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Stemmi senza dilemmi: come conoscere la storia attraverso i loghi

05/03/2018 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

Marco Carminati Sole 24 ore 25 febbraio

Uno storico dell’arte che si imbatta in quadri, statue, oreficerie o pagine miniate di cui non sa assolutamente nulla ma su cui campeggiano con evidenza degli stemmi, può ritenersi uno storico dell’arte fortunato. La sua ricerca è iniziata con il piede giusto perché all’interno di uno stemma si celano spesso numerose e preziose informazioni. Decifrare correttamente gli stemmi significa, ad esempio, poter datare con buona approssimazione l’opera, poterne stabilire la committenza o i passaggi di proprietà e, talvolta, poter definire la sua provenienza geografica. L’araldica – ovvero la scienza che studia gli stemmi – non è dunque un pallido retaggio del passato o un passatempo per nobili in disarmo, ma è una disciplina ancora piuttosto vitale per almeno due ragioni: la prima è che aiuta a comprendere la storia; la seconda è che la società contemporanea continua, imperterrita, a produrre stemmi.

Un aureo libretto edito da Ponte alle Grazie ci racconta in modo brillante e sintetico la storia dell’araldica dal Medioevo ai nostri giorni. L’autore è un pezzo da novanta, Michel Pastoureau, il medievista francese celebre per essere uno dei massimi storici dei colori. E allo studio dei colori Pastoureau è giunto proprio partendo dall’araldica, perché i primi stemmi di cui siamo a conoscenza erano caratterizzati solo da semplici bande colorate.  

Ma chi inventò gli stemmi e per quale motivo? Benché roboanti eruditi del passato, per nobilitare l’origine degli stemmi, abbiano tirato in ballo addirittura Adamo, Noè, Alessandro Magno o Giulio Cesare, oggi bisogna arrendersi all’evidenza che gli stemmi siano stati introdotti “solo” nel Medioevo, tra l’altro con funzioni più pratiche che nobili. In età medievale i soldati di rango impegnati sui campi di battaglia erano completamente rivestiti da armature metalliche e avevano i volti celati sotto pesanti elmi. Erano dunque irriconoscibili, e ciò poteva significare un serio pericolo soprattutto se ci si trovava nel bel mezzo della mischia. Porre sugli scudi dei soldati facili segni di riconoscimento (fatti inizialmente di sole figure geometriche colorate, di animali o di vegetali) era un modo semplice ma efficace per distinguere gli amici dai nemici. Questi segni di riconoscimento si trasformarono presto in emblemi personali e, dal XII secolo in poi, cominciarono a essere trasmessi in eredità alla famiglia. Utilizzati in origine solo da prìncipi e da nobili, con il XIII secolo gli stemmi dilagarono ovunque: se li attribuirono le donne, gli ecclesiastici, i borghesi, gli artigiani, le città, le corporazioni dei mestieri. In certe regioni d’Europa (Normandia, Fiandre e Inghilterra) persino i contadini si procurarono i loro stemmi. Ciò significa che gli stemmi non erano affatto prerogativa dei soli nobili, ma ognuno poteva assegnarseli, a un’unica condizione: non copiare gli stemmi altrui.

Di fatto, furono signori e cavalieri a farne largo uso, e non si accontentarono di porli sopra gli scudi ma li fecero riprodurre – come fossero sigilli di proprietà – su gonfaloni, galdrappe, abiti, opere d’arte, libri, arredi, castelli, palazzi e cappelle gentilizie. Risultato: l’Europa si riempì di stemmi. Oggi ne sono stati censiti circa un milione, di cui solo un terzo appartenenti alla nobiltà.

Dinnanzi alla proliferazione degli stemmi sorse presto la necessità di una loro regolamentazione. Agli inizi ci pensarono gli araldi, che erano speciali funzionari al servizio di prìncipi e nobili con il compito specifico di recare messaggi, dichiarare guerre e annunciare tornei. Grazie a queste prerogative, gli araldi si specializzarono nella distinzione e nel riconoscimento degli stemmi, e poi, col tempo, furono loro a codificarne le forme, le regole e il valore. Dagli araldi nacque così l’araldica.

In epoca moderna, però, l’araldica divenne appannaggio di storici e “antiquari”, e gli Stati cominciarono anche a specularvi sopra. Nella Francia del Re Sole, ad esempio, si ordinò un censimento di tutti gli stemmi del reame non per amore di conoscenza ma per far pagare una bella tassa a chi li deteneva. E chi non possedeva stemmi? Molto semplice: a chi non li possedeva (ovvero magistrati, medici, mercanti, artigiani, eccetera) gli stemmi furono assegnati d’ufficio, ovviamente con tassa allegata da pagare. E per le immagini da mettere sui blasoni non si stette troppo a guardare per il sottile: ad esempio, un farmacista bretone si vide assegnare un bello stemma con sopra una siringa e tre vasi da notte. Sic et simpliciter.

La rivoluzione francese portò con sè la più disastrosa strage di stemmi della storia. Poi, Napoleone e la Restaurazione li ripristinarono, e oggi hanno ancora un certo valore soprattutto nelle nazioni rette da monarchie, come il Regno Unito, il Belgio, i Paesi Bassi, oppure nella Chiesa cattolica, dove papi, cardinali e vescovi ancora necessitano di uno stemma distintivo.

Ma lo stemma resiste a livello generale. La Russia comunista ne ha prodotti un notevolissimo campionario. Di contro, anche le aziende dell’emisfero capitalista hanno attinto a piene mani all’araldica: pensiamo solo al cavallino rampante della Ferrari o il leone rampante della Peugeot, che – detto per inciso – è stato preso di peso dallo stemma dei conti di Borgogna.

Oggi l’araldica spopola – in forma di stemmi, emblemi, simboli, loghi e marchi – nell’industria, nella manifattura, nella politica e nella vita civile. La troviamo persino negli stadi: gli scudetti, i colori delle maglie dei giocatori e gli striscioni agitati dai tifosi riprendono spesso simboli e tinte araldiche. La prova: i giocatori della Roma indossano una maglia giallorossa che deriva dallo stemma cittadino. Ma lo stemma di Roma contiene due tinte dall’altissimo valore araldico: la porpora e l’oro, i colori specifici degli imperatori dell’Urbe.

 

Michel Pastoureau, Figure dell’araldica. Dai campi di battaglia del XII secolo ai simboli della società contemporanea, traduzione di Guido Calza, Ponte alle Grazie, Milano, pagg. 126, € 20

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