Per il 150° anniversario di Firenze Capitale l’Atelier de Danse si terrà una Promenade nel centro storico di Firenze.
Mostra “Una Capitale e il suo Architetto. Eventi politici e sociali, urbanistici e architettonici. Firenze e l’opera di Giuseppe Poggi”
in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario della proclamazione di Firenze a Capitale del Regno d’Italia, nell’ambito del progetto L’Ente Cassa per Firenze Capitale.
Firenze, Archivio di Stato, Viale Giovine Italia, 6
3 febbraio – 6 giugno 2015
L’esposizione, cui collaborano i principali enti culturali fiorentini, oltre a studiosi delle varie tematiche, presenterà una panoramica su molti dei temi afferenti al trasferimento della Capitale a Firenze, dai presupposti storici, al trasferimento delle istituzioni del Regno, alla sistemazione della Corte sabauda, all’attività dell’Opificio delle Pietre Dure. Particolare attenzione sarà data ai grandi interventi urbanistici, in particolare ad opera di Giuseppe Poggi, che modificarono il volto della città e dei suoi dintorni; avranno infine spazio alcuni temi specifici, quali il problema della regimazione delle acque, l’uso del verde pubblico, la progettazione della rete ferroviaria. Arricchiranno l’esposizione alcuni modelli, plastici e video relativi ai suddetti temi.
L’occasione del 150° anniversario della proclamazione di Firenze a Capitale del Regno d’Italia costituisce quindi l’occasione imperdibile per fare il punto sulle trasformazioni urbanistiche, ma anche sociali ed economiche, di Firenze negli anni ’60 dell’Ottocento. Le carte d’archivio sono state il punto di partenza, come in ogni lavoro storico ben fatto; e per Poggi questo significa percorrere strade non sempre agevoli, data la dispersione del suo archivio in più sedi, con diverse proprietà, e con non sempre facile accesso e funzionali strumenti di ricerca. La panoramica che questa mostra intende proporre su tante e varie tematiche, vuole arrivare a chiarire e valorizzare i pregi dell’attività di Poggi, sollevandolo dalle alterne vicende della sua fortuna critica.
La mostra avrà un taglio prevalentemente didattico e sono stati presi gli opportuni contatti per offrire alle Scuole la possibilità di avvicinare direttamente i documenti e conoscere i progetti urbanistici di Giuseppe Poggi, l’architetto che contribuì a ridefinire la forma di Firenze sul modello delle grandi metropoli europee.
Sono previste visite guidate alla mostra anche per associazioni culturali, gruppi di cittadini e turisti. (prenotazioni@cscsigma.it)
Orario:
da lunedì a venerdì ore 9-17;
sabato e domenica ore 10-13;
Giorni di chiusura: 5, 6, 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno 2015.
Ingresso libero
Versi ispirati dalle trincee
Gennaro Sangiuliano Il Sole 24 Ore domenica 18 gennaio
«Assisto la notte violentata. L’aria è crivellata come una trina, dalle schioppettate degli uomini, ritratti nelle trincee come le lumache nel loro guscio». Sono i primi versi di una poesia di Giuseppe Ungaretti, Immagini di guerra scritta in una trincea di Valloncello di Cima, nella zona del monte San Michele, che fu uno dei teatri più duri della Grande Guerra, un’autentica fornace di vite umane. «Non dire alla povera mamma che io sia morto solo», scrive, invece, Corrado Alvaro, giovane ufficiale, che definisce le sue poesie dal fronte «grigio-verdi», come la divisa dei militari.
Quella di «poeta soldato» è una formula ricorrente. La Prima guerra mondiale è certamente quella dei contadini scaraventati in un «inutile massacro», secondo la definizione che ne dette papa Benedetto XV, il primo conflitto di massa, la guerra della modernità. Ma è anche il momento a cui scrittori, poeti, giornalisti, accademici, non possono sottrarsi, perché dopo tante parole appare chiaro il “dovere” come osservò Gaetano Salvemini.
Le trincee, il fango, il freddo, le mitragliatrici, e soprattutto la morte di tanti commilitoni si riveleranno il banco di prova per una generazione di intellettuali, molti dei quali quella guerra l’avevano agognata come forza rigeneratrice. I mesi che precedono l’ingresso dell’Italia nel conflitto (maggio 1915) sono quelli dello scontro dialettico tra interventisti e neutralisti, dove i primi, inizialmente una minoranza, riescono a imporre a una nazione titubante la partecipazione al conflitto.
