delle tecniche espressive. Artista sempre giovane e pronto a mettere in discussione gli esiti espressivi raggiunti, Conti anticipò e visse fino in fondo lo spirito artistico e letterario del suo tempo. Gli ultimi anni della sua vita sono pertanto caratterizzati da una pittura vivace e lirica.
L’Archivio
Nell’Archivio, che si trova al piano superiore della villa, sono conservati numerosi Fondi che costituiscono la sezione documentaria della Fondazione e che appartennero ai protagonisti della scena culturale del primo Novecento: tra gli altri, i ricchissimi archivi di Papini, Conti, Pavolini,Carocci,Contri,Meriano, Ferrero, Viani, Pea, Sanminiatelli, Pratella ed un ricco fondo librario sul Futurismo composto per lo più da prime edizioni. Nel complesso si tratta di un patrimonio di più di centomila documenti, variamente distribuiti fra missive, manoscritti, disegni e foto d’epoca. Il materiale è suddiviso all’interno di ciascun Fondo secondo un ordine alfabetico e cronologico, quotidianamente a disposizione di un pubblico specialistico costituito da studiosi e ricercatori.
Notevole per il suo interesse storico e letterario è anche la ricca collezione di riviste, giornali e periodici futuristi fra cui si ricorda il numero di “Le Figaro” del 1909 in cui uscì il primo manifesto del Futurismo, la raccolta completa dei Manifesti originali del Futurismo, la serie iniziale della rivista “Noi” con le xilografie di Enrico Prampolini, la collezione della piccola rivista fiorentina “L’Enciclopedia”, considerata uno dei rari esempi di Dada italiano. Degna di nota anche la vasta biblioteca, collocata nella sala riservata alla consultazione, che conserva al suo interno numerosi volumi costituiti per la maggior parte da cataloghi di mostre, pubblicazioni di studi inerenti ai movimenti pittorico-letterari del primo Novecento italiano ed europeo, edizioni di carteggi fra i vari personaggi della cultura novecentesca. Le opere sono consultabili ma escluse dal prestito. Si tratta di pubblicazioni che appartenevano al Maestro, acquistate, frutto di scambio con altri Istituti, cataloghi di mostre alle quali la Fondazione ha partecipato come prestatore. Sempre nella sala di consultazione è conservata la collezione di cataloghi e depliant relativa agli anni 1913-1970, parte integrante del Fondo Contri. Il patrimonio librario della Fondazione è costituito inoltre dalla ricca biblioteca del Fondo Gioaccino Contri, dalla biblioteca privata del Maestro e dalle piccole biblioteche annesse ai vari Fondi documentali; complessivamente si tratta di circa tremilacinquecento unità.
Il Museo e l’Archivio rappresentano nel loro insieme un Centro unico in Italia per ripercorrere e ricostruire con rigore scientifico la vicenda dell’Avanguardia storica che tanto profondamente connotò i movimenti letterari e artistici di tantaparte di questo nostro secolo. Obiettivo privilegiato della Fondazione è infatti lo studio, la promozione e la diffusione del patrimonio artistico e letterario legato alla figura del Maestro Primo Conti, affiancato dalla valorizzazione del patrimonio pittorico, letterario, musicale legato al complesso periodo delle Avanguardie storiche. A questo scopo la Fondazione è coinvolta ogni anno in progetti di studio e ricerca finanziati dal Ministero dei beni culturali, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, dalla Regione Toscana, dalla Provincia e dal Comune di Firenze, dal Comune di Fiesole e dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.
Il Museo Primo Conti:
è aperto al pubblico dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 14, l’ultimo ingresso per la visita del Museo è alle ore 13.
Visite anche il sabato, la domenica e il pomeriggio, per gruppi, previo appuntamento.
