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1925, una statua per Ovidio. La lunga attesa di Sulmona

25/02/2020 da Sergio Casprini

Giuseppe Guastella  Corriere della Sera  22 Febbraio 2020

Quale ministro della Pubblica istruzione, ma quali politici, prelati, nobili, burocrati, commendatori e grandi ufficiali: a presiedere il comitato d’onore che doveva raccogliere i fondi per erigere a Sulmona la statua in bronzo del poeta latino Publio Ovidio Nasone poteva essere solo un altro poeta, «tanto più che il suo Abruzzo gliene poteva oggi offrire uno degno d’amarlo e di esserne amato — Gabriele d’Annunzio».

Dalla prima pagina del «Corriere della Sera», il 23 giugno 1906, Ugo Ojetti, giornalista e letterato, ironizzava su cosa avrebbe potuto pensare l’autore delle Metamorfosi e dell’Arte di amare «d’un comitato così decorato e così decorativo», dato che «le autorità del suo tempo, nella persona di Augusto» lo «fecero morire di strazio in un esilio feroce tra i barbari Geti sul Mar Nero».

Bisognerà attendere il 1925 prima che la statua venisse scoperta alla presenza del re Vittorio Emanuele III in piazza XX settembre, ma D’Annunzio, ormai personaggio quasi leggendario, di quel famoso comitato d’onore era stato solo chiamato a fare parte. Il nome del Vate, infatti, compare nello sterminato elenco di autorità allegato all’accorato e aulico appello con cui l’allora sindaco, barone Federico Tabassi, diede il via alla sottoscrizione e di cui di recente è stata riprodotta una copia a cura del Circolo collezionismo e del Lions di Sulmona.

A spingere Ugo Ojetti a proporre il nome di d’annunzio, oltre alla stima, era probabilmente l’amicizia che lo legava al poeta pescarese con il quale condivideva l’ammirazione per le donne. Inviato di guerra, romanziere e saggista, «il principe dei giornalisti italiani» fu per molti anni firma del «Corriere», che diresse tra il 1926 e il 1927. «Aveva buon gioco con le signore, che lo apprezzavano almeno quanto lui apprezzava loro. Non che fosse un libertino, né del resto glielo avrebbe permesso sua moglie, nobildonna piemontese dal piglio energico, che gli fu fedelissima e richiese altrettanto», scriveva di Ojetti su questo giornale Gaetano Afeltra nel 2003. Poeta lui stesso, Ojetti consigliava che, oltre a d’annunzio, in quel comitato sedessero «altri dieci o dodici poeti viventi» in grado di spiegare «che Ovidio non è una statua ma è un uomo. Poeti, essi avrebbero parlato di lui con parole di realtà e di rispettosa fratellanza». Solo loro avrebbero capito di Publio Ovidio Nasone ciò che per molti politici è incomprensibile: «La spontaneità dell’arte sua, la sua debolezza sentimentale, l’egoismo e l’impazienza di godere, la forza dell’osservazione di sé stesso. La franchezza nel confessarsi tutto al pubblico, l’irruenza nella pena come nella gioia, l’eleganza di quel suo scetticismo superficiale».

L’assenza di una statua del suo figlio più illustre, nato nel 43 a.c., era, per Sulmona una ferita aperta quando Ojetti ne scriveva sul «Corriere», tanto più che nel 1887, ben 19 anni prima, ne era stata eretta una a Costanza, in Romania, l’antica Tomi dove Ovidio morì nel 17 d. C. nell’esilio a cui lo aveva condannato Augusto per fargli pagare i suoi crimini. «Erano due, dice egli stesso: un errore e una poesia, carmen et error, forse un pettegolezzo che toccò da vicino le molto tangibili donne della casa d’augusto», annotava Ojetti. Autore delle due statue fu lo scultore Ettore Ferrari *, massone, antimonarchico, ex parlamentare, poi perseguitato dal fascismo che, come ricorda l’archeologa sulmonese Emanuela Ceccaroni, non partecipò all’inaugurazione non perché aveva 80 anni, ma perché, come scrisse lui stesso, «la coscienza politica non permette in modo assoluto di intervenire». 

*Lo scultore Ettore Ferrari è l’autore del monumento a Giordano Bruno a Campo dei Fiori a Roma nel 1889 e del monumento a Mazzini sull’Aventino sempre a Roma agli inizi del XX secolo

 

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