«Badate», scrive in una lettera privata Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, «che la grande maggioranza della nazione non sente la guerra; e se di quella tedesca è stato detto (a torto) che era la guerra degli ufficiali, questa nostra (a ragione) dovrebbe dirsi guerra dei giornalisti». E aggiunge: «Tutti i giornalisti (e mi dispiace, anche voi!) esortano ora a prepararsi e fare presto; ma ahimè, oportet studuisse, non studere, come si dice ai ragazzi negligenti che vogliono superar gli esami con la preparazione degli ultimi giorni!».
Croce, nonostante il grande prestigio, è voce dissonante tra gli intellettuali. La minoranza a cui piace l’intervento, è quella delle élite culturali, delle avanguardie, che si sono formate nella stagione delle riviste sostanziando quello che gli storici definiranno come il primo «partito degli intellettuali». D’Annunzio e i suoi seguaci, gli eredi del «Marzocco» del «Leonardo», «La Voce», «Il Regno», «Lacerba», l’«Unità» di Salvemini, i futuristi e i sindacalisti rivoluzionari.
Sono quei giovani che si erano raccolti attorno al motto di Giovanni Amendola, il futuro leader dell’antifascismo dell’Aventino, «L’Italia come oggi è non ci piace». L’auspicio di una guerra assume per questi intellettuali un significato che va ben oltre il contesto internazionale, il completamento del Risorgimento, la conquista di terre irredente; le ragioni che spingono a chiedere un «lavacro di sangue» sono la ricerca di un grande fatto dinamico nazionale, capace di cementare lo spirito indentitario del Paese.
Giuseppe Prezzolini, il fondatore della «Voce», è il più chiaro: «Il principale interesse è questo che l’Italia è fatta, ma non è compiuta. E soprattutto che l’Italia non essendosi fatta da sola aspetta finalmente l’atto che la dimostrerà capace di fare da sé… Si tratta di sapere se siamo una nazione».
Gaetano Salvemini, anche lui, come Amendola, destinato a essere un fiero oppositore del fascismo, aveva scritto: «Ma per quanto la guerra sia un fatto orribile e odioso a causa dei milioni di ricchezza che essa distrugge e delle migliaia di vite umane che maciulla in pochi giorni, io non posso non riconoscere che vi sono paci più orribili e più odiose della guerra: sono le paci che consumano a fuoco lento i popoli».
Nelle trincee, la baldanza interventista lascerà il posto ai dubbi, alla percezione diretta della tragicità di una guerra. Tocca a un giovane intellettuale, Renato Serra, indicato da Croce come una delle menti più brillanti della gioventù italiana, esprimere, meglio di altri, questo cambiamento di umore. Serra scrive Esame di coscienza di un letterato, un’analisi dell’io di fronte alla tragicità del conflitto, un testo che la critica, a cominciare da Carlo Bo, giudicherà tra i più penetranti testi sul rapporto tra guerra e individuo.
«La guerra non cambia niente», avverte Serra, «Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. Il cuore dura fatica ad ammetterlo». A trentuno anni, nel 1915, dopo aver concluso il suo testo, Renato Serra morirà in combattimento sul monte Podgora, nell’Esame di coscienza aveva citato il francese Charles Péguy, l’inventore della rivista «Cahiers de la Quinzaine» che più di altri aveva influenzato la generazione dei giovani scrittori italiani.
Anche Péguy muore in una trincea.
Carlo Emilio Gadda ridefinirà se stesso alla luce della guerra, dicendosi «poeta-filosofo-soldato» perché l’esperienza del fronte lo ha segnato irreversibilmente come Emilio Lussu che narra il duro conflitto sulle montagne con Un anno sull’Altipiano. Giosué Borsi scrive una toccante lettera alla madre e Ungaretti nota come «quel contadino soldato si affida alla medaglia di Sant’Antonio» sottolineando gesti comuni come il conforto della fede che si ripetono in ogni trincea.
Ogni pagina di questi autori è una foto capace di raccontare un universo di vite, sentimenti, dolori.
A pagare con la vita saranno in molti. E anche coloro che sopravvivono sfatano il mito della bella guerra, romantica ed entusiastica.
Il centenario della Grande Guerra può essere soprattutto questo, la ricerca di una letteratura che fu grande nella narrazione dei sentimenti e dei fatti, lasciando pagine irripetibili.
La Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
si trova in un edificio monumentale sul Lungarno di Firenze all’altezza della piazza dei Cavalleggeri nel quartiere di Santa Croce. È una delle più importanti biblioteche europee e la più grande tra le biblioteche italiane e, insieme alla Biblioteca di Roma, svolge le funzioni di biblioteca nazionale centrale.
Possiede infatti circa 6.000.000 volumi a stampa, 2.689.672 opuscoli, 25.000 manoscritti, 4.000 incunaboli, 29.000 edizioni del XVI secolo e oltre 1.000.000 di autografi, e conta 599.970 opere consultate all’anno 2009.
