
Intervento di Alessandra Campagnano del Comitato Fiorentino per il Risorgimento all’inaugurazione della Mostra documentaria sabato 8 novembre alla Pieve di S.Maria, Dicomano
Alla scoperta di Pietro Leopoldo
Le compagnie religiose soppresse, documenti e storia ritrovati
Dobbiamo ringraziare gli ideatori e organizzatori di questa mostra perché ci consentono di approfondire un tema importante delle riforme leopoldine, quello della mancata riforma religiosa. È noto che Pietro Leopoldo nel suo programma riformatore, tendente a fare del granducato di Toscana uno stato avanzato come altri paesi europei, ebbe un’attenzione particolare alle problematiche religiose sia sotto il profilo dottrinale sia per i rapporti con lo stato pontificio e la presenza del Tribunale dell’Inquisizione.
Già nel 1753 a Firenze era stata fondata l’Accademia dei Georgofili allo scopo di rendere più produttiva l’agricoltura toscana, accogliendo i dettami della fisiocrazia che vedeva nell’agricoltura liberata dai vincoli feudali la fonte primaria della ricchezza. Con Pietro Leopoldo furono rese più produttive le proprietà fondiarie degli enti ecclesiastici sopprimendo la maggior parte dei conventi e dei monasteri ritenuti non utili al bene comune. Rimasero solo gli ordini religiosi maschili e femminili che si dedicavano alla pubblica utilità come quelli dediti all’istruzione e alla pubblica assistenza. I terreni espropriati vennero messi in vendita e furono acquistati da chi aveva capitali e interesse per farli fruttare con le nuove tecniche di coltivazione e la liberalizzazione dei commerci. Non fu abolita la mezzadria che fu sempre ritenuta dagli agrari toscani la forma migliore di organizzazione del lavoro in campagna. Furono fatti lavori di risistemazione idraulica, come ad esempio la regimazione del lago di Bientina, nel 1788 Vittorio Fossombroni (1754-1844) fu nominato dal granduca sovraintendente alle colmate della Val di Chiana. I successori di Pietro Leopoldo, Ferdinando III e Leopoldo II, continuarono ad avere attenzione per le aree paludose del granducato portando avanti progetti di sistemazione idraulica proseguiti ancora dopo l’unità d’Italia.
Alla politica religiosa di Pietro Leopoldo avevano costituito le premesse le dolorose vicende del poeta Tommaso Crudeli, condannato dal tribunale dell’Inquisizione, rimasto in prigione fino al 1741, poi liberato per le pressioni del granduca Francesco Stefano, marito di Maria Teresa d’Austria, e del conte di Richecourt presidente del Consiglio di Reggenza per conto di Francesco Stefano. Tuttavia fu confinato a Poppi per decisione dell’Inquisizione, mentre Giulio Rucellai (1702-1778), segretario del regio diritto, laureato in utroque iure presso l’università di Pisa e poi docente nella stessa università, anticurialista convinto, dal periodo della Reggenza curava i diritti dello stato contro le pretese della curia romana. Nel 1744 in Toscana il Tribunale dell’Inquisizione fu chiuso, ma con la venuta di Pietro Leopoldo nel 1765 l’azione di Rucellai fu ancor più incisiva: la sua pubblicazione Memorandum sui diritti della Nunziatura apostolica, dell’Inquisizione e sul diritto di asilo ecclesiastico, nonché sulla necessità e possibilità di diminuire i chierici e i monaci fu la base per i decreti del 1769 che abolirono il diritto di asilo e per l’adozione dell’exequatur che sottoponeva all’approvazione del granduca tutti i provvedimenti giudiziari emessi da paesi stranieri, anche quelli papali, fino ad arrivare nel 1773 all’espulsione dei gesuiti, dopo la soppressione dell’ordine.
La politica di soppressione dei conventi e monasteri maschili e femminili che non svolgevano opera di pubblica utilità come l’insegnamento e l’assistenza, si legava a un’altra riforma non meno importante: quella religiosa. Pietro Leopoldo appoggiò il vescovo giansenista di Pistoia e Prato Scipione dei Ricci e seguì l’esempio del fratello Giuseppe II e della madre Maria Teresa che nell’impero austriaco avevano riorganizzato l’ordinamento ecclesiastico riducendo notevolmente forme di devozione popolare molto radicate negli strati più bassi del clero e della popolazione ma al limite della superstizione. Non per nulla Giuseppe II veniva sarcasticamente definito da Federico II di Prussia il “re sagrestano” per la sua attenzione maniacale a tutte le forme della liturgia.
L’11 maggio 1775 Pietro Leopoldo promulgò una la legge che aboliva il diritto all’esenzione fiscale per i beni degli enti ecclesiastici e delle compagnie. Queste erano formate da laici e la costituzione di alcune di loro risaliva al Medioevo. Nel XVI secolo ebbero nuovo impulso, grazie all’affermazione di una devozione popolare legata al culto dei santi e della Madonna sostenuta dalla Controriforma. Le compagnie avevano una funzione caritativa e assistenziale con la presenza di un “correttore”, un sacerdote, spesso il parroco o pievano della parrocchia del territorio di pertinenza. Nel corso del tempo, anche in territori periferici come Dicomano, il loro numero era diventato ragguardevole e avevano accumulato, grazie ai lasciti testamentari, alle elemosine e alle celebrazioni liturgiche beni immobili di rilievo. Importante era il culto dei morti con i suffragi che portavano a correttori e altri chierici guadagni che avevano attirato l’attenzione di riformatori religiosi, di orientamento giansenista, e delle autorità statali. Così 10 anni dopo, il 21 marzo 1785 una legge impose la vendita immediata dei beni delle compagnie. Gli acquirenti erano coloro che avevano capitali da investire per rendere più fruttuosi i terreni agricoli. Con la successiva legge del 22 marzo 1785, riconoscendo evidentemente il ruolo sociale delle compagnie, fu approvata l’istituzione di una sola associazione per parrocchia, la Compagnia di Carità sotto il diretto controllo del Parroco e senza beni propri. Era obbligatoria per tutti gli aderenti la veste bianca, a differenza di quanto accadeva prima, quando ogni Compagnia aveva il suo colore. Indubbiamente il colpo d’occhio durante le processioni era imponente.
