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Il Tricolore simbolo d’Italia

23/04/2020 da Sergio Casprini

La sfida vinta da Ciampi

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 23 Aprile 2020

Carlo Azeglio Ciampi divenne capo dello Stato senza mai avere tessere di partito, se non — per un anno — quella del Partito d’azione, destinato a scomparire quasi subito. Salito al Quirinale, si ripropose di risvegliare l’orgoglio nazionale e il senso di appartenenza. Non di crearlo; era convinto che esistesse già, nel profondo delle coscienze; e che occorresse solo riportarlo alla luce.

All’inizio andò al Vittoriano. La «macchina per scrivere», la «torta nuziale» secondo gli esteti (come sappiamo denigrarci noi italiani, nessuno). Ciampi lo visitò da solo, all’alba. Rimase colpito dalle due scritte sui frontoni: «Patriae unitati» e «Civium libertati», all’unità della patria e alla libertà dei cittadini. Segno che il Risorgimento — oggi dimenticato o denigrato — coincide non soltanto con l’unificazione, ma anche con l’inizio delle libertà civili: fine delle forche, della tortura, dei ghetti, del potere temporale del clero e del potere assoluto del sovrano; scuola pubblica, non confessionale, gratuita, obbligatoria.

Poi il presidente viaggiò a ritroso nella nostra storia. È stato a El Alamein, nel deserto egiziano, a rendere omaggio al valore sfortunato dei fanti. Ha ricordato i caduti in Russia e in Albania, dove aveva combattuto lui stesso. Ovviamente l’antifascista Ciampi condannava l’alleanza con Hitler e deprecava l’intervento in guerra; ma distingueva l’errore e l’orrore del regime dal sacrificio dei soldati.

Quindi andò a Cefalonia, l’isola dove la Resistenza iniziò, all’indomani dell’8 settembre, e fu pagata con il sangue della divisione Acqui. In quell’occasione espose la sua idea della Resistenza plurale, fatta non solo dai partigiani — di ogni fede politica — ma anche dai militari, dai carabinieri, dai religiosi, dagli ebrei, e dalle donne: moltissime donne. Il Tricolore divenne il segno di quel lavoro culturale, insieme con l’Inno: il modo più sicuro per far arrabbiare Ciampi era chiedergli se si dovesse cambiare l’inno di Mameli, che considerava davvero il Canto degli Italiani.

Ovviamente dietro la rivendicazione della storia comune c’era una visione politica. Erano gli anni in cui la Lega si chiamava ancora Lega Nord e predicava la secessione. Ed erano gli anni in cui si diffondeva il movimento neoborbonico. Due fenomeni speculari. Per i nordisti, il Sud è una palla al piede, senza la quale il Nord sarebbe ricco e felice come la Baviera. Per i sudisti, il Nord conquistò il Sud e lo condannò all’arretratezza. In realtà, entrambi stavano dicendo la stessa cosa, consolatoria ma controproducente: la colpa dei nostri mali non è nostra, ma di altri italiani; quindi non ci possiamo fare nulla.

Ciampi non condannava l’idea della piccola patria. Era anzi convinto che il bello di essere italiani fosse essere diversi gli uni dagli altri. Pensava che il legame con il campanile, il territorio, il dialetto, le memorie familiari e locali fosse una ricchezza da difendere; anche perché non è incompatibile, anzi può rafforzare il legame che ci unisce alla patria comune. Di sé diceva: «Mi sento profondamente livornese, toscano, italiano ed europeo». Era un’Europa più lungimirante, in cui l’Italia contava di più.

Quest’anno, il 9 dicembre, Carlo Azeglio Ciampi avrebbe compiuto cent’anni. Era nato dieci giorni prima di sua moglie Franca, che ancora oggi — lucidissima — ne custodisce la memoria. Il presidente commise anche errori, come tutti. Ma aveva capito una cosa importante: la storia italiana non è fatta di grandi vittorie militari, di eserciti in grado di incutere timore, di politici capaci di disegni strategici globali (con due eccezioni: Camillo Cavour, al fianco di Vittorio Emanuele II, e Alcide De Gasperi, con Luigi Einaudi al Quirinale). La storia italiana era ed è fatta dalla genialità e dall’umanità della nostra gente. Una genialità che si è espressa in un patrimonio artistico più grande di quello di tutte le altre nazioni messe assieme, e un’umanità che si è tradotta in capacità di sacrificio e di lungimiranza.

Quasi tutte le famiglie italiane conservano un frammento della memoria nazionale, confermato da lettere, fotografie, onorificenze, medaglie, cartoline, divise. Bandiere. Molto spesso custodite dalle donne. L’amor di patria, diceva un Papa straniero che ha amato l’Italia, san Giovanni Paolo II, è un’estensione del Quarto Comandamento: onora il padre e la madre.

Se ne volete una prova, digitate su Google il nome di Cleonice Tomassetti. Vedrete la fotografia in bianco e nero di un corteo di quarantadue uomini. Stanno andando a morire in riva al Lago Maggiore. Due sono costretti a reggere un cartello: «Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?». In testa c’è una donna. È molto elegante, ma i vestiti non sono suoi; lei indossava stracci sporchi di sangue; sono gli abiti che le mogli degli altri condannati le hanno regalato, per consentirle di morire con dignità. Sarà Cleonice Tomassetti a fare coraggio ai compagni, sino all’ultimo. Poco prima, sotto le torture — che hanno fatto fremere di rabbia anche alcuni militi di Salò —, ha detto ai nazisti: «Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi avverto che è inutile; quello non lo domerete mai».

 

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