Su richiesta, possibilità di una guida in lingua inglese e francese
Per informazioni, costi e prenotazione: tel.055.597095; fax. 055.5978145
segreteria@fondazioneprimoconti.org
Biglietto:
€ 3.00
I limiti della manovra economica e le ragioni del consenso
Sono chiari i difetti del Documento di Economia e Finanza ma le misure non hanno determinato una diminuzione del gradimento da parte dell’opinione pubblica, che sembra invece giudicare sempre più positivamente l’operato della maggioranza
Giovanni Belardelli Corriere della Sera 7 ottobre
Commenti e analisi degli ultimi giorni hanno chiarito in modo convincente quali siano i limiti, e spesso gli aspetti decisamente negativi, della manovra economica del governo: dal forte aumento del deficit, con il connesso rischio di impennata degli interessi sui titoli di Stato, al carattere assistenzialistico di una misura come il reddito di cittadinanza. Ma proprio chi condivida queste critiche dovrebbe anche chiedersi come mai le misure economiche previste non abbiano determinato una diminuzione del gradimento da parte dell’opinione pubblica, che sembra invece giudicare sempre più positivamente l’operato dei partiti di governo (i sondaggi continuano ad attribuire ai gialloverdi insieme un consenso superiore al 60%).
Un consenso di massa è sempre fatto di orientamenti diversi, nel senso che in certi segmenti dell’opinione pubblica esso avrà soprattutto certe motivazioni, in altri ne avrà altre. Nell’assegnazione del reddito di cittadinanza il Sud appare senz’altro favorito; e non a caso il giudizio positivo su questa misura, come ha mostrato un sondaggio comparso su questo giornale (Corriere, 4 ottobre), è lì maggiore rispetto al Nord (ma è significativo che i favorevoli superino i contrari anche nelle regioni un tempo «rosse»). Tra i favorevoli alla manovra possiamo dunque banalmente collocare quei 5 milioni di persone che prevedono di usufruire del reddito di cittadinanza (più una consistente quota di quanti sperano di averlo e poi non lo avranno). A costoro sono da aggiungere i pensionati e pensionandi che contano di beneficiare della modifica della legge Fornero e dell’introduzione della pensione di cittadinanza. In ogni caso, un governo fortemente concentrato sulle pensioni non può che essere guardato con favore da molti in un Paese che vede una presenza consistente e crescente di anziani (al momento gli ultrasessantenni sono quasi il 30% della popolazione).
Tuttavia la platea dei direttamente o indirettamente interessati alla manovra (mettiamoci pure quanti beneficeranno della cosiddetta pace fiscale) non penso che basti a spiegare il giudizio così ampiamente favorevole di cui si diceva. Per farlo dobbiamo piuttosto rifarci a certi orientamenti profondi di un Paese, il nostro, che nei decenni passati è stato abituato da un potere politico in cerca di facile consenso a misure economico-assistenziali il cui costo era scaricato sulle successive generazioni. L’enorme crescita del debito pubblico costrinse a un certo punto a interrompere quelle politiche ispirate a un «keynesismo perverso», come è stato definito, ma le conseguenze durano fino a oggi. Non solo perché è stata costante la tendenza di un po’ tutti i governi ad aumentare la spesa pubblica.
Forse ancora più rilevante è il fatto che, anno dopo anno, quelle politiche hanno alimentato un processo che potremmo definire di «deculturazione»; un processo attraverso il quale un Paese che, dopo la seconda guerra mondiale, si era mostrato capace di reagire con vitalità, impegno, fatica, essendo anche per questo protagonista di una grande crescita economica, ha visto diffondersi sempre più una cultura assistenzialista, un’abitudine al sostegno pubblico, una sfiducia nel valore del lavoro e della competizione economica; tutto ciò insieme a un senso diffuso di irresponsabilità che consentiva (e consente ancora) di non porsi troppi problemi circa il debito caricato sulle spalle dei nostri figli e nipoti.
È anche questo insieme di sentimenti diffusi che porta oggi all’assenza di forti reazioni di fronte a una manovra che, come ha dichiarato il presidente dell’Inps Boeri, «trasferisce risorse da chi lavora a chi non lavora».
