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1848. Tutti i diritti ai Valdesi, Carlo Alberto crede nelle libertà

22/02/2020 da Sergio Casprini

Gianni Oliva La Stampa 18 febbraio 2020

Il 17 febbraio è ancora oggi celebrato dalle comunità valdesi con le fiaccolate e i falò: in quel giorno del 1848, tre settimane prima di proclamare lo Statuto, il re di Sardegna Carlo Alberto concedeva ai «poveri di Lione», seguaci di Pietro Valdo, «tutti i diritti civili e politici de’ nostri Sudditi».
Una conquista inimmaginabile sino a poco prima: scomunicati come eretici sin dalle origini per il loro pauperismo e la loro carica di protesta antiecclesiale, perseguitati duramente dal duca sabaudo Vittorio Amedeo II che nel 1686 aggredisce le valli uccidendo oltre duemila uomini, imprigionando nelle fortezze chi rifiuta la conversione e costringendo i superstiti all’esilio. Ritornati nel loro ghetto di montagna tre anni dopo con la «glorieuse rentrée» attraverso i valichi alpini da Ginevra alla Val Pellice, i Valdesi hanno condotto per secoli una «vita ai margini», trasformando la propria identità religiosa e culturale in forza di resistenza.

Invisi al potere perché intellettualmente autonomi, sospetti alla plebe cattolica per gli anatemi delle predicazioni, i «barbett» (dal piemontese «barba», zio, termine che indica i predicatori evangelici in contrapposizione al «padre» del cattolicesimo romano) accolgono le lettere patenti del 17 febbraio come un atto di liberazione.

La concessione è figlia dei tempi assai più che del sovrano. Carlo Alberto è profondamente radicato nella religione cattolica, sensibile alle pressioni che vengono dagli ambienti dell’ortodossia gesuitica e da personaggi come il conte Solaro della Margarita, campione del sanfedismo sabaudo e sino al 1847 ministro degli Esteri. Il 1848 è però una stagione di fermenti che attraversano l’Europa, la penisola, Torino: una borghesia imprenditoriale attiva e propulsiva, vero motore di una società che va modernizzandosi, vuole compartecipare all’esercizio del potere politico superando i vincoli dell’assolutismo monarchico. La richiesta di «costituzioni» che limitino l’autorità regia si intreccia con l’avversione ideologica per l’alleanza tra Trono e Altare, caposaldo di un’Europa restaurata ormai esausta: è il risultato di un fervore di idee in cui la libertà religiosa diventa uno dei temi centrali.
C’è chi, come Cavour, ritiene che non si debba interferire sulla libertà di coscienza e guarda alla separazione tra Stato e Chiesa, riconosciuta nella Costituzione degli Stati Uniti sin dal 1776; ci sono i cattolici liberali, come Gioberti, che avversano le rigidità dei Gesuiti e la loro interferenza sulla vita pubblica; c’è chi, come Mazzini, fa coincidere la «redenzione» con la liberazione dei popoli, in tutte le accezioni del termine «liberazione».

Di fronte alle spinte di una classe dirigente liberale emergente e alle accelerazioni di una stagione convulsa, Carlo Alberto imbocca la strada del rinnovamento, persuaso che «concedere» sia meglio che «essere costretti a concedere». Le aperture sono prudenti: mentre in Francia già nel 1830 è stata introdotta costituzionalmente la libertà religiosa, il re sabaudo la rifiuta come vincolo costituzionale e l’8 febbraio 1848, quando preannuncia i principi su cui sarà fondato Statuto, specifica che «la Religione Cattolica Apostolica Romana è la sola Religione dello Stato», mentre gli «altri Culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Il 17 febbraio segna tuttavia un passo in avanti decisivo: la concessione della parità di diritti, cioè l’emancipazione politica.
Il 29 marzo successivo, sul campo di battaglia di Voghera, verrà firmato un decreto ulteriore, con cui i diritti saranno concessi anche agli ebrei e agli altri acattolici. Negli anni seguenti Cavour, primo ministro, si farà affiancare nella segreteria particolare da un consigliere ebreo, l’astigiano Isacco Artom. Uno Stato moderno che guarda al futuro, come il Piemonte degli anni del Risorgimento, deve essere inclusivo e richiamarsi agli insegnamenti di maestri della tolleranza come Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro. È in questa atmosfera che maturano le «lettere patenti» del 1848.
Guardando la Torino di quasi 170 anni dopo, dove compaiono sui muri le scritte antisemite e talvolta vengono divelte le «pietre di inciampo», non si può non provare smarrimento. È vero che si tratta di gesti isolati e che ogni generazione ha sempre avuto qualche «socialconfuso» aggressivo. Una differenza tuttavia risulta evidente. Nel 1848 c’è stata una classe dirigente capace di guidare un percorso di emancipazione, imprimendo un’accelerazione non solo alle leggi, ma ancor più alla «cultura»: non era facile veicolare l’idea di tolleranza in ambienti popolari abituati alle demonizzazioni, quando nei cimiteri i «barbet» avevano un rettangolo riservato per non contaminare i defunti cattolici con gli acattolici.

Oggi si respira un clima diverso: troppe parole in libertà da parte di chi dovrebbe dare l’esempio, troppe insofferenze, troppi problemi irrisolti nascosti dietro la facile esecrazione del «diverso», la caccia all’untore del coronavirus,le minacce a Liliana Segre, l’infamia della scritta di Mondovì.

 

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