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Fratellanza di José Maria Eça de Queirόs

15/11/2013 da Livio Ghelli

220PX-~1L’articolo Fratenidade di Eça de Queirόs  venne pubblicato in Portogallo nel maggio 1890 sul numero unico della rivista Anátema. Troviamo in queste attualissime righe di un grande scrittore dell’Ottocento, con 24 anni di anticipo sugli eventi, l’intuizione lucida delle cause che porteranno alla Prima Guerra Mondiale.

Eça de Queirόs appartiene a quella specie straordinaria di individui –da Cassandra a  Leopardi-  che vedono, al di là della cecità ottimista dei contemporanei, come le malattie ignorate dell’oggi preparino le tragedie del futuro. Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento le lotte per la libertà dei popoli erano in gran parte scadute nei nazionalismi, con “il potere, o piuttosto: l’influenza sopra il potere, che è passata dalle caste alle masse, dalle oligarchie alle democrazie”… che poi vere democrazie non sono, ma piuttosto forme di demagogia che si regge sugli umori di masse, informate male ed educate peggio, da una stampa frettolosa e superficiale.

È in questo contesto, secondo Eça, che nell’Europa delle magnifiche sorti e progressive prosperano i germi del nazionalismo, inteso come sviluppo esaltato della propria nazione a danno di altri popoli.

Se fosse stato vivo adesso, uno come lui avrebbe parlato della somministrazione incontenibile e incontrollabile di immagini, dati, spot con cui i media ci affogano senza farci mai veramente capire… O magari avrebbe investigato sul decadimento della nostra scuola, che rischia di precipitare le nuove generazioni in un’attitudine di non-approfondimento, di non-critica, di non-etica. E forse sarebbe stato in grado di aiutarci a comprendere perché, oggi, milioni di persone costantemente connessi col web, siano individualmente tanto incapaci di connettere come poche volte in passato, e riproducano  tragicamente atteggiamenti di individualismo isterico, qualunquismo e razzismo.

LIVIO GHELLI

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Non si è parlato mai in Europa con tanta sicurezza, come oggi, di “fratellanza, di concordia tra i popoli, di fusione di tutte le razze in una sola” e ancora poco fa a Parigi, in un congresso, un moralista, un saggio, prediceva, tra le acclamazioni, che molto presto dalla lingua purificata degli uomini sarebbe scomparso questo termine vetusto e barbaro, lo straniero.

Di fatto, però, mai si sono visti come nell’attuale tramonto dei vecchi regimi tanta sfiducia, tanto malanimo, odi così intensi anche se tanto generici. Non si incontrano oggi in Europa due popoli genuinamente fratelli –e nei diversi paesi più gli interessi sono collegati, più le anime rimangono separate. Il Tedesco detesta il Russo. L’Italiano ha in orrore l’Austriaco. Il Danese ha in spregio il Tedesco. E tutti aborriscono l’Inglese – che li disprezza tutti.

Sono questi antagonismi, irrazionali e violenti, quanto o più delle rivalità tra Stati, che forzano le nazioni a questa rigida attitudine armata nella quale esse diventano sterili e si snervano –ed oggi, a differenza che nei tempi antichi, l’impulso verso la guerra ha sostituito, nei sovrani e nei popoli, l’amore e l’attenzione per la pace.

Questo perché il potere, o meglio l’influenza sul potere, è passato dalle caste alle masse, dalle oligarchie alle democrazie. D’altra parte le oligarchie, divenute cosmopolite per l’educazione, per i viaggi, per le alleanze, per le abitudini e i gusti comuni, per il somigliarsi dei doveri della vita di corte, per la generale tolleranza che dà la cultura e per le speciali affinità di spirito create dalla cultura classica, non odiavano mai le altre nazioni perché le altre nazioni si riassumevano, per loro, nelle altre oligarchie, alle quali si sentivano affini nei modi di vivere, di pensare, di rappresentare, di governare. Le democrazie, al contrario, profondamente nazionali e per niente cosmopolite, conservando con tradizionale fedeltà i loro propri costumi e intolleranti dei costumi degli altri si conoscono appena (attraverso le scarne nozioni di un’istruzione frammentaria) nei loro aspetti più nazionalmente caratteristici e pertanto più irriconciliabilmente opposti: -e da queste differenze di cui hanno il presentimento o che constatano, viene loro per istinto un mutuo allontanamento e una sorta di antipatia etnografica. L’operaio inglese, cento anni fa, nemmeno conosceva l’esistenza del Russo. Oggi sa, imperfettamente, dalle frettolose letture di giornali e riviste popolari, che il Russo è un uomo che differisce da lui in modo assoluto nell’aspetto, nel vestito, nella lingua, nei modi, nelle credenze… Da qui una prima repulsione; e quando oltre a ciò viene a sapere vagamente, dalla stampa, che quest’uomo, tanto diverso da lui, si appresta a marciare sull’India “per impossessarsi dei domini della regina”, innesta nel suo antagonismo di razza la sua indignazione di patriota, e arriva ad odiare il Russo, così intensamente che non è più possibile in Londra, in un caffè-concerto o in un circo, dispiegare una bandiera russa senza che esplodano dai settori popolari fischi e clamori di collera.

Da ogni parte assistiamo così allo sviluppo esaltato dell’individuo nazionale. E, con l’avvento definitivo delle democrazie, ci sarà in Europa non la universale fratellanza che gli idealisti annunciano, ma con molta probabilità un vasto conflitto di popoli, che si detestano perché non si comprendono, e che, ponendo il loro potere al servizio del loro istinto, correranno gli uni contro gli altri –come un tempo, nelle antiche demagogie della Grecia, gli uomini di Megara si scagliavano sugli uomini della Laconia, e tutta l’Attica si ergeva in armi, a causa di un bue disputato sul mercato di File o di una lite fra ruffiani, nei grandi cortili di Aspasia.

José Maria Eça de Queirόs

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