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Quell’8 settembre l’Italia smarrì l’idea di bene pubblico nazionale

13/09/2013

Giovanni Berardelli               Corriere della Sera 8 settembre 

L’armistizio: Settant’anni fa la ratifica della sconfitta militare

 

 

>>>ANSA/ Storia: 70 anni fa l'illusione di Roma città apertaPoche date della storia italiana come l’8 settembre 1943 hanno avuto una natura altrettanto mal definita o controversa. In pochi altri casi la specifica realtà dell’avvenimento è stata spesso sostituita da interpretazioni e distorsioni che all’indomani della guerra avevano anzitutto a che fare con la difficoltà a riconoscere il dato della sconfitta militare legato appunto alla firma dell’armistizio, avvenuta il 3 settembre a Cassibile e resa nota cinque giorni dopo agli italiani con il famoso discorso di Badoglio alla radio.

La nuova classe politica antifascista aveva mostrato di ritenere che quella che volgeva alla fine era stata la guerra di Mussolini, che perciò la riguardava solo fino a un certo punto. Di qui, per anni, l’imbarazzo di fronte a una ricorrenza che ricordava come questo non fosse vero, come per gli angloamericani fosse stato invece l’intero Paese ad aver perso la guerra. È sempre per questo motivo che si è voluta spesso far coincidere la data che più di ogni altra testimonia della sconfitta dell’Italia in guerra, appunto l’8 settembre, con l’inizio della Resistenza, che avrebbe le sue origini nelle prime spontanee reazioni di militari e civili contro i tedeschi all’indomani della notizia dell’armistizio.
Polemicamente, con un rovesciamento un po’ meccanico della tesi di chi come Ernesto Galli della Loggia ha visto nell’8 settembre la «morte della patria», si è sostenuto che no, in quel giorno la patria semmai rinacque (così Marco Revelli su «Repubblica»).

Per recuperare il vero significato di quell’avvenimento e ciò che esso ha lasciato in eredità all’Italia repubblicana occorre riandare a quel che avvenne ai vertici del Paese l’8 settembre e nei giorni immediatamente seguenti, con la repentina disgregazione sia dell’apparato militare sia delle strutture fondamentali dell’amministrazione pubblica. Strettamente collegata a tale disgregazione, in gran parte causa di essa, fu la clamorosa inadeguatezza – fatta di errori, paure, incompetenza, viltà – di quanti rappresentavano allora lo Stato ai massimi livelli, civili e militari. Il minuzioso racconto degli eventi fatto qualche anno fa da Elena Aga Rossi ( Una nazione allo sbando , il Mulino) rappresenta l’agghiacciante prontuario della pochezza di una classe dirigente, che provocò la liquefazione dell’intero dispositivo militare italiano, lasciato dai suoi vertici senza ordini, e il crollo dello Stato nato dal Risorgimento, simboleggiato dalla fuga del re da una capitale abbandonata a se stessa.

Il fatto che la notizia dell’armistizio venisse tenuta irresponsabilmente nascosta fino all’ultimo (la maggioranza delle forze armate italiane ne ebbe notizia solo attraverso il discorso di Badoglio alla radio) e che non fosse organizzata alcuna difesa di fronte alla prevedibile, rabbiosa reazione tedesca, ebbe conseguenze rilevantissime: non solo cambiò le sorti della guerra in Italia, ma favorì la presenza di due Stati – il Regno del Sud e la Repubblica Sociale – in una penisola che diventava ora teatro sia dello scontro tra Germania e angloamericani sia di una guerra civile tra italiani.
Di fronte al collasso delle strutture statali successivo all’8 settembre, la gran parte della popolazione – militari e civili – reagì cercando sostegno e protezione nei legami familiari e nelle reti elementari di solidarietà basate sulle relazioni interpersonali. Reagì, cioè, facendo ricorso a legami e sentimenti di tipo «orizzontale», che scontavano l’assenza o marginalità del rapporto «verticale» con le strutture – amministrative e simboliche – dello Stato. In un certo senso, si ritornava alla situazione preesistente il 1861, con il riemergere dei caratteri profondi dell’antropologia italiana, al di là delle sue varianti regionali, spesso radicati nella tradizione cattolica del paese: capacità di adattamento e sopportazione, disponibilità a prestare soccorso agli sconosciuti, forza dei legami familiari e dei vincoli comunitari di base, un’antica sfiducia nei confronti del potere.

Dopo l’8 settembre il Paese si dimostrò dunque capace di ricorrere a una sua fondamentale vitalità, a quella «energia» profonda che di recente Giuliano Amato e Andrea Graziosi ( Grandi illusioni , il Mulino) hanno visto come uno dei fattori della stessa ricostruzione postbellica e del cosiddetto «miracolo economico». Ma è anche vero – e la cosa non sarebbe stata senza conseguenze – che nella nuova Italia repubblicana, in gran parte proprio come esito duraturo e profondo dell’8 settembre, dovevano perdere di importanza quei concetti di nazione e di patria che, dal Risorgimento in poi, avevano alimentato idee e sentimenti di quote crescenti di italiani. È un fenomeno che lascia tracce anche negli usi linguistici: se nei primi anni del dopoguerra il tema patriottico sembra ancora caratterizzare la retorica dei partiti, con gli anni 50 i termini patria e nazione si fanno desueti e imbarazzanti, e vengono abitualmente sostituiti da «Paese»; insistere a usarli espone anzi al rischio d’essere tacciati di sentimenti fascistoidi. L’espressione «interesse nazionale» diventa anch’essa tabù e così rimarrà fino alla metà degli anni 90.

La crisi delle strutture, ma anche dell’immagine e dei valori legati allo Stato nazionale doveva proiettare la sua ombra sui decenni successivi, anche per un fatto ben noto. Nell’Italia repubblicana il principale partito di governo, la Dc, e il principale partito di opposizione, il Pci, erano entrambi eredi di forze – i cattolici e i socialisti – estranee alla tradizione del Risorgimento. Parallelamente si affermava un «patriottismo di partito»: era il partito di appartenenza che diventava la vera «nazione». Molti, in sostanza, si sentivano democristiani, socialisti o comunisti prima che italiani. La dimensione nazionale diventava così una dimensione esclusiva, che comprendeva «noi» contro «loro».
Naturalmente, si può ritenere – qualcuno lo ha sostenuto – che la crisi dello Stato nazionale e dell’idea di patria o nazione non costituisca oggi un gran danno. Resta il dubbio che senza l’uno e l’altra – senza uno Stato nazionale autorevole ed efficiente, senza una minima percezione di appartenere a una stessa comunità nazionale – sia destinata però a perpetuarsi quella mancanza di un’etica del bene pubblico di cui soffre il nostro Paese.

Pubblicato in: Tribuna
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