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Cristina Trivulzio Belgiojoso, la principessa che sfidò l’Austria.

04/07/2021 da Sergio Casprini

Marina Migliavacca    IO DONNA Corriere della Sera 3luglio 2021

Chissà cosa avrebbe detto Manzoni se avesse saputo che proprio a quella donna Milano avrebbe dedicato una statua in bronzo come la sua in San Fedele (o più bella della sua? Che lo scultore Barzaghi ci perdoni...). E pensare che l’autore dei Promessi sposi non la poteva proprio soffrire quella benedetta dama che verrà immortalata in piazza Belgiojoso in posa dinamica, mentre si alza come per accogliere nel suo salotto chi la verrà a trovare.

Quanto a lui, ai suoi tempi, non la accolse affatto nel suo, di salotto, la signora. Quando nel 1840, tornata finalmente a Milano dopo i lunghi anni trascorsi a Parigi, la reduce di tante battaglie volle andare a trovare la madre dello scrittore, Giulia Beccaria, anziana e molto malata, lui si oppose fieramente: nemmeno a parlarne, quella svergognata non avrebbe messo piede in casa Manzoni. Così Giulia morirà l’anno dopo senza aver potuto riabbracciare l’amica. Ma chi era questa donna che Milano oggi celebra e che cosa aveva fatto per meritarsi l’ostracismo bigotto di don Lisander?

Era una principessa, nata a Milano nel palazzo di famiglia in piazza Sant’alessandro il 28 giugno 1808 sotto il segno del Cancro e battezzata nella chiesa omonima come (prendiamo fiato) Maria Cristina Beatrice Teresa Barbara Leopolda Clotilde Melchiora Camilla Giulia Margherita Laura Trivulzio di Belgiojoso. Noblesse oblige. Suo padre era Gerolamo Trivulzio, rampollo del miglior patriziato milanese, sua madre Vittoria dei marchesi Gherardini. Papà Gerolamo muore giovanissimo e mamma Vittoria, rimasta vedova a 22 anni, appena tolto il lutto si risposa con Alessandro Visconti d’Aragona. Cristina avrà tre sorellastre e un fratellastro e si affezionerà al patrigno. Ma Visconti, socio in affari di Federico Confalonieri per la navigazione a vapore sul Po e sui laghi, rimane coinvolto con lui nella cospirazione carbonara del 1821 e finisce allo Spielberg con Pellico e compagni. Ci rimane meno di due anni, però bastano perché lui ne esca fisicamente e psicologicamente devastato. Per Cristina è come perdere un’altra volta un padre. Mamma Vittoria si consola in fretta con un vivace nobiluomo del Sud e Cristina comincia a capire presto come va il mondo. Così quando a sedici anni le prospettano di sposare un tristissimo e bruttarello cugino primo, lei è già in grado di puntare i piedi. Prenderà come marito il principe Emilio di Belgiojoso, biondo, bello, giovane e inaffidabile. Cristina è ricca, oltre che bella di una strana bellezza per il suo tempo, un po’ dark. Magrissima, pallidissima, collo lungo, mani affusolate, occhi neri intensi, verrà definita dai suoi amici intellettuali romantici un’apparizione, un vago spettro, una inquietante splendida vampira.

Emilio, il suo prince charmant, è attirato parecchio dalla dote: è uno di quelli ai quali i soldi non bastano mai, un vizioso dissipatore, malato di sifilide. Cristina se la prende, infatti, e quel malanno si aggiunge a quelli di cui già soffre, compresa una lieve forma di epilessia. Quando il principe, che non ha mai smesso di frequentare altre donne, arriva a proporle disinvolto di dividere il talamo con la sua ultima fiamma, Cristina, pur essendo di idee aperte, decide che quel che è troppo è troppo. Prendono strade diverse, abbastanza amichevolmente, e da quel momento lei si comporta come una donna libera. Ha cento interessi: la cultura, la musica, i salotti, la politica. È stata avvicinata ai patrioti dalla sua maestra di disegno Ernesta Bisi ed è amica di Bianca Milesi, una delle sovversive carbonare più famose di quel periodo.

Frequenta gente che mette in sospetto la polizia asburgica, ma si salva perché è molto sveglia, ha un gran nome e la sua famiglia ha appoggi potenti. Dopo anni di spostamenti tra Genova, Roma, Napoli, Firenze, Ginevra e Lugano e di prese di posizione rivoluzionarie, quando il temuto capo della polizia austriaca Torresani le ordina di rientrare in città preferisce fuggire rocambolescamente in Francia, senza più un soldo da un giorno all’altro, perché gli austriaci confiscano il suo immenso patrimonio. «Potevo dipingere, cantare, suonare il pianoforte, ma non avrei saputo far l’orlo a un fazzoletto, cuocere un uovo sodo o ordinarmi un pasto» scriverà sincera nei suoi Ricordi nell’esilio.

Lungi dallo scoraggiarsi, la principessa si rimbocca le maniche e se la cava ricamando, cucendo, reinventandosi: mentre i suoi potenti amici e sua madre brigano per ridarle tranquillità economica, lei diventa amica di Heinrich Heine, di Franz Liszt, di Alfred de Musset, del marchese di La Fayette, di Vincenzo Bellini, di Honoré de Balzac. Non appena torna in possesso dei suoi soldi, finanzia fogli patriottici e tentativi insurrezionali e aiuta i fuoriusciti italiani; soprattutto, fa conoscere la causa unitaria al bel mondo parigino, scrive articoli e libelli. E dato che non si vive di solo ideale, a trent’anni, nel 1838, mette al mondo una bambina che chiama Maria, forse avuta da François Mignet, un intellettuale, storico, scrittore e politico, o forse da Teodoro Doehler, bellissimo musicista più giovane di lei.