Le scaffalature dei depositi librari coprono attualmente 120 km lineari, con un incremento annuo di 1 km e 475 metri.
Il nucleo originario della biblioteca proviene dalle collezioni di Antonio Magliabechi, costituite da circa 30.000 volumi devoluti integralmente, secondo il lascito testamentario del 1714, “a beneficio universale della città di Firenze“.
Il governo granducale, per incrementare la nascente Biblioteca, stabilì nel 1737 che vi fosse depositato un esemplare di ciascuna delle opere stampate a Firenze e in seguito, dal 1743, in tutto il territorio del Granducato di Toscana.
La prima apertura al pubblico risale al 1747, con il nome di Biblioteca Magliabechiana. Negli anni successivi fu arricchita da numerosi lasciti e donazioni, a cui si aggiunsero nel tempo le librerie degli ordini e corporazioni religiose soppresse a partire dagli anni ’70 del Settecento con un culmine con la riforma napoleonica del 1808.
Nel 1861 la Magliabechiana venne unificata con la Biblioteca Palatina, cioè “di palazzo”, creata dai Lorena, che ereditarono il titolo granducale ed il governo della città dopo l’estinzione dei discendenti dei Medici. Questa raccolta libraria era stata costituita da Ferdinando III di Toscana e continuata dal suo successore Leopoldo II. In seguito alla fusione la biblioteca assunse il nome di Biblioteca Nazionale e dal 1885 anche l’appellativo di Centrale. Dal 1870 riceve per diritto di stampa una copia di tutto quello che viene pubblicato in Italia.
Con l’alluvione di Firenze del 1966 la biblioteca divenne il triste simbolo nel mondo, assieme al Crocifisso di Cimabue del vicino convento di santa Croce, dei danni irreparabili inflitti al patrimonio culturale della città dalla catastrofe naturale.
La sua vicinanza al fiume fece sì che venisse completamente inondata fino a sei metri di altezza, in particolare furono allagati i depositi sotterranei dove venivano conservati i nuclei più preziosi della biblioteca. I gravissimi danni, in particolare all’intera emeroteca, alla preziosa raccolta delle Miscellanee, al fondo Magliabechiano, al fondo Palatino e a numerose altre raccolte, nonché a tutti i cataloghi a schede e a volume, all’apparato bibliografico delle sale di lettura e agli arredi, furono in parte arginati dal tempestivo aiuto dei cosiddetti Angeli del Fango, un esercito di volontari provenienti da tutto il mondo che lavorò instancabilmente, nel freddo di novembre e in condizioni precarie senza corrente elettrica, per salvare il salvabile, recuperando i libri e mettendoli temporaneamente al sicuro in attesa di un possibile restauro.
Una parte rilevante dei fondi danneggiati è stata così recuperata ad opera del Centro di restauro creato per l’occasione, ma una parte consistente del patrimonio librario è andata definitivamente distrutta.
Originariamente la Biblioteca aveva sede, come tutti gli uffici pubblici dell’amministrazione granducale, nei locali del complesso degli Uffizi; nel 1935 fu trasferita nella sua sede attuale, costruita, a partire dal 1911, su progetto dell’architetto Cesare Bazzani, successivamente ampliato dall’architetto Vincenzo Mazzei. La costruzione del complesso, uno dei rari esempi di edilizia bibliotecaria, impiegò le energie cittadine di tutto il primo trentennio del Novecento, dal 1911, con l’interruzione dovuta alla Prima guerra mondiale.
Il luogo scelto per la costruzione era una superficie di 10.000 metri quadrati, occupata all’epoca dalla caserma dei Cavalleggeri e compresa tra il complesso di Santa Croce, il fiume Arno e delimitata a sud dal corso dei Tintori, una dislocazione che si rivelerà tristemente sbagliata in occasione dell’alluvione di Firenze. La prima parte ad essere completata (1929) fu quella della “Tribuna dantesca e galileiana” posta in angolo quindi una parte più monumentale che funzionale, mentre le sale di lettura erano provvisoriamente collocate nel locale della libreria dell’ex convento di Santa Croce.
Il complesso fu inaugurato dal re Vittorio Emanuele III il 30 ottobre del 1935; nello stesso giorno fu pure inaugurata la Stazione di Santa Maria Novella su progetto del Gruppo Toscano guidato dall’architetto Michelucci: da una parte un edificio, la biblioteca, che si richiamava agli stilemi storicisti dell’architettura ottocentesca, dall’altra parte, la stazione, un’opera moderna, degna di stare accanto ai capolavori dell’architettura europea di quegli anni.
All’inaugurazione della nuova biblioteca furono notate alcune carenze riguardo ad alcune funzioni, come gli uffici per il personale o una sede per la sezione rari ed incunaboli, anche a causa della mancata realizzazione di un secondo corpo, previsto nel progetto Bazzani.