Naturalmente c’è una parte ancora grande del Paese che non ha perso l’antica operosità, che si impegna e compete sui mercati internazionali; non è affatto scomparsa quell’«Italia dell’energia» – come chiamarono l’Italia del dopoguerra Giuliano Amato e Andrea Graziosi in un loro libro – che coltiva le inclinazioni e le abitudini di un tempo; un’Italia che guarda con diffidenza, e spesso con piena consapevolezza del pericolo, a politiche che distribuiscono soldi che non abbiamo; che non pensa ci sia nulla da festeggiare quando aumentiamo il deficit, e con esso l’ammontare già stratosferico del nostro debito pubblico. Purtroppo, almeno per ora, la voce di questa Italia è sopraffatta da quella di chi immagina possibile una specie di «Paese dei balocchi» nel quale si consuma senza lavorare. Abbiamo letto tutti Le avventure di Pinocchio e sappiamo che il suo fu un brutto risveglio.
Fanfare e silenzi. Viaggio nella pittura di Primo Conti
A trent’anni dalla sua scomparsa, le mostre di Villa Bardini, della Fondazione Primo Conti e della Sala del Basolato, intendono illustrare e celebrare nei suoi molteplici aspetti la pienezza del percorso artistico di Primo Conti.
VILLA BARDINI – FIRENZE 4 OTTOBRE /13 GENNAIO
Le stanze di Villa Bardini, divise in otto sezioni, ripercorrono, attraverso un itinerario cronologico e tematico, le tappe della pittura di Conti, arricchendosi del confronto con opere significative di altri artisti -maestri, amici, compagni di strada-, a suscitare atmosfere consonanti. Tale scelta è sembrata rispondere anche ad un’attitudine condivisa dall’artista stesso a serbare memoria non soltanto personale, ma anche collettiva di una stagione così straordinaria come quella fiorentina dei primi due decenni del Novecento; impulso da cui sarebbe nata l’impresa della Fondazione Primo Conti.
FONDAZIONE PRIMO CONTI – FIESOLE 11 OTTOBRE/ 13 GENNAIO
A Fiesole, gli spazi del Museo Primo Conti, in linea con la presenza nella stessa sede dell’Archivio e del «Centro di Documentazione e ricerche sulle Avanguardie Storiche», sono dedicati ad un approfondimento degli anni di adesione al futurismo, scandito da quattro sezioni focalizzate su altrettanti temi caratterizzanti quel futurismo di seconda generazione, nato nel 1916 dopo la fine di «Lacerba», e variamente sviluppatosi fino al 1919. Anche in questo caso le opere dell’artista sono pensate in dialogo con i rappresentanti di quella che Raffaello Franchi definì la «pattuglia azzurra» delle nuove leve fiorentine, divise fra l’ammirazione di Soffici e il rimpianto per Boccioni.
COMUNE DI FIESOLE 10 NOVEMBRE/13 GENNAIO
La Sala del Basolato è infine dedicata a ripercorrere una straordinaria esistenza vissuta senza risparmio, dall’infanzia alla vecchiaia veneranda, attraverso scatti fotografici spesso intensi e vivi come veri e propri racconti.
VILLA BARDINI
Firenze – Costa San Giorgio 2
ORARIO:
tutti i giorni escluso i lunedi feriali
dalle 10.00 alle 19.00
ultimo ingresso alla mostra ore 18.00
BIGLIETTI:
Intero € 10.00
Ridotto € 5.00
VISITE GUIDATE:
Gratuite con biglietto mostra, tutti i sabato e domenica ore 16.30 e 17.30
Parcheggio gratuito riservato all’interno di Forte Belvedere
info:
tel. 055 20066233
eventi@villabardini.it
Hanno un nome gli statali ebrei buttati fuori dal lavoro nel ’38
L’espulsione dei dipendenti pubblici ebrei nel 1938 fu la tomba del diritto
Gian Antonio Stella Corriere della Sera 3 Ottobre
Pace Raffaele, usciere. Minerbi Fernando, magistrato. Haim Massimiliano, operaio giornaliero. De Angelis Guido, vicedirettore del Tesoro. Luzzatto Mario, archivista. Foà Giovanna, professoressa. E via così… Hanno finalmente un nome gli ebrei che, sulla base delle leggi razziali del 1938, furono buttati fuori dallo Stato italiano per il quale lavoravano e nel quale credevano spesso con mal riposta devozione. Ottant’anni hanno dovuto aspettare perché fosse loro riconosciuto il primo dei diritti umani: la dignità di un nome. Una identità.
