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Quanto ci manca il conte Cavour

06/06/2011 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

In un’Italia vischiosa e corporativa attuale il suo riformismo liberale. Articolo di Salvatore Carrubba da Il Sole 24 ore 05 giugno 2011.

Il successo, anche popolare, della parata del 2 giugno ha confermato una partecipazione al centocinquantenario dell’Unità d’Italia sulla quale pochi (anche nella maggioranza di centro-destra) avrebbero scommesso prima del 17 marzo. Forse, proprio questo ritrovato e diffuso (soprattutto nel Centro-Nord) senso dell’unità di patria contribuisce a spiegare perché la Lega non abbia sfondato, nonostante le aspettative, fuori dai suoi tradizionali recinti geografici, sociali e culturali.
Domani cade un altro appuntamento importante nella memoria nazionale, ossia il centocinquantenario della morte dell’artefice dell’Unità, il conte di Cavour, forse rimasto un po’ più in disparte del dovuto in questo anno di efficace recupero della tradizione unitaria e risorgimentale. I torinesi che nel 1861 tributarono al loro primo ministro esequie degne di un sovrano avevano colto con precisione il trauma di una missione rimasta incompiuta: non l’unità, ma l’unificazione effettiva di una nazione sulla scorta dei presupposti liberali e democratici ai quali Cavour non aveva mai rinunciato.
Con la morte del Conte, scrisse Piero Gobetti, «la rivoluzione veniva a trovarsi senza contenuto e senza guida». E aggiungeva profeticamente lo stesso: «Il problema di Cattaneo ridiventava predominante». Insomma, Cavour lasciava incompiuto il processo di costruzione dello stato unitario, col quale ancora facciamo i conti in questi mesi, quando discutiamo di un assetto federale che allora sarebbe stato impossibile da realizzare (se non al prezzo di consegnare l’Italia al Papa-Re).
Cavour, è noto, non era federalista, ma non è affatto detto che l’alternativa, per lui, fosse il centralismo più spietato: del resto, fu proprio uno dei suoi eredi più devoti, Marco Minghetti, a immaginare uno sfortunato disegno di decentramento che la destra storica respinse perché spaventata dal brigantaggio meridionale.
Ma Cavour, oggi, è attuale non per l’esito che non ebbe il tempo di concludere, bensì per il disegno che ebbe il coraggio di delineare e che troppo spesso la cultura nazionale è portata a trascurare: l’unità della nazione, certo; ma soprattutto il consolidamento di un regime liberale (e, per l’epoca, democratico) che assunse il significato di un’autentica rivoluzione culturale. L’Italia unitaria come l’aveva voluta Cavour poté entrare a testa alta nel gruppo, assai limitato, degli stati di diritto, tutelati da una Carta costituzionale che tutti gli stati preunitari avevano stracciato dopo la fiammata del 1848. E questo grazie a Cavour e a una ristretta classe intellettuale che si erano opposti a qualunque revanscismo reazionario, fosse pure coperto dall’avallo autorevole della Corona.
Cavour non fu, come spesso lo si dipinge, un semplice manovale della realtà, pronto ad approfittare delle circostanze fortunate che gli si presentavano; fu l’artefice ostinato delle fortune proprie e del proprio Paese. E lo dimostrò, prima ancora che con l’operato da politico, con quello da imprenditore, da intellettuale e da giornalista. Cavour non avrebbe mai creduto nella “fine della storia”, e anzi parlava della storia come di «una grande improvvisatrice». «In cospetto di tanta incertezza» si rifiutava di rimanere «sbigottito e sfiduciato» ma scendeva in campo, con l’azione e col pensiero, per fare opinione pubblica e trasformare la realtà. Era un liberale e un innovatore: nei suoi campi prima ancora che nelle aule parlamentari. Era, insomma, un riformista, come ha efficacemente ricordato pochi giorni fa Mario Draghi nelle sue Considerazioni finali; e proprio perché riformista, comprendeva l’esigenza di costruire consenso e vincere la battaglia delle idee.
Il socialismo non lo terrorizzava, ma lo metteva in guardia contro i rischi della reazione: con linguaggio ottocentesco e patrizio parlava di «carità legale», ma aveva in mente un sistema efficace di welfare che riconoscesse «quale uno stretto dovere sociale il non lasciare nessun individuo esposto a cadere vittima delle estreme miserie». «Pronto a combattere tutto ciò che potrebbe sconvolgere l’ordine sociale, (dichiarava) però considerare come stretto dovere della società il consacrare parte delle ricchezze che si vanno accumulando col progredire del tempo al miglioramento delle condizioni materiali e morali delle classi inferiori». E additava perciò l’esempio dell’amata Inghilterra che aveva saputo reagire alla prostrazione economica che assumeva aspetti di autentico degrado morale di quelle classi operaie che ne avevano assicurato l’impetuoso sviluppo economico.
Fiducioso nella libertà, diffidava dell’intervento pubblico e combatteva le barriere doganali, anzi vedeva nel protezionismo proprio «la pietra angolare sulla quale il socialismo innalza le batterie colle quali intende abbattere l’antico ordine sociale». E non temeva perciò di rifiutare protezioni alle industrie decotte.
Ce n’è abbastanza per comprendere come mai in un’Italia vischiosa e neo-corporativa Cavour sia più rispettato che apprezzato, più conosciuto che condiviso. Eppure stanno proprio nella sua eredità molti tra i momenti più alti dello sviluppo sociale, economico e politico del nostro Paese, in una linea di riformismo liberale che attraverso Giolitti e Einaudi arriva fino ai nostri giorni. Ricordare Cavour è l’occasione per rivendicare l’attualità e la vitalità di quella tradizione, ancora orfana di eredi politici.

 

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