Tale porzione fu realizzata solo nel 1962 su progetto dell’architetto Mazzei, saldando l’ala ovest dell’edificio con il complesso del chiostro di Santa Croce. Altre parti del progetto originario non furono mai realizzate, per le critiche all’architettura della facciata ed anche per motivi economici, come l’ampia piazza davanti alla facciata e prospiciente l’Arno, per la quale erano state scolpite le due statue di Dante e Galileo che oggi sono incassate nelle due torrette in cima alla facciata; inoltre si eliminò un attico previsto sulla facciata e tre dei sei magazzini previsti; l’ala nord-ovest avrebbe dovuto avere una facciata simile a quella sull’Arno, ma non fu mai realizzata. L’edificio monumentale, in stile eclettico con qualche accenno Liberty, fu molto criticato, soprattutto per la facciata con le torrette che, al pari dei discussi campanili di San Pietro di Bernini, furono soprannominate “le orecchie dell’architetto”.
Gli spazi interni sono organizzati secondo due assi che si incrociano nell’ampia e monumentale sala di distribuzione: quello parallelo al fiume con gli uffici, le sale per i periodici e le sale di lettura, di distribuzione e dei cataloghi, e quello che dal portico d’ingresso porta sul retro dove ci sono i magazzini librari. L’impianto fortemente classicheggiante presenta numerosi archi e colonne ed uno scalone monumentale. Il salone di lettura, a pianta rettangolare, è caratterizzato da arcate sorrette da colonne con capitelli ionici.
La Biblioteca è aperta dal lunedì al venerdì dalle 8,15 alle 19; il sabato dalle 8,15 alle 13,30
Il contributo dimenticato dell’Italia
Paolo Peluffo
Il Sole 24 ore domenica 18 gennaio 2015
Leggere le pagine, fresche e nitide, del diario* scritto sul fronte italiano dal 1915 al 1918 da George Macaulay Trevelyan è un esercizio che desta meraviglia e stupore negli italiani di oggi. La prima causa di meraviglia è l’ammirazione di Trevelyan per gli italiani.
Un’ammirazione senza limiti, frutto non di fascinazione momentanea ma di uno studio di anni su un popolo che viene descritto come guidato da una classe dirigente colta, educata, moderna, intrisa di ideali rivoluzionari e progressisti. A quarant’anni, il grande storico inglese nato a Stratford-upon-Evon, figlio di un baronetto di tradizione “Whig”, aveva già scritto la sua trilogia su Garibaldi e avrebbe potuto rimanersene comodamente a insegnare nella aule riscaldate di Cambridge, essendo stato giudicato inabile al servizio militare per problemi alla vista. E invece, desiderava talmente partecipare all’ultimo atto del Risorgimento italiano, da convincere il ministero della Guerra britannico a inviarlo in Italia con una unità di ambulanze motorizzate che furono impiegate attivamente dal primo all’ultimo giorno di guerra, in prima linea.
La meraviglia cresce, perché Trevelyan trova conferme concrete pagina dopo pagina per il proprio giudizio positivo .
La prima caratteristica degli italiani al fronte del 1915-1918 appare la loro organizzazione ingegneristica, quasi da antichi romani. Le capacità dell’arma del Genio appaiono superiori agli altri eserciti. Trevelyan assiste alla costruzione di strade che portano automobili fino alle vette alpine, come la strada delle trentadue gallerie sul Pasubio; vede ogni vetta riempirsi in poche ore di migliaia di fili delle teleferiche, e poi pompe idrauliche, uomini che scavano una rete di strade, in pochi giorni. Appena conquistato il Sabotino, in pochi giorni viene traforato e riempito di cannoni in alta quota. La gigantesca e sanguinosa battaglia che porta alla conquista del massiccio della Bainsizza viene fermata proprio dalla scarsità di strade costruite dagli austriaci sul loro fronte. L’offensiva di Caporetto viene favorita dalle strade e dalle magnifiche ferrovie
La seconda caratteristica alla quale Trevelyan allude è la scarsa capacità di comunicazione. Con i suoi uomini lui, lo storico cresciuto al Trinity College di Cambridge, è testimone oculare delle sanguinose battaglie per la conquista del monte Sabotino, di Gorizia, dei boschi di Oslavia, dell’offensiva della Bainsizza, della battaglia del Solstizio sul Piave, combattute con coraggio da leoni da soldati-contadini. Ma a Londra e Parigi si pensò che quello italiano fosse un fronte tranquillo, in fondo secondario. E così si continua a pensare anche oggi, cento anno dopo. Trevelyan, cerca di spiegare ai suoi compatrioti che senza l’enorme sforzo italiano, l’ostinazione, la pianificazione italiana, il fronte occidentale avrebbe ceduto; la Russia sarebbe caduta un anno prima. Ma gli italiani, con la comunicazione non ci seppero fare, e dovettero attendere la Croce Rossa Americana nel 1917 per sviluppare campagne di propaganda interna per motivare e dare fiducia alla popolazione dopo Caporetto.
