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Memorie e ricette per ricordare il padre della cucina italiana

17/07/2020 da Sergio Casprini

Villino Puccioni Piazza d’Azeglio 35 Firenze

Il 4 agosto del 1820 nasceva a Forlimpopoli il padre della cucina che unì l’Italia a tavola. L’omaggio dei romagnoli che vivono a Firenze in un libro pieno di storie, memorie e ricette di casa

Donatella Lippi Corriere Fiorentino 17 luglio 2020

Firenze, 1891: Pellegrino Artusi dava alle stampe La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Se, nel 2011, a 100 anni dalla sua morte, è stato celebrato l’Anno Artusiano, le emergenze di oggi rischiano di far passare inosservato il secondo anniversario della sua nascita: Forlimpopoli, 4 agosto 1820.

 Figlio di quella fetta di Romagna, che Alfredo Panzini idealizzò «fra i verdeggianti colli e l’arco lunato del luminoso Adriatico», Artusi si trasferì a Firenze, dopo che il brigante Stefano Pelloni, il Passatore, saccheggiò Forlimpopoli, segnando per sempre sua sorella Gertrude, che, «vittima di un barbaro oltraggio», sarebbe poi morta in manicomio. Correvano gli anni Cinquanta del XIX secolo e, a Firenze, Artusi prese casa prima in via Ricasoli, poi in Piazza D’Azeglio, in quella parte della città, che, destinata a diventare effimera capitale d’Italia, stava vivendo una vera e propria rivoluzione urbanistica. Qui Artusi ebbe una vita agiata e tranquilla, consacrandosi a tempo pieno alle sue due grandi passioni, la Letteratura e la Cucina, e scrivendo quella che sarebbe diventata un’opera identitaria dell’Italia unita, La scienza in cucina. Quando, però, sottopose il testo agli editori, questi lo rifiutarono e, quindi, Artusi fece stampare il volume a sue spese «pei tipi dell’editore Landi», in solo mille copie. Paragonando la sua opera a una «Cenerentola», Artusi stesso rievoca il destino delle due copie che donò come premio per una fiera di beneficenza a Forlimpopoli: coloro che le vinsero le vendettero al tabaccaio, dopo averle messe «alla berlina» … Guadagnatosi i primi crediti, però, Artusi troverà in seguito convinti estimatori nel pubblico dei lettori e delle lettrici e, nel giro di pochi anni… le pietanze fermentano, «montano» come lo Sgonfiotto di farina gialla, lievitano nel numero, raggiungendo, nel 1910, le 790 ricette e le 52.000 copie: verrà anche aggiunta l’appendice «Cucina per gli stomachi deboli», in linea con la tendenza igienista del secolo, dedicata a quel «viscere capriccioso», che sposava, con gioia piena, «Economia e Buon Gusto».

Curioso sperimentatore, estimatore originale della buona tavola nella sua più ampia accezione, fatta anche di rapporti umani e di buone maniere, Pellegrino Artusi è un punto di riferimento ineludibile della nostra gastronomia e della nostra cultura. Nella sua cucina fiorentina, Marietta e Francesco assecondavano le richieste del padrone di casa, preparando e sperimentando manicaretti: alla fedele Marietta, Artusi dedicò la ricetta del panettone, perché «è brava cuoca e tanto buona ed onesta da meritare che io intitoli questo dolce col nome suo, avendolo imparato da lei». Se oggi si discute di commercializzare il panettone anche in periodo non natalizio, Artusi richiama sempre alla stagionalità e alla localizzazione e non propone soltanto ricette, secondo una formulazione didattica e descrittiva, ma anche riflessioni e racconti, che contestualizzano le pietanze e ne raccontano, spesso, la storia.

Evocato come «l’Artusi», nel linguaggio di tutti, con Le avventure di Pinocchio, di Collodi, e Cuore, di De Amicis, La scienza in cucina si pone nella scia dei capolavori dell’Italia unita, veicolo anche di quell’ideale di lingua parlata e scritta, che tanto amava Manzoni. Artusi difende, infatti, la lingua italiana dalle contaminazioni straniere, anche se si sente costretto a conservare le tedescherie della ricetta dei Krapfen dei o gli anglismi, che riflettono la presenza forte e stabile della colonia anglo-fiorentina: Sandwich, Roast-beef, destinato a diventare Rosbiffe, Piccion paio, adattato dall’inglese Pigeon pie… Artusi utilizza anche il termine arabo Alchermes e Cuscussù, con cui indica il piatto tipico degli Ebrei livornesi…