Quella che i nazisti cancellarono tatuando sulla pelle dei deportati un numero. Come quello impresso sul braccio della senatrice a vita Liliana Segre: n. 75190.
Nomi recuperati uno ad uno, con infinita, minuziosa, infaticabile pazienza da Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, che firmano Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943 (in libreria per il Mulino dall’11 ottobre). Un volume nel quale tutti quei nomi, recuperati appunto sui registri dei decreti di cessazione e di liquidazione di tutti i dipendenti pubblici ebrei, «ci si fanno davanti», come scrive Adriano Prosperi nella postfazione, «riscattati dal silenzio».
All’esterno, scrivono i due storici, quei grandi volumi di protocollo “in folio” sembrano normali registri tipici dell’epoca, magari solo molto voluminosi e poco maneggevoli. Ma basta aprirne uno e, a seguire, gli altri, e con un colpo d’occhio viene fuori immediata la grande e cupa sorpresa. Le pagine — molte pagine, talvolta, per intero — sono costellate di righe rosse, in corrispondenza di alcuni dei nomi presenti nel registro. Le righe rosse sottolineano le parole “Razza Ebraica”, “Ebreo”, “Ebrea”».
Nomi, storie, tragedie. Come quella dell’impiegata del ministero delle Comunicazioni Lidia Della Riccia, che il 18 novembre di quell’autunno nero scrive, «orfana e sola», a Vittorio Emanuele III una lettera gonfia di delusione e di sconcerto. Dove spiega non solo di esser stata battezzata, ma di essere entrata di ruolo con un decreto del 20 settembre 1938 e a partire dal 28 ottobre 1938. Cioè «dopo» l’inizio dell’offensiva razziale fascista: «Ero felice di essermi assicurata (…) un posto che mi avrebbe permesso di lavorare onestamente tutta la vita, quando le recenti disposizioni di legge in materia di appartenenti alla razza ebraica sono venute a togliermi quel posto così faticosamente guadagnato ed a respingermi nella miseria non avendo io diritto, data la mia limitata anzianità di servizio, a pensione o a indennità di alcuna specie».
E parlando di miseria la poveretta non esagerava. Le leggi sul lavoro, spiegano gli autori della ricerca, «spaccarono la comunità ebraica in due o addirittura in più segmenti, per cui una piccola parte comunque rimase protetta, e un’altra fu tremendamente impoverita». Qualcuno, in qualche modo, se la cavò. Come Paolo Vita Finzi che aveva 21 anni di servizio, era console a Sydney, sede disagiata per l’enorme distanza da casa, e «passò da uno stipendio medio di 21.262 lire a 8.141 di pensione», ma «probabilmente riuscì a vivere dignitosamente perché rimase all’estero, a Buenos Aires». A migliaia di chilometri da Roma e dalle persecuzioni antiebraiche in arrivo.
Molto peggio andò ad altri. Come il commissario Guido Cammeo che, vedovo con sette figli, venne espulso dalla polizia e dal ministero dell’interno il 5 set- tembre 1938, il giorno stesso della firma apposta dal re alla prima delle leggi fasciste. Non vedeva l’ora, Benito Mussolini che firmò il decreto, di buttar fuori quel funzionario con una pensione di 11.840 lire, la metà di quanto guadagnava prima. Non vedeva l’ora.