Desta stupore nel lettore di oggi, vedere uno storico di primo piano come Trevelyan, certo non facile strumento per la propaganda, avvalorare in pieno la tesi del generale Cadorna sullo sciopero dei soldati a Caporetto: soldati reclutati tra gli operai delle fabbriche di proiettili torinesi che avevano partecipato ai moti pacifisti dell’agosto 1917. Ma in ciò, opera la tenace volontà di non rinunciare a idealizzare l’Italia del Risorgimento. In fondo, Trevelyan vede all’opera quegli ideali nel popolo che nel maggio del 1915 impediva, scendendo in piazza, il tentativo giolittiano di tenere l’Italia fuori dalla guerra.
Idealismo contro materialismo, scrive il nostro narratore che in ciò tradisce non solo la sua partigianeria italofila, ma anche la consapevolezza, oggi perduta, che senza l’Italia gli alleati avrebbero perduto la guerra già nel 1916! In quei giorni, torbidi e oscuri, che precedono il 24 maggio, al Teatro Costanzi a Roma, riconoscendo Ricciotti Garibaldi, gli spettatori si alzarono in piedi cantando l’Inno di Garibaldi. Evidentemente, lo conoscevano ancora.
*
George Macaulay Trevelyan, SCENE DELLA GUERRA D’ITALIA, Edizioni di storia e letteratura, Roma, pag.192, Euro 24,00
Pinocchio di Leo Mattioli: una modernità senza tempo
Pinocchio di Leo Mattioli: una modernità senza tempo
Biblioteca Nazionale centrale di Firenze Sala Galileo
Esposizione dal 17 gennaio al 14 febbraio 2015
In occasione della pubblicazione della nuova edizione della celebre illustrazione di Leonardo Mattioli (Firenze, 1928–1999), uno degli storici illustratori fiorentini che ha operato dagli anni ’50 fino agli anni ’90, la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, insieme alle Edizioni Clichy che ne hanno curato la pubblicazione con Giovanni Mattioli, figlio di Leo, organizza una Mostra dedicata alle tavole del grande illustratore fiorentino (fra le quali alcune inedite).Nella Sala Galileo saranno esposte trenta tavole a tempera originali, affiancate dalla citazione del brano a cui si riferiscono. Su cavalletti o espositori verticali saranno collocati pannelli con testi e immagini che completeranno il quadro del contesto artistico, della personalità e dei lavori dell’illustratore, la tecnica, la storia del ‘suo’ Pinocchio, e i suoi schizzi preparatori per un nuovo inedito progetto di Pinocchio. Lungo il corridoio adiacente la Sala Galileo verranno esposte varie edizioni dell’opera collodiana presenti in BNCF. Nell’atrio della Biblioteca saranno riprodotte in grandi dimensioni due tavole, realizzate con sagome di cartone su vari piani, che evidenziano la spazialità compositiva. Una sagoma in cartone di grandi dimensioni della silhouette del Pinocchio aiuterà lo spettatore ad iniziare il percorso. Un opuscolo illustrato con immagini e fotografie raccoglierà i testi sviluppati nei pannelli
Orario: da lunedì a venerdì 10-13 / 15-18; sabato 10 – 13
chiuso domenica e festivi
Un Pantheon degli italiani dopo l’unità nazionale
Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 19 gennaio
C’è una risposta al perché in Italia, nazione cattolica per eccellenza, in tutti i centri abitati e nelle città ci sono vie e piazze intitolate a Giuseppe Garibaldi? Costui non andava dicendo che la Chiesa era «negazione di Dio», «vivaio di vipere», «pestilenziale istituzione»? Non mi sembra che in altri Paesi ci siano altrettante vie o piazze intitolate ai grandi detrattori delle Chiese espressione del culto costà praticato. Alessandro Prandi
Il culto di Garibaldi fu un fenomeno europeo e il suo ruolo, nelle vicende che si conclusero con il compimento dell’Unità, fu tale da oscurare i suoi giudizi sulla Chiesa e sul Papato. Il generale piaceva all’opinione pubblica risorgimentale per le sue gesta e a una larga parte del Paese per il suo socialismo umanitario. Esiste poi un altro fattore non meno importante. La fase che precedette la spedizione in Sicilia fu spesso caratterizzata da liti e bisticci sulle strade da percorrere e le strategie da adottare. Quando Cavour decise che il Piemonte avrebbe combattuto contro l’Austria a fianco della Francia, gli esuli mazziniani di Londra rifiutarono di scendere in campo con il detestabile regime bonapartista di Parigi.