1843 Cristina Trivulzio Belgiojoso Henri Lehmann 

Questa è la visitatrice che nel 1840 Manzoni non vuole far entrare in casa, troppo diversa dal modello di donna che gli piace, come la sua obbediente Enrichetta che lui sfinirà di gravidanze fino a farla morire, salvo poi piangerla con lacrime di coccodrillo: Cristina è una brillante regina dei salotti, una patriota, una intellettuale, e non solo. Quando torna a Locate nei feudi di famiglia può dar sfogo alla sua vena filantropica e fonda un asilo per i bambini poveri, lodato da educatori come Ferrante Aporti. E Manzoni si chiederà candidamente chi coltiverà i suoi campi, se adesso anche i figli dei contadini possono andare a scuola. Che roba. Lei prosegue per la sua strada: traduce in francese le opere di Giovan Battista Vico, scrive una Storia della Lombardia sotto pseudonimo non risparmiando critiche a grossi nomi come il Confalonieri e facendo inviperire il patriziato milanese, nonché un Saggio sul Dogma cattolico (anche teologa, la Belgiojoso! Figurarsi la faccia del Manzoni). Fonda riviste che sostengono la sua posizione monarchica e unitaria, conosce Cavour, Cesare Balbo, Tommaseo, appoggia le Cinque Giornate di Milano reclutando e trasportando a sue spese un gruppo di circa 200 volontari da Genova e durante le furiose battaglie della Repubblica Romana ha l’intuizione che viene attribuita a Florence Nightingale: servono infermiere, mestiere che ancora non esiste e che lei inventa, improvvisando. Oltre alle dame e alle signore della borghesia arruola anche prostitute di buona volontà, suscitando di nuovo scandalo, ma salvando vite umane.

Dopo la sconfitta s’imbarca a Civitavecchia con la figlia. I milanesi la detestano, i patrioti anche, per aver messo nero su bianco verità scomode. Delusa da Carlo Alberto, delusa dai francesi che hanno contribuito alla fine della Repubblica Romana, Cristina va in Oriente, compera della terra e applica in Cappadocia quello che ha imparato a Locate in campo agrario, riqualificando le colture. Ma non si limita a coltivare i campi: si occupa anche dei suoi contadini e intanto scrive lucidissimi, spietati reportages su Libano, Siria e Palestina. Dopo un viaggio in Terrasanta, nel luglio del 1853, un certo Albergoni, un profugo bergamasco ladro, ubriacone e violento che lei minaccia di licenziamento, la colpisce ripetutamente con un pugnale. La principessa si salva, ma una ferita al collo le impedirà da allora in poi di raddrizzare bene la testa. Una sorta di contrappasso per chi, come lei, ha sempre saputo farlo anche nei momenti peggiori.

Quando un paio d’anni dopo riesce a tornare in patria grazie al benestare dell’ammorbidita burocrazia austriaca, il suo unico scopo è quello di convincere il marito, roso dalla sifilide all’ultimo stadio, a riconoscere Maria, per farla accettare dal bel mondo. Per quanto lei sia anticonformista, capisce che il marchio dell’illegittimità rovinerebbe la vita alla sua amata unica figliola in quella società ipocrita. Riesce alla fine a spuntarla con l’argomento al quale Emilio e i suoi parenti sono sempre stati sensibili: il denaro, tanto.

Nel 1861 tutto si compie: l’Italia è unita e la sua adorata Maria legittimata agli occhi della morale può sposare il marchese Trotti Bentivoglio. Di lei, che vivrà pacifica e sarà dama di corte della regina d’Italia, si ricorderà solo che era figlia di Cristina, la quale lo stesso anno pubblica un breve saggio sulla condizione della donna, nel suo solito stile sincero e spassionato, dove le canta sia alle femmine che ai maschi: alle prime perché non credono in loro stesse e ai secondi perché fa loro troppo comodo l’idea che le compagne siano da meno. «Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi a venire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità!» chiude, con un involontario riferimento a sè stessa, eclettica pioniera della parità a fatti più ancora che a parole.

Quando Cristina morirà, nel 1871, scriveranno di lei: «Ingegno virile in un corpo femminile». Forse credevano di farle un complimento, che ingenui. Sono passati 150 anni: a settembre Cristina avrà la sua effigie nella piazza dove sorge il palazzo del marito. Nemmeno il sindaco Sala si era reso conto che a Milano il bronzo e la pietra avevano immortalato re, condottieri, musicisti, scrittori, scienziati, educatori, patrioti, poeti, ma l’unica statua con fattezze femminili restava quella della Madonnina dorata in cima al Duomo. Ancora una volta la principessa libera fa da apripista e il 5 luglio, anniversario della sua scomparsa, la si ricorderà a Locate di Triulzi, dove lei si sentiva a casa, alle 18.30 al cimitero e alle 21 concerto in Piazza della Vittoria. Nell’attesa di salutarla in bronzo in grandezza naturale, con i capelli raccolti sulla nuca e il sorriso un po’ così di chi sa che precorrere i tempi è cosa splendida, ma richiede un coraggio da leone. Anzi, da leonessa.

Ritratto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso  Francesco Hayez 1832

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