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L’EPIDEMIA NEGATA

04/12/2020 da Sergio Casprini

 

Donatella Lippi Corriere Fiorentino1dicembre 2020

«I nemici delle vaccinazioni hanno detto che a Vienna non è scoppiato il vaiolo, ma un’epidemia da vaccino. Ora anche loro sanno valutare il valore della profilassi, ma la loro prudenza è un po’ esagerata: si prendono il vaiolo per proteggersi dal vaccino». Questo scriveva Karl Kraus (1874-1936) nei suoi aforismi, in un periodo in cui la vaccinazione antivaiolosa era già stata positivamente sperimentata e veniva applicata con efficacia. In realtà, le reazioni a questa pratica erano state a lungo avverse, ma, a fronte dell’evidenza, i governi più illuminati si decisero ad assecondare la prassi e, nel 1980, il vaiolo è stato dichiarato sconfitto.

La storia insegna: il progresso fa paura e la legittimazione delle novità, anche in medicina, ha incontrato sempre degli ostacoli, soprattutto quando si è scontrata con lo status quo, con abitudini consolidate, con implicazioni sociali. È successo a James Lindt, quando dimostrò che il succo degli agrumi poteva curare lo scorbuto; lo ha pagato con la vita Ignaz F. Semmelweis, cercando di spiegare le cause della febbre puerperale, che colpiva le partorienti nei reparti di ostetricia dell’Allgemeines Krankenhaus di Vienna, la città in cui la medicina si declinava nel nome di Karl von Rokitansky, Josef Škoda, Ferdinand von Hebra, il gotha del sapere medico scientifico.

Perché quelle morti? Perché quella misteriosa «epidemia», che uccideva migliaia di madri in tutt’Europa? L’establishment sosteneva che molte di quelle donne erano madri illegittime e che il loro senso di colpa le rendeva vittime della malattia… Oppure, era il suono della campanella del viatico, che echeggiava nelle corsie, a indebolirne spirito e corpo? O, ancora, erano, forse, «motivi tellurici»? Sarebbe bastato, come scrisse invano Semmelweis, che i medici si lavassero le mani dopo le autopsie, prima di visitare le donne.

Motivi ideologici, motivi economici. Fu la necessità di esportare il grano da Kaffa a diffondere la peste tra il 1346 e il 1348: terminato l’assedio del Tamerlano, proprio per la diffusione del contagio, la roccaforte genovese in Crimea non poteva rinunciare ai suoi commerci e la peste, attraverso i porti e le vie d’accesso alle città, segnò i destini d’Europa. Sospeso tra l’idea del complotto e la negazione del problema, lo stato di pandemia avrebbe implicato, infatti, una serie di misure, che isolavano i centri urbani e ne decretavano progressivamente la paralisi economica e lo sconquasso sociale. Da qui, la congiura del silenzio.

Nel 1630, le prime morti di peste, a Firenze, avvengono agli inizi di agosto, ma solo a ottobre verrà dichiarato lo stato di calamità: eppure, la corrispondenza tra le magistrature fiorentine e quelle milanesi conferma da tempo il consapevole, fatale scivolare verso la catastrofe sanitaria. La notizia, che si è diffusa, già dal mese di giugno, «a bocca piccina», non può più essere tenuta nascosta: le guardie alle porte e il suono della campana «in alarmi» sono i segnali dello stato di emergenza. La città si spegne. Il silenzio delle botteghe, le strade vuote, la chiusura dei mercati e degli scambi preludono alla disoccupazione degli artigiani e del popolo minuto: la mancanza delle commesse e il blocco delle attività commerciali aprono la strada all’esacerbarsi delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti ed alla carestia, che, a sua volta, avrebbe offerto terreno favorevole alla diffusione anche di altre malattie. Per evitare queste conseguenze estreme, gli erari statali si impegnavano in esborsi tali da pregiudicare a lungo la loro solidità finanziaria. Per questo, una delle prime reazioni allo scatenarsi dell’epidemia era la sua negazione: lo stato di contagio veniva taciuto ad arte e si esorcizzava il nome stesso della malattia, confondendone i sintomi con quelli di febbri e morbi meno letali. E se Don Ferrante, nei Promessi Sposi, muore di peste, «come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle», dopo aver dissertato su «esantemi ed antraci», ancora in tempi molto recenti, l’avvocato e patriota Mario Adorno accusava il governo borbonico di essere responsabile del colera in Sicilia: non morbo asiatico, ma «morbo borbonico». Correva l’anno 1837.

Ancora agli inizi del Novecento, il governo Giolitti occultava la diffusione del colera a Napoli, nonostante la denuncia di Henry Downes Geddings, che vi prestava servizio come ufficiale della sorveglianza sanitaria americana e che aveva seguito la pandemia dal 1884. Napoli era, allora, un raccordo fondamentale nei percorsi delle migrazioni verso l’America e le folle di persone che, ogni giorno, lasciavano il Sud per attraversare l’Oceano, portarono con sé, con le loro valigie di cartone, fissate dalla cinematografia novecentesca, anche il vibrione del colera. Non era una «Febbre napoletana», come le autorità si ostinarono consapevolmente a scrivere: e il colera raggiunse gli Stati Uniti, la Libia, durante la «conquista» del 1911, la Francia…

A diverse impostazioni politiche e ragioni economiche corrispondevano, quindi, diverse interpretazioni eziologiche: i «contagionisti» ritenevano che la diffusione della malattia avvenisse per contatto diretto o indiretto con i malati, mentre gli «epidemisti» affermavano che la causa andava ricercata nelle cattive condizioni igieniche e nei miasmi dell’atmosfera. Monarchici versus liberali. Lazzaretti, cordoni sanitari, quarantene, da una parte; risanamento dei quartieri, delle strade e delle case, all’altra. La risposta sanitaria diventava e diventa, in questo modo, riflesso di una impostazione ideologica e di una lettura politica della malattia. Non è un caso che Ambrose Bierce, (1842-1914), giornalista e scrittore, nel suo Dizionario del diavolo, abbia dato questa definizione: «Epidemia (s.f.): malattia a tendenza sociale e assolutamente sgombra da pregiudizi».

Donatella Lippi Docente di Storia della Medicina, Ateneo di Firenze

 Nel 1630 a Firenze le prime morti di peste avvengono ad agosto,

ma solo a ottobre verrà dichiarato lo stato di calamità.

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