Figlio del rabbino di Modena, Guido Cammeo aveva agli occhi del Duce due colpe imperdonabili. La prima: nel 1923, a dispetto del regime già al potere, era stato assolto nel processo (aveva rifiutato l’amnistia: voleva il giudizio in tribunale) per una sparatoria nel 1921, a Modena, in cui erano morti otto fascisti (tra cui un ebreo, Duilio Sinigaglia) che «intendevano assaltare la Camera del Lavoro». La seconda colpa: era ebreo.
Reintegrato in servizio dopo l’assoluzione, per Cammeo era «iniziato un calvario in varie prefetture d’italia: dopo qualche tempo che arrivava in una nuova sede, qualcuno capiva chi era e incominciava una sarabanda contro di lui e doveva venir trasferito». L’espulsione, corredata da un «ritocco» alle date (anche l’infamia ci tiene ai timbri in regola), fu insomma per il Duce il coronamento di una vendetta. Covata per anni.
«Il totale minimo dei dipendenti statali “in pianta stabile” licenziati perché “di razza ebraica”», spiega nella prefazione Michele Sarfatti, «fu di oltre 720. Assieme ad essi furono estromessi coloro che avevano (anche allora) un rapporto di tipo precario o che rientravano in situazioni normative complesse». Una umanità di «maestre, operai della Zecca, chimici, ragionieri, professori universitari, direttori di carceri, insegnanti di violino…» senza differenze di classe. Tutti «collettivamente e più o meno simultaneamente licenziati, esonerati, allontanati, espulsi, estromessi, reietti, banditi; insomma, dissolti». Dissolti mentre, «parallelamente, altrettanti dipendenti, nati di “razza giusta”, vennero assunti o fecero uno scatto di carriera». Magari compiaciuti della «botta di fortuna».
Il registro, scrive Prosperi, «non è un libro su Mussolini o su qualcuna delle sue vittime, è un libro su come muore uno Stato. (…) Basta sfogliare gli atti amministrativi scoperti e pubblicati in questo volume per vedere come, pagina dopo pagina e persona dopo persona, lo Stato cancelli la legge e faccia straccio delle regole con le quali era costruito il reticolo di rapporti che lo costituivano». Derubando i dissolti, a capriccio, anche delle liquidazioni e delle pensioni cui avevano, per legge, diritto.
Questo furono allora «lo Stato, i suoi ministeri, la sua magistratura contabile: tanti corvi dal solenne aspetto impegnati a saccheggiare quel che spettava ai “liquidati” sotto il segno dell’arbitrio e della prepotenza». A ottobre, pochi giorni dopo le leggi razziali, riaprirono le scuole. Con «vuoti fra i banchi degli allievi e nelle file del corpo docente».
Eppure, accusa Prosperi, «Non ci furono reazioni. Chi mancava era entrato nell’ombra di percorsi privati, silenziosi e sofferti. Tra compagni e colleghi fu pronunziata a bassa voce la parola “ebreo”. E tutto finì lì».
Canti dei nostri soldati al fronte
DOMENICA 7 OTTOBRE ore 15,30
Abbazia di San Miniato al Monte, Firenze
A cento anni dalla Grande Guerra
IL CORO SOCIALE DI GRASSINA
diretto da
Ginko YAMADA
Esegue
Canti dei nostri soldati al fronte
Giuro che non avrò più fame.
L’Italia della Ricostruzione
Autore Aldo Cazzullo
Editore Mondadori
Collana: Strade Blu
Anno 2018
Pagine 264
Formato brossura
Prezzo € 18,00
Aldo Cazzullo, inviato ed editorialista del «Corriere della Sera» nel suo ultimo libro ci racconta la crisi attuale tramite un viaggio in un passato non così remoto ma che molto spesso viene dimenticato.