L’episodio è ricordato da Guido Palamenghi Crispi, discendente di Francesco, in un piccolo libro, recentemente pubblicato dalle edizioni P.S., su Repubblica e Monarchia (Il diverbio Mazzini/Crispi).
Fu la prima importante manifestazione di un contrasto che esplose fra il 1864 e il 1865 quando Crispi sostenne, in dura polemica con Mazzini, che l’Italia, per le circostanze in cui aveva realizzato la sua unità, poteva essere soltanto monarchica. Ma questo era soltanto uno dei molti dissensi che avevano diviso la famiglia degli «unitari». Ora, dopo la proclamazione del Regno, occorreva creare l’immagine di una classe dirigente solidale che aveva ardentemente desiderato l’unificazione e aveva affidato le sue sorti alla monarchia sabauda. Mazzini era stato condannato a morte dal governo di Torino, ma era necessario che la sua immagine, nel nuovo Pantheon degli italiani, figurasse accanto a quelle di Cavour e Vittorio Emanuele II. E di Garibaldi, secondo un motto che divenne popolare negli anni successivi, si poteva parlare soltanto bene. Gli storici, più tardi, avrebbero disegnato un quadro più sfumato. Ma «fare gli italiani», come avrebbe detto Massimo d’Azeglio, esigeva forte pedagogia nazionale e giustificava qualche inesattezza. Un altro esempio di conciliazione fra personaggi dalle idee alquanto diverse è nel centro di Milano, sui due lati del lungo rettilineo che collega la medioevale Porta Nuova con piazza dei Mercanti. Sul lato esterno della Porta fu inaugurato nel 1865 un monumento dedicato a Cavour; sul lato opposto, nel 1900, fu innalzato un monumento a Carlo Cattaneo. Il primo voleva un grande Piemonte esteso all’intera penisola. Il secondo diffidava dei Savoia e sognava un Lombardo-Veneto autonomo in uno Stato asburgico profondamente riformato.
Ma Milano amava entrambi e li volle insieme, nel suo centro, anche se a una certa distanza l’uno dall’altro.
Sergio Romano
La Firenze del Primo Novecento nell’opera di Guido Spadolini
Archivio storico del comune di Firenze
Giovedì 15 gennaio è stata inaugurata la mostra “La Firenze del Primo Novecento nell’opera di Guido Spadolini“, all’Archivio Storico del Comune di Firenze (Via dell’Oriuolo, 33-35).
Ottanta opere tra incisioni, dipinti, disegni, fotografie e documenti che mostrano, accanto alla vicenda umana e artistica di Guido Spadolini, una Firenze insolita, fatta di scorci talora familiari talvolta appartenenti al volto ormai scomparso della città.
L’esposizione, che resterà aperta fino al 12 marzo, è promossa dalla Fondazione Spadolini Nuova Antologia in collaborazione col Comune di Firenze, l’Archivio storico comunale di Firenze, la Fondazione il Bisonte e si avvale del patrocinio della Regione Toscana.
Orario: lunedì, venerdì dalle 10.00 alle 14.00; martedì, mercoledì, giovedì dalle 10.00 alle 17.30.
Ingresso gratuito.
Luci sul ’900
Il centenario della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, 1914-2014
Dal 28 ottobre2014 all’8 marzo2015
Per celebrare il centenario della sua fondazione la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti ha voluto dedicare una mostra alle collezioni novecentesche possedute dal museo.
Infatti nonostante la Galleria d’arte moderna sia nota soprattutto per essere il museo che vanta la più vasta e importante, storicamente e qualitativamente, collezione di dipinti macchiaioli al mondo, è probabile che non tutti conoscano l’interessante raccolta di opere novecentesche fino ad oggi relegata nei depositi. che gli pervennero nel corso del secolo stesso con donazioni e acquisti. L’esposizione tende quindi ad attrarre l’attenzione su questo museo nel museo, fino ad ora sommerso per insufficienza di spazi espositivi.
Racconteremo proprio attraverso questa esposizione, grazie al suo taglio storicistico, i tempi e i modi che caratterizzarono le acquisizioni delle opere in Galleria così da evidenziare, attraverso le scelte operate nel corso dei decenni del secolo scorso, i fermenti culturali della Firenze di quel tempo.
Ma, come si accenna nel sottotitolo, è più di una mostra, è la prova per un percorso museale di capolavori per lo più inediti del Novecento, che speriamo possano finalmente trovare, a conclusione dell’esposizione, una collocazione stabile nelle ultime sale di facciata della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti.