Cuochi fiorentini prestavano servizio nelle cucine dei nobili stranieri che abitavano in città e, da questi, avevano mutuato alcuni usi alimentari, ma, ad arricchire tale golosa erudizione, avevano contribuito i viaggi, resi sempre più spediti dallo sviluppo della rete ferroviaria, e le villeggiature. È la ferrovia che delimita, infatti, l’orizzonte di Artusi, dalle grandi città del Nord, all’Italia centrale, attraversata dalla linea Leopolda, fino a Napoli: se i Lorena avevano favorito lo sviluppo della viabilità tra la Romagna e la Toscana, nel 1893 sarebbe stata inaugurata la ferrovia Faentina, che avrebbe consolidato stabilmente l’attrazione per Firenze, aprendo la strada a tanti altri Romagnoli, che si sarebbero trasferiti nel capoluogo toscano.

I discendenti di questa generazione sono gli autori di un volume, La Romagna a Firenze. Storie di Famiglia e 60 ricette dedicate a Pellegrino Artusi da me curato (Pontecorboli 2020), che raccoglie le vicende di queste famiglie e le loro ricette «di casa», con le introduzioni di Zeffiro Ciuffoletti e di Giovanna Frosini.

Se Pellegrino Artusi, nonostante gli anni vissuti in Toscana, rimase sempre legato alla sua Terra, questo sentimento è un tratto caratteristico della gente di Romagna ancora oggi, tanto che, in anni recenti, l’attaccamento dei Romagnoli si è tradotto anche in due neologismi, che hanno conquistato l’onore dei vocabolari: Romagnolità, «l’essere romagnolo per nascita e formazione culturale» e Romagnolitudine, «l’insieme dei caratteri tradizionalmente attribuiti ai romagnoli». Ma, al di là delle definizioni, complicate dagli interventi amministrativi del Regime e dallo storico sconfinamento del dominio di Firenze oltre la frontiera geografica dell’Appennino, esiste davvero un «sangue romagnolo», per dirla con De Amicis, che unisce coloro che vivono lontani dalla loro Terra, condividendo le radici in quella parte del territorio situato nella fascia pedemontana dell’entroterra, tra il Reno, il Sillaro e la costa adriatica. Sono gli «esuli» romagnoli a Firenze, eredi di quelle famiglie che, dalla metà del XIX secolo, scelsero Firenze per studiare, per lavorare, per vivere e che, come Pellegrino Artusi, non sono riusciti a spezzare il cordone ombelicale con la Romagna, dove hanno mantenuto casa, rapporti, legami. Pur vivendo a Firenze.

Questi Romagnoli formano un gruppo spontaneamente unito, identificato in una presenza più o meno riconoscibile nei cognomi, in molti casi scomparsi in seguito alle evenienze matrimoniali, e hanno svolto anche ruoli importanti nella storia di Firenze, e non solo, continuando a rappresentare, ancora oggi, una enclave dinamica ed energica. Da Anna Bonaccorsi Dolcini, di Tredozio, moglie di Bettino Ricasoli, a Gian Gualberto Archi, di Faenza, Rettore dell’Ateneo fiorentino, al chirurgo e senatore Maurizio Bufalini, di Cesena, a Luigi Lotti, di Lugo, Preside della Facoltà di Scienze Politiche, ad Adone Zoli, di Predappio, Presidente del Consiglio dei Ministri… solo per citarne alcuni.

Tra i protagonisti del libro, Adele Pennazzi, dalla quale Artusi, durante un soggiorno a Palazzuolo sul Senio, ebbe la ricetta nota come «Lo sformato della Signora Adele» … che è la nr. 346 della prima edizione. E, sul profumo di questa pietanza, il passato incontra il presente. Questa pubblicazione vuol essere, quindi, un omaggio alla memoria di Pellegrino Artusi, Pater Patriae, come lo ha definito uno degli autori: a 200 anni dalla sua nascita, i Romagnoli che vivono a Firenze dedicano alla sua memoria le storie delle loro Famiglie e alcune ricette di casa, che conservano, anche al di qua dell’Appennino, il gusto pieno e appagante del ricordo, stemperato nel sapore acre e pungente della nostalgia.

 

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