L’Italia del secondo dopoguerra, infatti, non era poi molto diversa da quella attuale: un decennio di crisi mostruosa e, sembra, insuperabile, ha creato un baratro notevole, aumentato vertiginosamente la popolazione che vive sotto la soglia di povertà e costretto gli appartenenti alla classe media a vivere in uno stato di continuo panico, terrorizzati dall’idea di poter perdere il lavoro da un momento all’altro, cosa che purtroppo in questi anni è diventata fin troppo frequente. L’Italia del 2018, quindi, è sopravvissuta ad una “guerra” e si sente povera, ma, quel che è peggio, ha perso la fiducia. É questa, infatti, la più macroscopica delle differenze tra il passato e il presente: dopo la fine della guerra le città devastate dai bombardamenti sono state ricostruite in pochissimi anni, i nostri nonni si sono fatti motori della rinascita, lavorando continuamente, senza ferie né vacanze, le nostre nonne hanno finalmente ottenuto l’emancipazione tanto agognata, passando attraverso la rivoluzione sessuale, i contraccettivi e l’abolizione dell’adulterio come reato volto a colpire solo le donne. E noi invece? Gli italiani di oggi sono sconfortati e sconfitti, i giovani, che si sono visti chiudere centinaia di porte in faccia, spendono all’estero i loro talenti, vedendoli finalmente riconosciuti, cosa che in patria non avviene.
Un popolo di passivi, dunque, ma che, secondo Cazzullo, è ancora in grado di farsi motore della propria rinascita anche grazie al recupero della memoria del passato, rendendo vera, oggi più che mai, la celebre frase che pronunciata con indimenticabile enfasi da Rossella alla fine di Via col vento che dà il titolo a quest’opera.
La nobiltà della Politica
Se non si è portatori di una visione storica e di strumenti di analisi culturale e di un serio e coerente patrimonio di valori e di idealità su cui fondare programmi di governo, la politica si fa asfittica e di corto respiro ed esposta alle degenerazioni, anche in senso morale, del potere quotidiano. La politica mette così a rischio la sua componente ideale e spirituale, la parte etica e umana della sua natura, di cui peraltro essa non potrà mai spogliarsi del tutto…
Thomas Mann Moniti all’Europa 1947
Il vento della antipolitica soffia da alcuni anni nelle società democratiche dell’Occidente, sostenuto da movimenti e partiti populisti in contrapposizione alle tradizionali forze politiche che hanno governato ininterrottamente dalla fine della seconda guerra mondiale.
La crisi economica, il discredito della classe dirigente per casi frequenti di corruzione oppure perché al servizio di fazioni e di interessi di parte e non del bene pubblico, hanno accresciuto le distanze tra popolo ed élite politico-economiche e convinto, anche in Italia, molti cittadini che in democrazia gli eletti siano i “portavoce” della volontà popolare, superando di fatto la rappresentanza parlamentare classica, che è legittimata dal voto sì, ma per fare in piena autonomia gli interessi dell’intera Nazione e non di una parte sia pure consistente di essa.
Se guardiamo infatti alla storia dei parlamenti europei dopo la fine dell’assolutismo monarchico, i rappresentanti del popolo, a partire dalla costituzione francese del 1791 e poi in tutte le costituzioni dell’Ottocento (compreso lo Statuto Albertino del 1848), progressivamente acquisirono sempre più la rappresentanza politica di tutta la nazione.
E in Italia, infatti, se l’articolo 1 della Costituzione affida la sovranità al popolo, “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, l’articolo 67 stabilisce che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Niente di più distante, quindi, dai diktat dei populisti o dei sovranisti.