Fu l’importante Legato al museo voluto nel 1896 dal critico Diego Martelli, sodale del movimento macchiaiolo, ad evidenziare la necessità che anche a Firenze, come già a Roma e Venezia, vi fosse una Galleria che presentasse al pubblico le proposte dell’arte moderna. La raccolta di opere di importanti esponenti dell’arte ottocentesca toscana, soprattutto macchiaiola, doveva quindi trovare degna collocazione in un percorso che comprendesse anche le novità delle correnti contemporanee.
Nel marzo del 1913 nelle sette sale della Galleria dell’Accademia di Firenze, il Direttore generale del ministero, Arduino Colasanti inaugurava una prima modesta sezione degli spazi museali dedicati all’arte moderna che dieci anni più tardi, nel giugno 1924, sarebbe approdata a Palazzo Pitti nell’attuale sede. Le diverse provenienze delle opere che allora la componevano, consistenti soprattutto nei premi Accademici e nelle raccolte lorenesi e sabaude, erano già in grado di illustrare criticamente la lunga e complessa storia verso la fondazione museale; si trattò di fasi storiche che precedettero e prepararono la successiva stagione culminata con la Convenzione tra Stato e Comune di Firenze stipulata nel giugno 1914; rimaneva però ancora da individuare uno spazio espositivo adeguato ad una collezione in continua crescita.
Le donazioni di opere accolte, oltre agli acquisti allora effettuati finalizzati a comporre il percorso del futuro museo ci permettono di comprendere i criteri di scelta che vennero adottati da quella Commissione, tuttora vigente, che era stata istituita e giuridicamente prevista dalla Convenzione e che aveva proprio e soprattutto l’incarico di accrescere, secondo precise indicazioni critiche, il patrimonio del museo.
Nella selezione delle opere esposte sono state scelte quelle dei principali interpreti della cultura figurativa italiana del ‘900: Felice Carena, Felice Casorati, Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis, Gino Severini, Giuseppe Capogrossi, Guido Peyron, Ottone Rosai, che contrappuntano quelle, prevalenti per quantità, degli esponenti del gruppo del “Novecento toscano” di Baccio Maria Bacci, Giovanni Colacicchi e degli altri sodali, vicini al clima della rivista Solaria ed al ritrovo canonico della cultura fiorentina, il caffè delle “Giubbe Rosse”, che resero la città negli anni Venti un fertile centro di incontro dei migliori artisti ed intellettuali italiani.
In mostra le opere acquistate alle varie edizioni delle biennali veneziane tra il 1925 ed il 1945, alla Quadriennale Romana del 1935, e a quelli, molto più numerosi, operati in sede locale presso la Società di Belle Arti di Firenze e soprattutto delle Sindacali Toscane, dedicate alla cultura figurativa regionale, ove vennero comprate, fra le altre, opere di Giovanni Colacicchi, Ottone Rosai, Alberto Magnelli, Oscar Ghiglia, Achille Lega, Ardengo Soffici, Lorenzo Viani, Libero Andreotti, Italo Griselli etc.
Oltre a questi ingressi non meno rilevanti erano quelli che giungevano grazie ai doni, testimonianza, con la loro crescente frequenza, di un rapporto sempre più stretto tra la Galleria d’arte moderna e la città.
Gli anni del dopoguerra furono caratterizzati da una stasi nell’attività di acquisizioni di opere da parte della Commissione; tuttavia a partire dal 1950, per i successivi venti anni, la Galleria aggiornò comunque le proprie collezioni del Novecento grazie all’ingresso delle opere premiate alle varie edizioni del Premio del Fiorino, che lo statuto della stessa manifestazione destinava al museo.
Queste opere, del resto, sono l’unica testimonianza efficace della cultura figurativa italiana di quegli anni e rappresentano un significativo incremento di dipinti dovuti alla mano di Felice Casorati, Filippo De Pisis, Primo Conti, Fausto Pirandello, Vinicio Berti, Fernando Farulli, Sergio Scatizzi, Corrado Cagli.
Rilevanti, poiché documentano un deliberato interesse della Commissione verso la contemporaneità, appaiono invece quegli acquisti conclusi, in via del tutto straordinaria, alla II° Esposizione Internazionale della Grafica del “Fiorino” del 1970: Burri e Jasper Jones.
Il percorso della mostra termina con la presentazione delle ultime acquisizioni volute dalla Commissione operate negli ultimi trenta anni della sua attività, dal 1985 ad oggi: tra queste Confidenze di Armando Spadini, la Mascherata di Mario Cavaglieri, già in collezione Longhi, e una bellissima Veduta di Grizzana di Giorgio Morandi, dedicata all’amico Ragghianti.