Nella politica di riforme illuministe di Pietro Leopoldo un ruolo fondamentale lo ebbe Scipione de’ Ricci (1741 – 1810), il vescovo giansenista di Prato e Pistoia. Il giansenismo promuoveva una forte e austera visione morale della vita, per la quale certe forme di devozione popolare sostenute dal clero per motivi non sempre e soltanto religiosi erano da rifiutarsi e abolirsi. Anche il rapporto con la curia papale doveva portare a un rafforzamento del ruolo dell’autorità statale secondo i principi del giurisdizionalismo, come era già accaduto in Austria. In Toscana le scelte di rinnovamento ebbero molte difficoltà, come si vide nel 1787, durante l’Assemblea di Firenze (23 aprile – 5 giugno) di vescovi e arcivescovi convocata allo scopo di preparare il sinodo nazionale. Infatti le interferenze della curia romana e le perplessità della parte più moderata e conservatrice dei prelati portarono a un rifiuto di decisioni unitarie valide per tutto l’episcopato. A tutto questo si aggiunsero nel mese di maggio i tumulti di Prato scoppiati a causa della notizia infondata che Scipione de’ Ricci volesse abolire la devozione del Sacro Cingolo, la reliquia della cintola della Madonna, simbolo dell’identità religiosa e civile della città di Prato ancora oggi. Lo scopo della riforma mirava a rendere il granducato indipendente dal potere papale attraverso la costituzione di una chiesa nazionale legata a Roma solo sotto il profilo dottrinale. Anche se la riforma religiosa non ebbe il successo sperato, lasciò però tracce nella formazione del clero attraverso i seminari ai quali Scipione de’ Ricci aveva dedicato attenzione a Prato e a Pistoia, la sua diocesi.
Con l’arrivo delle truppe francesi scoppiarono in Toscana i moti del Viva Maria, un movimento antirivoluzionario e sostenitore della tradizione come era accaduto in Vandea in Francia e con il movimento sanfedista nell’Italia meridionale. Indubbiamente il movimento si macchiò di orribili delitti – pensiamo a Montepulciano e a Siena – e solo il ritorno dei Francesi lo represse. Ma qui, di fronte a questi documenti dobbiamo porci qualche domanda. Indubbiamente il programma riformatore di Pietro Leopoldo portò a un rinnovamento che ancora oggi permette di ricordare la tradizione di civiltà della Toscana, come l’abolizione della pena di morte il 30 novembre 1786. Però il successo del Viva Maria può spiegare come l’abolizione delle Compagnie in un territorio come Dicomano e altri fu sentita come un’imposizione di cui non si comprendeva la necessità. Oltretutto nel 1798 il figlio di Pietro Leopoldo, Ferdinando III ordinò alle chiese, monasteri, conventi e altri enti religiosi di consegnare gli ori e gli argenti per fonderli per farne monete. Non c’era possibilità di sfuggire all’ordine: Ferdinando aveva provveduto a far fare prima un inventario di tutto quello che c’era. Questo agli occhi dei pii fedeli e del clero più moderato o conservatore appariva un’ulteriore profanazione che privava le chiese, le compagnie dei loro tesori. Siamo ancora in un’epoca di forte contrapposizione religiosa in termini dottrinali e politici e le posizioni giurisdizionalistiche di Pietro Leopoldo apparivano il frutto di un’adesione a principi contrari alla vera fede, ossia quella cattolica.
Però le vicende della Rivoluzione francese e delle conquiste napoleoniche spinsero tutti i sovrani illuminati del XVIII secolo, anche Pietro Leopoldo diventato imperatore austriaco nel 1790, a non proseguire sulla strada di ulteriori riforme. Dopo il congresso di Vienna l’alleanza fra trono e altare segnò addirittura un regresso. Però non vennero più ricostituite le compagnie soppresse e i beni espropriati agli enti ecclesiastici, comprese le compagnie, rimasero ai nuovi proprietari.
L’espropriazione dei beni ecclesiastici fu ripresa con ben altra energia dopo l’unità d’Italia per dotare il nuovo stato di strutture in grado di accogliere le istituzioni, dagli uffici amministrativi, alle scuole pubbliche, alle caserme. Era quello che temeva il padre Pirrone nel Gattopardo quando, durante la spedizione dei Mille in Sicilia paventava quanto era già avvenuto nel secolo precedente e spiegava come l’azione caritativa e assistenziale della Chiesa ne avrebbe risentito. Ma soprattutto pone a noi oggi un interrogativo: questo tipo di assistenzialismo favoriva il progresso economico e sociale oppure garantiva il mantenimento di uno stato di secolare arretratezza?
Alessandra Campagnano



Giovanni Spadolini. L’ultimo politico risorgimentale.