Oggi più che mai, nella crisi dei valori e degli ideali democratici, non va delegittimata la Politica insieme ai suoi esponenti, ma va anzi rifondata nei suoi valori costitutivi, ridandole quel prestigio che aveva alle origini. Piero Calamandrei scrisse che la politica non è una professione. Il che è ovvio se si vuol dire che non può essere soggetta alla stessa logica degli affari. Ma la nobile arte della politica vuol dire vocazione e alta professionalità. Essa, come dice Max Weber, deve mettere insieme l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, ovvero saper commisurare le finalità con i mezzi disponibili, con lo sguardo addestrato a guardare nella realtà della vita. Se questi sono i tratti distintivi dell’uomo politico, la politica non può essere affidata al dilettantismo. Un dilettantismo e un’impreparazione culturale che portano alla demagogia e al disprezzo delle regole della democrazia e dello stato di diritto.
Una professione, quindi, quella del politico, che deve saper unire la razionalità dei programmi e degli obiettivi con la sincerità e la passionalità di accenti nella difesa del patrimonio di valori e ideali del suo Paese, entrando così in sintonia con i bisogni e i sentimenti non solo dei suoi elettori ma di tutti i cittadini.
Chi invece denigra l’arte della politica e parla in nome del popolo oppresso da fantomatici poteri forti, auspicando forme di democrazia diretta, prepara il terreno (eterogenesi dei fini) a forme di governo illiberali e autoritarie; e forse all’avvento dell’Uomo della Provvidenza.
Sergio Casprini
Villa dell’Ombrellino
Villa dell’Ombrellino Piazza Bellosguardo 11, Firenze.
Le origini della villa risalgono al 1372. Per quattrocento anni, la Villa di Bellosguardo, come era chiamata a quel tempo, fu abitata dalla famiglia Segni, il cui più illustre rappresentante fu lo storico Bernardo Segni. Nel 1815 la villa passò di proprietà alla contessa Teresa Spinelli Albizi che la fece totalmente ristrutturare. Fu lei che fece collocare sulla grande terrazza giardino che guarda verso Firenze una sorta di parasole in ferro a forma di ombrello cinese che ha dato il nome all’intera villa. Nel 1874 l’edificio fu acquistato dalla famiglia Zoubow, che quattro anni dopo, vi unì anche la contigua villa della Torricella. La fusione delle due proprietà portò ad una ristrutturazione dei due giardini, uniti in un unico vasto parco romantico, caratterizzato da numerose specie esotiche, quali: palme, bambù, cedri e ginko biloba.
Nei primi anni del XX secolo la villa passò all’inglese Alice Keppel, nota per essere stata “la favorita” di Edoardo VII, la quale, per ampliare il panorama, fece demolire la Torricella sostituendola con una loggia per la musica. L’intero parco fu disseminato di statue neocinquecentesche e neosettecentesche in pietra di Vicenza, concentrate in particolare nella parte che guarda Firenze. Nel 1926 questa zona del giardino fu trasformato in “giardino all’italiana“, con aiuole bordate di bosso, dall’architetto inglese Cecil Pinsent. Alla morte di Alice Keppel nel 1947, la villa fu ereditata dalla figlia Violet Trefusis che vi rimase fino alla sua morte. Scrittrice e saggista, Violet che ha annoverato amici e corrispondenti come Vita Sackville – West e Francois Mitterand si è sforzata di mantenere villa e giardino ai livelli del tempo di sua madre, con particolare attenzione alle fioriture in vaso ed in terra. La villa ha avuto molti ospiti illustri.
Galileo Galilei vi abitò tra il 1617 ed il 1631 ed in quegli anni scrisse il suo “Dialogo sui massimi sistemi“. Ugo Foscolo vi risiedette fra il 1812 e il 1813 vi compose il carme Le grazie. Anna Cora Mowatt nota come Mrs. Ritchie scrittrice di romanzi e di articoli sulla vita e gli avvenimenti fiorentini per giornali americani. Charles Elliot Norton studioso di arte e architettura italiana soggiornò all’Ombrellino tra la fine del 1870 e la primavera del 1871. Il pittore impressionista Marcel Desboutin, vi soggiornò verso la metà dell’Ottocento.
Oggi la villa è proprietà di una società immobiliare, che la vuole restaurare e destinare ad albergo e sede congressuale.