Enti promotori
Ministero per i beni e le attività culturali
Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Firenze
Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana
Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti
Comune di Firenze
Ente Cassa di Risparmio di Firenze
Progettazione
Mauro Linari
Cura
Simonella Condemi e Ettore Spalletti
Catalogo
Sillabe
Biglietto
Intero € 13,00
Ridotto € 6,50
Orario
8:15 – 18:50
Lo Stadio Comunale di Firenze
In questi mesi si sta decidendo la costruzione di un nuovo stadio di calcio nella zona di Novoli-Castello nella direttrice urbanistica nord-est di Firenze. Merita pertanto di ricordare il vecchio stadio , al momento ancora in funzione, in quanto considerato dagli storici dell’architettura una delle opere più significative sia da un punto di vista estetico che costruttivo negli anni del Fascismo. Va pure ricordato che la zona scelta allora per la realizzazione dello stadio, Campo di Marte, nell’Ottocento, negli anni di Firenze Capitale, era stata prevista nel piano Poggi come area di esercitazioni e di infrastrutture militari in una lungimirante e moderna visione di espansione urbana di Firenze
La struttura, situata nel quartiere di Campo di Marte e costruita tra il 1930 e il 1932, fu progettata dall’ingegnere Pier Luigi Nervi su iniziativa del marchese Luigi Ridolfi da Verrazzano ed è ricca di elementi innovativi e avveniristici per l’epoca, come la pensilina priva di sostegni intermedi, le scale elicoidali e la torre di Maratona.
Agli inizi del XX secolo, nel capoluogo toscano il calcio veniva giocato dalle varie squadre della città presso il parco delle Cascine, in particolare nel prato del Quercione.
Il primo presidente della Fiorentina fu il marchese Luigi Ridolfi da Verrazzano; appartenente a una delle più antiche famiglie nobili della città, il marchese, che all’epoca era anche segretario generale del Fascio di Firenze, ritenne necessaria, ancora prima di fondare la società, la costruzione di un grande impianto cittadino, che potesse competere con le altre strutture calcistiche dell’epoca
Il marchese Ridolfi aveva conosciuto Nervi qualche anno prima, quando gli aveva commissionato la costruzione della tribuna dello stadio d’atletica dell’Assi Giglio Rosso, lungo Viale dei Colli. Nel luglio dello stesso anno il Comune ottenne dal Ministero della Guerra una porzione della piazza d’armi nell’area di Campo di Marte, attraverso la mediazione svolta dal marchese Ridolfi — pluridecorato della prima guerra mondiale — presso le istituzioni politiche, sportive e militari.
L’ingresso principale fu progettato da Alessandro Giuntoli, architetto capo dell’Ufficio edilizia del Comune ed è la parte più monumentale e classicheggiante del complesso; all’Ufficio Tecnico di Palazzo Vecchio, diretto dall’ingegner Pelleschi, e a Fiorenzo De Reggi spettò inoltre la disposizione generale del campo da gioco, le sistemazioni interne e la distribuzione dei locali sotto le tribune dove erano previste due palestre, di cui una di 1 400 m², che aveva anche corsie per l’allenamento invernale delle corse podistiche, oltre allo studio del medico sportivo, agli spogliatoi, ai servizi igienici e ad alcune abitazioni per gli atleti con camere e soggiorno.
L’originalità, il carattere innovativo e la pregevolezza dell’opera nel suo coniugare la raffinatezza estetica e il rigore strutturale con le eleganti e ardite strutture in cemento armato furono apprezzate dagli addetti ai lavori; i giornali definirono lo stadio «un’opera ricca, poderosa e coraggiosa». Nella Prolusione all’anno accademico 1931-32, Raffaello Brizzi, direttore della Scuola Superiore di Architettura di Firenze, lodava la «nuova fabbrica dello stadio che intesa nel suo carattere, ha pregi notevoli di volumi ritmicamente disposti e composti in un ardito e solenne organismo costruttivo». Anche la Rassegna del Comune sottolineava la «bellezza» della costruzione mentre, dalle pagine di Architettura, Giovanni Michelucci ne esaltava lo «schietto carattere moderno».
Ritenuto un capolavoro dell’architettura italiana degli anni trenta, se ne evidenzia anche l’assoluta eccezionalità nel panorama della produzione architettonica fiorentina dell’epoca. Uno dei maggiori allenatori degli anni venti e trenta, Hugo Meisl, tecnico del Wunderteam austriaco, descrisse il nuovo impianto fiorentino come «il migliore stadio del mondo sia dal punto di vista strettamente estetico che da quello della funzionalità delle sue attrezzature sportive e della comodità per il pubblico: un’opera all’altezza di Firenze»