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L’ITALIA DELLA DIARCHIA. IL RUOLO DEL SOVRANO

22/03/2016 da Comitato Fiorentino per il Risorgimento

mussolini-i-el-reiLettere a Sergio Romano  Corriere della Sera 17 marzo

Nella risposta a un lettore (Corriere, 11 marzo), lei lascia intendere che, se solo avesse voluto (e potuto?) la monarchia non si sarebbe confusa col fascismo. Non lo ha fatto nemmeno dopo l’8 settembre per accattivarsi quello che rimaneva (ancora parecchia a giudicare dall’esito del referendum) della simpatia degli italiani. I quali, quando votarono nel 1946, non si sono dimenticati del detto: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei». Ma un dubbio mi assale e le chiedo di sciogliermelo: è stata la monarchia ad «andare» col fascismo o il fascismo ad «andare» con la monarchia?

Alessandro Prandi

 

Caro Prandi,

Mussolini rinunciò al suo programma per un’Italia repubblicana quando capì che il consenso di cui aveva bisogno per la conquista del potere era in quei ceti sociali che temevano gli scioperi, l’occupazione delle fabbriche, il contagio dei moti rivoluzionari, ispirati dall’esempio sovietico e scoppiati in Europa dopo la fine della Grande guerra. Fra il 1920 e il 1922 il movimento fascista divenne il partito della restaurazione dell’ordine, visto con favore da istituzioni, fra cui le forze armate, in cui i vertici erano monarchici e non avrebbero mai prestato la loro collaborazione a un programma repubblicano. La matrice giacobina sopravvisse in alcune aree del partito, nella retorica rivoluzionaria e anti-borghese a cui il leader ricorreva periodicamente, nelle espressioni «seconda ondata» con cui veniva annunciata una nuova fase di trasformazioni radicali, ed ebbe un ultimo guizzo di vita nel programma sociale della Repubblica di Salò dopo l’armistizio dell’8 settembre.

Vi furono anche momenti in cui Mussolini cercò di erodere i residui poteri della monarchia e di creare una specie di diarchia. Lo fece il 30 marzo 1938 quando creò un nuovo titolo onorifico, «primo maresciallo dell’Impero », di cui sarebbero stati insigniti, contemporaneamente, il capo dello Stato e il capo del governo. Vittorio Emanuele ne fu fortemente irritato e considerò quella nomina una offesa alla monarchia, ma finì per inghiottire l’ingiuria.
Eppure il rapporto fra il re e Mussolini fu complessivamente caratterizzato in molte occasioni da una forma di reciproco rispetto. Il primo riconosceva le doti organizzative del capo del governo, il secondo trattava il sovrano come una autorità nazionale a cui non si poteva non rendere qualche onore. Ne avemmo una prova quando Mussolini, nella mattina del 25 luglio 1943, chiese udienza al re per metterlo al corrente di ciò che era accaduto a Palazzo Venezia durante la notte. Gli avrebbe spiegato che l’ordine del giorno di Dino Grandi (con cui venivano restituiti al re i poteri previsti dallo Statuto) era soltanto il parere di un organo consultivo a cui non era necessario dare retta. Ma con quel gesto Mussolini dimostrò di credere ancora all’autorità del re. Un vero repubblicano non avrebbe offerto al sovrano l’occasione di giocare d’anticipo e di applicare alla lettera l’ordine del giorno di Palazzo Venezia.

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